martedì 20 febbraio 2018

Repubblica 20.2.18
Le relazioni pericolose tra l’arte e la follia
di Susanna Nirenstein


Che relazione c’è tra follia e impulso creativo? Nel giugno 1945 il pittore francese Jean Dubuffet, l’architetto Charles- Edouard Jeanneret ( meglio noto come Le Corbusier) e l’editore Jean Paulhan partirono per un giro in Svizzera organizzato dall’ente del turismo: verdi colline, laghi, stupefacenti montagne. Ma Dubuffet, preso da tutt’altro, si mise invece a visitare almeno mezza dozzina di ospedali psichiatrici in cui raccolse disegni e quadri: gli interessava arricchire la raccolta di opere d’arte, che aveva già iniziato a collezionare, realizzate da malati di mente. Al Waldau Asylum, fuori Berna, vide per la prima volta i 25mila tra testi, bozzetti, collage, composizioni musicali in cui Adolf Wölfli ( 1844- 1930), un artista orfano violentato e a sua volta violentatore, aveva reimmaginato la storia della sua infanzia e sognato il suo futuro: quando a Parigi André Breton guardò quelle cartelle le definì « una delle tre o quattro opere più importanti del XX secolo » . Dubuffet si prese anche le illustrazioni di Heinrich Anton Mueller, un depresso grave: più tardi qualcuno paragonò i suoi disegni di Eva con il serpente alle pennellate di Chagall. Ora tutta la la collezione di Dubuffet — sulla cui base l’artista fondò, con Breton e Tapié, la Compagnie de l’Art Brut — è ora finalmente visibile, in una mostra intitolata La Folie en Tête, in corso alla Maison de Victor Hugo a Parigi fino al 18 marzo.
Ma dunque che arte e malattia mentale corrano insieme è vero o è un mito? Se lo chiede la raffinata rivista americana The Paris Review, a partire proprio dalla mostra parigina. Per rispondere che non c’è nessuna prova scientifica a sostegno del legame tra le due sfere. È vero, secondo uno studio della Johns Hopkins, che le menti creative ( soprattutto i poeti) soffrono di depressione da 10 a 30 volte più spesso della popolazione media. Ed è incontrovertibile che siano abitati spesso da disturbi dell’umore, compresa la bipolarità, o l’alcolismo. Ma molti scienziati sostengono che la sofferenza possa diventare arte solo nei momenti di calma e stabilità. Un esempio per tutti? Vincent van Gogh, naturalmente: nelle sue lettere non c’è traccia che la malattia mentale aumentasse ispirazione e pittura, anzi, era preoccupato che la sofferenza potesse rubargli i momenti quieti in cui riusciva a realizzare.
Rendendo più credibile quel che raccomandava Flaubert: « Nella vita siate regolari e ordinati, così da poter essere violenti e originali nel vostro lavoro » .