mercoledì 21 febbraio 2018

Repubblica 21.2.18
L’invasione culturale
Pechino in Africa investe nelle università “Ma studiate il cinese”
Quaranta milioni per la biblioteca di Dar es Salaam: metà all’istituto Confucio
di Raffaella Scuderi


Dopo ponti, dighe, ferrovie, strade, aeroporti e porti, la Cina conquista l’Africa con l’imposizione dei suoi modelli culturali, sociali e linguistici.
Confucio, per esempio, arriva all’università di Dar es Salaam con un team di insegnanti di lingua e cultura cinesi. Perché a fine giugno saranno ultimati i lavori di una grande biblioteca nel complesso accademico della capitale commerciale tanzaniana.
L’hanno finanziata con ben quaranta milioni di dollari i cinesi di “ Hanban”, società del ministero dell’Istruzione di Pechino. Sarà composta da due edifici: una libreria e l’Istituto di Confucio, dove gli studenti potranno apprendere la lingua e la cultura cinese.
Metà dell’investimento è destinato a studi africani, metà allo studio di Confucio e ai corsi di cinese.
Dal 2004 di questi istituti ne sono stati aperti 516 in 142 Paesi, di cui 40 in Africa.
Zimbabwe, Zambia e ora Tanzania. Il neocolonialismo cinese sta facendo passi avanti e diventa sempre più audace.
Se nel 2003 gli africani che studiavano il cinese erano duemila, nel 2015 sono diventati 50mila. La lingua è sempre stata una barriera non trascurabile nei rapporti tra il continente e Pechino. Negli ultimi venti anni la Cina è diventata il primo partner commerciale dell’Africa: commercio, investimenti, infrastrutture e aiuti. Ora la cultura.
Nei secoli passati i missionari europei contribuirono a cancellare nel continente le poche tracce — poche perché orali — dell’identità africana, con l’imposizione dei propri valori, delle lingue e dei beni considerati superiori.
Dall’inizio del XXI secolo gli affari sino- africani sono aumentati del 20 per cento annuo. A fine 2016 sul continente operavano diecimila imprese cinesi, il 90 per cento private. Africani l’ 89 per cento dei lavoratori.
Nella maggior parte dei casi, come denuncia la Human Rights Watch, i cittadini africani lavorano però in condizioni disumane: senza contratto e senza neppure ventilazione nelle miniere, causa — questa — di serie malattie polmonari.
Il 44 per cento del management è locale. Che non è poco, viste le consuetudini africane, ma non è neanche definibile un gran successo.
Nel 2001 gli investimenti cinesi in Africa ammontavano a 13 miliardi; nel 2015, 188. In Tanzania, secondo gli ultimi dati diffusi nel 2014, i cinesi hanno investito 4 miliardi.
La biblioteca tanzaniana è stata ora accolta con grande entusiasmo. Dai vertici del Paese, non dalla base. Chi non plauderà saranno sicuramente gli intellettuali africani. Primo fra tutti Ng?g? wa Thiong’o, raffinato scrittore kenyano in odore di Nobel, che da anni ripete all’Africa tutta che uno dei passi essenziali per la liberazione del continente dal giogo del debito occidentale, con il fine ultimo di ritrovare la propria identità, consiste proprio nel recupero dell’uso delle lingue africane.
A inaugurare due anni fa le fondamenta della biblioteca era stato il presidente tanzaniano, John Magufuli, l’uomo che ha messo le manette alle ragazze adolescenti rimaste incinte durante l’anno scolastico, vietando loro di continuare gli studi. Le ha lasciate a casa, in attesa di partorire i figli di abusi, stupri e altri abomini. La danza dei leoni e dei dragoni, come ebbe modo di titolare il report di luglio 2017 sui rapporti Cina-Africa, l’americana McKinsey & Company, una delle più importanti società di consulenza finanziaria e manageriale del mondo, sembra concludersi con la vittoria dei dragoni sui leoni. Altro che danza.