Repubblica 2.2.18
La legge sulla Shoah
L’immaginario antisemita
di Wlodek Goldkorn
Era
l’anno 1967, quando le allora autorità comuniste polacche scoprirono un
fenomeno nuovo: lo chiamarono “ antipolonismo”. Il significato di
quella scoperta era semplice nonostante la retorica fosse un po’
contorta. L’antipolonismo era l’espressione e parte di un presunto
complotto, tutto ebraico, ma con la partecipazione delle potenze ostili,
ai danni della nazione polacca. La legge, appena approvata dal
Parlamento di Varsavia, e che prevede condanne penali per chi facesse
uso dell’espressione “ campi polacchi”, in riferimento ai lager nazisti,
trae le sue origini dalla campagna antisemita, perché di questo si
trattava, che ebbe inizio cinquantun anni fa in concomitanza con la
Guerra dei sei giorni tra Israele e i suoi vicini arabi, e che culminò
nel 1968 con l’espulsione dal Paese di quasi tutti gli ebrei rimasti
fino ad allora.
Così mentre sui giornali di regime si
moltiplicavano le storie e le analisi sull’alleanza presunta e
immaginaria tra Israele, i sionisti e i “ neonazisti tedeschi con lo
scopo di privare la Polonia dei suoi territori occidentali”, delle città
ex tedesche come Stettino e Breslavia, e mentre venivano propinate
narrazioni su come i poliziotti ebrei collaborassero con l’occupante
nazista nei ghetti, affiorò anche la storia dell’antipolonismo, appunto.
In parole povere: c’erano in giro ebrei influenti al servizio dei
nemici di Varsavia che accusavano i polacchi di antisemitismo e di aver
consegnato i loro concittadini, ebrei appunto, nelle mani dei tedeschi
durante la Seconda guerra mondiale.
La propaganda di cinquant’anni
fa esigeva invece che si raccontassero solo storie di polacchi che
avevano aiutato gli ebrei. Per la verità, c’erano stati molti eroi che
avevano sacrificato o avevano rischiato la vita per salvare gli ebrei, e
basta una visita a Yad Vashem a Gerusalemme, per accorgersi quanto
numerosi siano stati i polacchi “Giusti tra le nazioni”. Oggi il punto è
questo: il governo e il Parlamento polacco, dominati da Jaroslaw
Kaczynski, presidente del Pis (Diritto e Giustizia), sin dal loro
insediamento al potere avevano detto che avrebbero promosso “ una
politica storica”. Politica storica significa l’esaltazione delle virtù
nazionali ma anche un tentativo di controllo della narrazione della
storia da parte della politica. Ora, la questione dell’antisemitismo in
Polonia non è marginale (per usare un equivoco). Va dato atto a
Kaczynski di non essere personalmente antisemita e di non aver mai usato
esplicitamente una retorica ostile agli ebrei così come non è
antisemita il presidente della Repubblica Andrzej Duda. Ma il fatto è
che da quando il Paese ha conquistato la libertà il principale tema
della discussione pubblica sono i crimini perpetrati dai polacchi ai
danni degli ebrei sotto l’occupazione nazista: dai pogrom finiti con
gente bruciata viva, alla prassi di denunciare i concittadini fuggiti
dai ghetti. Era ed è una discussione che portava e porta alla messa in
questione dell’identità polacca, intesa come appartenenza alla nazione
cattolica, etnicamente omogenea, generosa con le minoranze (ebrei) e
vittima dei vicini (russi e tedeschi).
In questi mesi il potere
polacco attraverso la televisione di Stato e i giornali amici sta
scatenando una campagna di odio nei confronti dell’Europa, della
Germania, dei traditori interni al servizio di Berlino. E in questo
contesto si inserisce la legge sui campi di sterminio per chi conosce le
regole (non tanto) segrete della retorica polacca è ovvio che si tratta
di un provvedimento in fin dei conti xenofobo e che si richiama
all’immaginario antisemita. Lo ha capito perfino Benjamin Netanyahu, di
solito amico delle destre centroeuropee.
Che poi, i campi di sterminio fossero tedeschi in terra polacca e non polacchi è un’altra storia.