mercoledì 21 febbraio 2018

Repubblica 21.2.18
Il fantasma di un’altra Sarajevo
di Paolo Garimberti


C’è davvero il rischio che Damasco diventi la Sarajevo del secolo Duemila, la miccia di un conflitto che si allarga per cerchi concentrici fino a diventare globale? Non è più una domanda astratta o retorica. Ma un quesito di un drammatico realismo. La guerra civile siriana, che dura ormai da sette anni, ha risucchiato in un’escalation inesorabile una serie di attori regionali e internazionali, che sembrano incapaci di districarsi da una palude in cui affondano ogni giorno di più.
Elenchiamo, in ordine sparso, i fatti che sono accaduti nelle ultime settimane. Un caccia F- 16 israeliano è stato abbattuto dalla contraerea siriana mentre tornava da un raid di rappresaglia, dopo che un drone iraniano lanciato dalla Siria era stato distrutto nel cielo di Israele. Un aereo russo è stato abbattuto da jihadisti vicino a Idlib. Un elicottero turco è stato distrutto dai curdi siriani, sostenuti dagli Stati Uniti ma sotto attacco da parte di un altro Paese membro della Nato, cioè la Turchia. Paramilitari russi sono stati uccisi dall’aviazione americana mentre cercavano di prendere il controllo di un giacimento petrolifero: ieri il ministero degli Esteri di Mosca ha confermato che i «cittadini russi o dell’ex Urss» uccisi o feriti sono «diverse decine», dopo che in un primo momento le fonti ufficiali russe avevano parlato di cinque morti e il Pentagono aveva alzato la cifra «fino a 200».
Intanto l’aviazione di Bashar al-Assad continua a martellare Ghouta, l’enclave vicino a Damasco, in mano ai ribelli e sotto assedio da cinque anni, dove negli ultimi due giorni ci sono stati quasi 250 morti di cui almeno 50 bambini. Ghouta sta diventando una seconda Aleppo, la cui caduta nel 2016 sembrò segnare una svolta nella guerra civile siriana. Per completare il quadro, il presidente turco Erdogan ha annunciato l’attacco finale ad Afrin per sottrarla al controllo delle milizie curde dell’Ypg, che avrebbero stretto un accordo con l’esercito governativo siriano, pronto a una controffensiva per aiutare i curdi a difendersi dai carri armati turchi.
Tutti, in questa spirale senza fine, sembrano prigionieri di se stessi, dei loro odi e delle loro ambizioni, oltre che delle loro debolezze. Assad, resuscitato dai russi e dagli iraniani, vuole riconquistare più terreno possibile in vista di un eventuale, e sempre più remoto, negoziato di pace, sostenuto nella sua feroce determinazione dal cinismo di Mosca, che giustifica il massacro di civili a Ghouta, così come fece ad Aleppo, con la ragion di Stato. Erdogan, ossessionato dall’ipotesi di uno Stato curdo così come lo è dai veri o presunti seguaci di Gulen condannati al carcere da una magistratura servile, è pronto a sfidare gli Stati Uniti e a mettersi di nuovo in rotta di collisione con Putin pur di allontanare la minaccia curda dai suoi confini.
Il presidente russo sembrava poter essere l’arbitro del conflitto, dopo i successi dell’intervento militare a sostegno di Assad iniziato nel 2015. L’unico sponsor credibile per un negoziato di pace tenuto conto dei buoni rapporti di Mosca con tutti gli attori regionali: l’Iran, la Siria, la Turchia e anche Israele. Ma la conferenza di Sochi, il mese scorso, è stata un flop totale, disertata dall’opposizione e snobbata dai rappresentanti di Damasco, che hanno respinto una proposta delle Nazioni Unite e della stessa Russia per una nuova Costituzione. Gli altri due co-sponsor della conferenza, Iran e Turchia, sono arrivati ai ferri corti tra loro dopo che le milizie filo-iraniane hanno bombardato un convoglio turco in Siria, con il tacito consenso dei russi. Ma Putin, in un anno elettorale, deve fare i conti anche con un’opinione pubblica interna, che dopo la tragica esperienza in Afghanistan è estremamente riluttante verso gli impegni militari all’estero: secondo un recente sondaggio meno di un terzo degli intervistati si è detto a favore. Le notizie di queste ultime ore sui mercenari russi morti in Siria ( che tra l’altro sarebbero dei “ contractors” di un’agenzia partecipata da Evgenyij Prigozhin, il “ cuoco di Putin” implicato anche nel Russiagate) possono aumentare il malumore dei russi sull’intervento nel Paese. Putin non rischia certo di perdere l’elezione presidenziale. Ma è ossessionato dall’astensionismo: meno del 70 per cento dei votanti sarebbe una soglia considerata una sconfitta dal Cremlino. E le cattive notizie non favoriscono l’afflusso alle urne.
Ma se Mosca non ride, Washington piange. L’insipienza internazionale di Trump e, purtroppo, anche di molti suoi collaboratori, a cominciare dal segretario di Stato Tillerson, ha reso ancora più irreversibili l’impotenza militare e l’inerzia diplomatica che la miopia di Obama avevano già creato, focalizzando tutta la strategia americana in Siria soltanto sulla lotta al cosiddetto Stato islamico.
In questa ragnatela di impotenza e di cinismo c’è l’incognita gigantesca di Israele. Che finora ha evitato di intervenire direttamente in Siria, anche se dal 2013 ha condotto più di cento attacchi aerei contro postazioni degli Hezbollah. Ma il reperto del drone distrutto, che Netanyahu ha teatralmente mostrato alla conferenza di Monaco chiamando in causa il ministro degli Esteri di Teheran, è servito a lanciare un messaggio preciso, tracciando una linea rossa nella geopolitica del conflitto. Il premier israeliano, che si sente spalleggiato in questo da Usa e Arabia Saudita, non potrà mai tollerare che la guerra in Siria, con i giochi incrociati tra Teheran, Damasco, Mosca e gli Hezbollah, sia l’occasione per creare una sorta di ponte terrestre tra l’Iran e il Mediterraneo.
Se questa linea rossa venisse superata circoscrivere la guerra civile siriana diventerebbe impossibile. E allora sì che Damasco potrebbe essere la Sarajevo del nostro secolo.