Corriere 21.2.18
Il fronte settentrionale
Sulle colline dei curdi arrivano i rinforzi di Assad «Batteremo i turchi»
Spari e proclami. «Abbiamo già sconfitto Isis, siamo pronti»
dal nostro inviato a Manbij (Siria) Lorenzo Cremonesi
«Se
i turchi vengono sulla nostra riva, noi spariamo», dicono i curdi.
L’acqua scorre tranquilla, inconsapevole delle tensioni che la
circondano. Perché anche qui, come da tempo immemorabile nei conflitti
tra gli uomini, dove predominano pianure piatte e pochi ostacoli
naturali, sono i fiumi a segnare i confini. E così è per questa regione
di guerre antiche, dove oggi sono ancora l’Eufrate e i suoi affluenti a
caratterizzare i contorni del nuovo braccio di ferro tra curdi, turchi e
lealisti siriani assieme ai loro alleati regionali e persino i comandi
russi e americani. «Erdogan vorrebbe costringere noi curdi con i nostri
amici del contingente americano a Est dell’Eufrate. Ma non ci riuscirà.
Afrin è nostra e la difenderemo, come del resto anche Manbij e le altre
zone a Ovest del grande fiume», spiegano i portavoce delle Ypg, che sono
le milizie curde siriane di Rojava, la regione del Nord-est che dallo
scoppio delle sommosse contro il regime di Assad sette anni fa è di
fatto diventata indipendente. «Qui 200 metri davanti a noi scorre lo
Sajur, un affluente dell’Eufrate, che sino alla fine del 2016 bagnava
anche il cuore delle zone controllate da Isis, e adesso divide le nostre
posizioni avanzate da quelle appena prese dall’esercito turco», dice
Akef Manbi, il 25enne comandante del punto di osservazione «Judy». Gli
ordini per il suo plotone che da oltre un anno pattuglia la zona sono
chiari: fare fuoco se i turchi attraversano lo Sajur. Nel caso la
situazione si facesse critica, molto possibile visto che hanno in
dotazione solo Kalashnikov per fronteggiare i blindati pesanti mandati
da Erdogan, avvisino subito il comando centrale a Manbij, una ventina di
chilometri più a Est, che a sua volta chiederà la copertura aerea
americana.
Siamo arrivati in questo settore ubertoso di colline
dolci, puntellate da campi coltivati, serre curate, alberi di melograno,
e uliveti proprio mentre lo scenario bellico sta radicalmente
cambiando. Se l’attacco turco del 20 gennaio contro i curdi nella loro
enclave di Afrin, una cinquantina di chilometri in linea d’aria da qui,
aveva colto anche i loro alleati americani di sorpresa ed era apparso
che Erdogan potesse rapidamente guadagnare terreno, da ieri per lui la
situazione si è complicata. In mattinata infatti i comandi dello Ypg ad
Afrin si sono accordati con il regime di Damasco perché questi invii
unità in prima linea contro i turchi. Nel pomeriggio le tv siriane,
rilanciate da quelle curde, trasmettevano in diretta l’arrivo dei
convogli ad Afrin sventolanti le bandiere con le due stelle del regime
assieme ai ritratti di Assad. La reazione di Erdogan non si è fatta
attendere. Nell’arco di un paio d’ore ha definito «terroristi» i
contingenti siriani e ordinato alle sue artiglierie di fare fuoco contro
di loro. Poco importa che a Damasco si specifichi che i nuovi arrivati
sono «milizie alleate» e che l’esercito siriano non è coinvolto. Fatto
sta che adesso Assad si schiera con i curdi e complica anche i piani
dell’alleato Vladimir Putin, il quale un mese fa era stato ben contento
di ritirare i propri soldati da Afrin pur di fomentare gli attriti
turco-americani.
Dal punto di vista curdo per il momento la
cooperazione con Damasco è puramente tattica. «Noi di Rojava non
commetteremo l’errore dei curdi iracheni, i quali con il referendum
azzardato del settembre scorso per l’indipendenza da Bagdad si sono
cacciati in un vicolo cieco, mettendo a rischio la loro stessa
autonomia. Noi pensiamo invece ad una futura Siria federale e
democratica, dove comunque resteremo parte dello Stato. Ma i tempi non
sono ancora maturi. La dittatura prima di tutto deve terminare», ci
spiega la 47enne Mizgin Ehmet, alta responsabile politica di questo
esperimento sociale unico, caratterizzato da un forte senso laico,
elementi di socialismo ed una fede profonda nelle sue unità militari
composte da giovani donne e uomini. Per il momento i curdi sono
consapevoli che nel caos violento della Siria, dove tanti attori
combattono per spartirsi le regioni abbandonate dal Califfato, battuto
ma non ancora totalmente sconfitto, la loro migliore garanzia resta il
sostegno americano. Stimano di avere perso oltre 7.000 tra soldati e
soldatesse dal 2011 ad oggi. Almeno un centinaio nella sola Afrin. I
loro lutti sono testimoniati dai cimiteri militari, dalle fotografie dei
loro «martiri» appese ai muri, sventolanti ai posti di blocco, nei
mausolei, lungo le strade sulle rovine di Kobane. «Gli americani sanno
che noi siamo stati sempre in prima linea contro Isis. Perché voi
europei ve ne siete dimenticati? Perché non ci aiutate contro Erdogan?»,
chiede polemico il 40enne Nurui Mahmud, massimo portavoce delle Ypg
incontrato a Qamishli.
Nel settore di Manbij circa 300 soldati
americani sono posizionati nella base a sei chilometri dal villaggio di
Arima, dove inizia il controllo dell’esercito siriano sino alla zona di
Aleppo e verso Idlib. Un paio di chilometri a Nord i turchi si stanno
trincerando. Di notte sparano occasionalmente verso le postazioni curde,
ma evitano accuratamente di colpire gli americani. Ufficialmente il
passaggio di Arima sarebbe chiuso. «Ma noi corrompiamo i soldati siriani
e grazie all’aiuto dei contrabbandieri locali facciamo arrivare armi e
munizioni di rinforzo ai nostri compagni asserragliati ad Afrin», dicono
i curdi assieme alle locali milizie sunnite loro alleate (almeno per il
momento). «Ogni tanto nel cielo sfrecciano i caccia turchi. Ma anche
quelli americani. E gli americani ogni tre o quattro giorni effettuano
pattuglie lungo il fronte con tre blindati scortati dai loro droni che
controllano dall’aria», spiegano alla postazione chiamata «Shaid Hugur».
I curdi sono in terreno difficile. Qui sino a poco fa Isis dominava.
Jarablus, una nota roccaforte jihadista, è solo a tre chilometri di
distanza. E nel 2016 la stessa città di Manbij ospitava un grande campo
di addestramento per i volontari stranieri di Isis in arrivo dal confine
turco. Le notti sono lunghe: «Ogni tanto col buio qualcuno cerca di
mettere mine sui percorsi dei nostri mezzi. Sino ad ora le abbiamo
individuate. Ma dobbiamo restare vigili».