Repubblica 20.2.18
Berlinale di sangue tra Utoya e Entebbe
di Arianna Finos
BERLINO
Il norvegese Erik Poppe porta alla Berlinale i settantadue
agghiaccianti minuti del massacro, raccontato in tempo reale e dal punto
di vista delle vittime, messo in atto nell’isola di Utoya da un
estremista di destra il 22 luglio del 2011.
Il brasiliano José
Padilha ricostruisce invece i sette giorni di Entebbe, il dirottamento
dell’Air France e la liberazione degli ostaggi dell’esercito israeliano
in Uganda, nel 1976.
Una cronaca di sangue, quella che si vede
sugli schermi della rassegna tedesca, nella giornata in cui la critica
internazionale esalta l’unico film italiano in concorso, Figlia mia, di
Laura Bispuri e 160 filmmaker (tra cui anche molti italiani) lanciano un
appello alle autorità per affontare le criticità del cinema futuro,
dalla pirateria al dirittod’autore.
«Il mio film è un antidoto al
terrorismo neofascista che sta rialzando la testa in Europa», spiega il
regista del suo U- July 22, in concorso. Un’unica sequenza per
raccontare della strage dalla prospettiva di uno dei cinquecento ragazzi
del campeggio pacifista sulla piccola isola al largo di Oslo. A cadere
sotto i colpi dell’estremista furono in 69. «Per raccontare la verità
occorre la finzione», dice Poppe che apre il film con le immagini vere
della bomba a Oslo di qualche ora prima e poi ci porta sull’isola con
Kaja, una degli adolescenti. «Un personaggio inventato, perché portare
una storia in primo piano avrebbe fatto sembrare meno importanti le
altre». Kaja parla al telefono con la mamma, discute con la sorella che
non vuole seguirla al barbeque. Commenta con gli amici la bomba di Oslo,
poi gli spari e l’inizio dell’incubo: non si sa quanti siano gli
aggressori, c’è chi pensa a un’esercitazione.
Li confonde il fatto
che chi spara è vestito da poliziotto. Inizia il pellegrinaggio di
Kaja, la macchina da presa è su di lei e non si stacca mai, alla ricerca
della sorella tra i ragazzi in fuga, chi si nasconde tra i cespugli,
chi cerca la fuga a nuoto. Un bimbo paralizzato dalla paura nel suo
impermeabile giallo, un’adolescente in fin di vita, i corpi a
galleggiare, quelli riversi a terra. Qualche minuto di quiete, Kaja
racconta la sua passione per la politica, canta, per un attimo
dimentica.«Non c’era posto per l’happy ending, volevamo lasciare però un
filo di speranza».
Il film, ben girato, solleva qualche dubbio etico. Ma il regista e le sceneggiatrici rivendicano la correttezza dell’operazione.
Sopravvissuti
e parenti delle vittime sono stati consultati in ogni fase. Tre di loro
hanno accompagnato U- July 22 a Berlino: «Ci si è troppo concentrati
sul terrorista e le sue motivazioni, intanto il ricordo dei fatti
svanisce. In Norvegia non si riesce a decidere dove mettere un monumento
ai caduti. Il nostro non è un monumento ma spero riesca ad esprimere la
nostra rabbia collettiva». «Quest’opera è utile perché non siamo in
grado di raccontare a parole ciò che abbiamo vissuto - dice Ingrid, una
delle sopravvissute – bisogna mostrare quello a cui l’estremismo di
destra arriva nella sua forma più mostruosa.
Dobbiamo insegnare alla nostra società che bisogna combatterlo».
È
un terrorismo più lontano nel tempo quello di José Padilha, in 7 day in
Entebbe ricostruisce il sequestro dell’Air France diretto a Tel Aviv,
lo scalo in Uganda e il blitz dell’esercito israeliano per liberare gli
ostaggi, nel 1976. Il tentativo, è quello di un cinema alla
Costa-Gavras, che il cineasta brasiliano cita come suo modello (ma con
altri risultati) proponendo «una versione diversa da quelle solo
militari viste finora». E «uno stallo politico che dura ancora oggi».