Repubblica 20.2.18
Nelson Mandela
Non volevo essere presidente
Gli
appunti che compongono l’ultima parte dell’autobiografia, adesso in
uscita in Italia, svelano il lato inedito del leader sudafricano E il
suo scetticismo alla vigilia dell’elezione che gli avrebbe cambiato la
vita
La carica di primo presidente democraticamente
eletto nella storia della Repubblica del Sudafrica mi fu praticamente
imposta contro la mia volontà. Quando la data delle elezioni generali
era ormai vicina, tre leader dell’Anc mi comunicarono di aver condotto
ampie consultazioni all’interno dell’organizzazione e che la decisione
unanime era stata che, nel caso in cui avessimo vinto le elezioni, io
sarei dovuto essere presidente. Questo, mi dissero, era ciò che
avrebbero proposto al primo incontro del nostro comitato direttivo
parlamentare.
Io mi dissi contrario a quella decisione, per il
fatto che quell’anno avrei compiuto settantasei anni e che sarebbe stato
ben più saggio trovare un candidato più giovane, uomo o donna che
fosse, che avesse vissuto fuori di prigione, incontrato capi di Stato e
di governo, preso parte a incontri di organizzazioni locali e mondiali,
qualcuno addentro agli ultimi eventi nazionali e internazionali e che
fosse in grado, per quanto possibile, di prevedere il corso futuro di
tali eventi. Dissi che avevo sempre ammirato quegli uomini e quelle
donne che avevano posto le proprie doti al servizio della comunità, e
che si erano guadagnati rispetto e ammirazione in virtù dei loro sforzi e
sacrifici, anche se non svolgevano alcuna funzione all’interno del
governo o della società. La combinazione di talento e umiltà, la
capacità di essere a proprio agio con i poveri cosi come con i ricchi,
con i deboli e i potenti, con la gente comune e i reali, con i giovani e
i vecchi – gli uomini e le donne dotati di una sintonia con la gente, a
prescindere dalla loro razza e provenienza, sono oggetto di ammirazione
da tutto il genere umano in ogni parte del mondo.
L’Anc è sempre
stato pieno di uomini e donne di talento, che hanno preferito rimanere
nelle retrovie destinando giovani promettenti a posizioni di prestigio e
di responsabilità, al fine di metterli di fronte ai principi basilari e
ai problemi della leadership sin dagli inizi della loro carriera
politica, e anche al modo in cui gestire tali problemi. Il leader ha
sempre suscitato un’impressione formidabile su molti di noi. Il compagno
Walter Sisulu è un uomo del genere; e questo spiega perché egli ci
abbia sempre sovrastati, indipendentemente dalle funzioni che
ricoprivamo nel movimento o nel governo.
Insistetti con quei tre
leader che avrei preferito dare il mio contributo senza assumere alcun
ruolo nel movimento o nel governo. Ma uno di essi mi mise al tappeto. Mi
ricordo che avevo sempre perorato la crucialità della leadership
collettiva, e che finché avessimo tenuto fede scrupolosamente a un
simile principio non avremmo mai sbagliato. Senza mezzi termini, mi
chiese se non stessi ripudiando ciò che predicavo da anni.
Sebbene
tale principio non fosse mai stato inteso a escludere la strenua difesa
di ciò in cui si crede, decisi di accettare la loro proposta. In ogni
caso, misi in chiaro che avrei svolto un solo mandato.
La mia
dichiarazione sembrò coglierli di sorpresa – risposero che avrei dovuto
lasciarlo decidere all’organizzazione –, ma io non volevo che vi fossero
ambiguità in merito. Poco dopo la nomina a presidente, annunciai
pubblicamente che avrei svolto un unico mandato e che non avrei cercato
di essere rieletto. Agli incontri dell’Anc rimarcavo spesso che non
volevo compagni deboli, burattini che accettavano supinamente tutto
quello che dicevo solo perché ero il presidente dell’organizzazione.
Auspicavo
un rapporto sano in cui potessimo discutere delle questioni non come
servo e padrone, ma da pari a pari, in cui ogni compagno potesse
esprimere le proprie opinioni liberamente e in modo franco, senza timore
di essere angariato ed emarginato.
Per esempio, una delle mie
proposte che aveva suscitato molta rabbia e clamore era stata
l’abbassamento dell’età per votare a quattordici anni, una misura che
era già stata adottata da vari paesi nel resto del mondo.
Questo
perché, in quei paesi, i giovani all’incirca di quell’età erano
impegnati in prima linea nelle lotte rivoluzionarie. Era stato proprio
il loro contributo a indurre i governi vittoriosi a premiarli concedendo
loro il diritto di voto. La mia proposta incontrò un’opposizione
talmente violenta e schiacciante da parte del Comitato esecutivo
nazionale, che fui costretto a battere in ritirata. Il quotidiano The
Sowetan caricaturò la vicenda pubblicando una vignetta con un neonato
con il pannolino intento a votare. Fu uno dei modi più vividi con cui
venne messa in ridicolo la mia idea. Non ebbi più il coraggio di
insistere ulteriormente. Ci sono stati, tuttavia, dei casi in cui non mi
sono sentito vincolato dal principio della leadership collettiva. Per
esempio, quando respinsi senza esitazione la decisione di una conferenza
programmatica in base alla quale il governo avrebbe dovuto essere
nominato dalla conferenza stessa. Inoltre, rifiutai la prima rosa di
negoziatori con il regime dell’apartheid fornita dall’Anc, che ci fu
consegnata dalla leadership a Lusaka.
Degli undici nomi presenti, otto appartenevano a un unico gruppo etnico composto di neri e non c’era una sola donna.
Ricapitolando,
il principio della leadership collettiva, di lavoro di squadra, non è
uno strumento rigido e dogmatico da applicare meccanicamente senza
tenere conto delle circostanze.
Deve essere sempre esaminato alla luce delle condizioni predominanti.
In
qualità di presidente dell’Anc e del paese, esortavo i membri
dell’organizzazione, del governo e i parlamentari a parlare senza remore
agli incontri dell’Anc e del governo.
Ma immancabilmente li
avvisavo che essere schietti non significava affatto essere disfattisti o
negativi. Non ci si dovrebbe mai dimenticare che lo scopo principale di
un dibattito, interno ed esterno all’organizzazione, negli incontri
politici, in Parlamento e negli altri organi governativi e quello di
uscirne – per quanto forti possano essere le nostre divergenze – più
coesi e uniti e più fiduciosi di prima.
Eliminare le differenze e i
sospetti reciproci all’interno dell’organizzazione dovrebbe essere
sempre il nostro principio guida. Tutto questo risulta relativamente
semplice quando cerchiamo, nei limiti delle nostre capacita, di non
mettere mai in dubbio l’integrità di un compagno o di un membro di
un’altra organizzazione politica che esprime un punto di vista diverso
dal nostro. Nel corso della mia carriera politica mi sono reso conto che
in ogni comunità – africana, meticcia, indiana e dei bianchi – e in
tutte le organizzazioni politiche senza alcuna eccezione, ci sono uomini
e donne perbene che desiderano ardentemente vivere la propria vita, che
anelano alla pace e alla stabilità, che vogliono un reddito dignitoso,
abitazioni decenti e vogliono mandare i propri figli nelle scuole
migliori, persone che rispettano il tessuto sociale e che vogliono
preservarlo. I leader capaci sanno perfettamente che eliminare le
tensioni sociali, di qualunque natura esse siano, pone in primo piano i
pensatori più creativi generando un ambiente ideale affinché uomini e
donne lungimiranti possano influenzare la società. Al contrario, gli
estremisti prosperano in un clima di tensioni e di diffidenza reciproca.
Il pensiero lucido e la buona pianificazione non sono mai stati la loro
arma.
– © 2017 by Nelson R. Mandela and the Nelson Mandela
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