Corriere 2.2.18
Nessuna «verità di Stato» può alterare la realtà dei fatti
di Giovanni Belardelli
Nessuna «verità di Stato» può alterare la realtà dei fatti
di Giovanni Belardelli
È
stata appena approvata in Polonia una legge che vieta, pena una
sanzione che può arrivare fino a tre anni di carcere, di attribuire ai
polacchi qualunque responsabilità nei crimini contro l’umanità commessi
dai tedeschi durante la Seconda guerra mondiale. La legge ha suscitato
le proteste del governo israeliano che vi ha visto il tentativo di
negare ogni responsabilità di quel Paese nello sterminio degli ebrei: ad
esempio in tutto ciò che riguardava i rifornimenti e la manutenzione
dei campi che, come Auschwitz, si trovavano in territorio polacco. In
Italia questa legge non ha suscitato particolare attenzione, benché
abbia implicazioni molto rilevanti, che vanno al di là della questione
riguardante la presenza, nella società polacca, di comportamenti
antisemiti durante la guerra, e non soltanto allora. Presenza, questa,
innegabile indipendentemente da ciò che sostenga o meno la nuova legge
polacca. Uno storico americano, Jan Gross, dedicò anni fa un libro ( I
carnefici della porta accanto , Mondadori) all’eccidio di ebrei compiuto
in un villaggio polacco dai loro «vicini di casa» non ebrei. Ne ha
scritto poi un altro sul più sanguinoso pogrom in tempo di pace
nell’Europa del secolo XX, quello avvenuto nella cittadina polacca di
Kielce il 4 luglio 1946, che testimoniava il permanere di sentimenti
antisemiti anche nella Polonia diventata comunista.
Ma la legge
voluta in Polonia dal partito nazional-conservatore al governo, Diritto e
Giustizia, dovrebbe essere criticata anche, e direi soprattutto, per un
altro motivo d’ordine più generale. Questa legge infatti conferma
quanto sia sbagliato in sé — cioè a prescindere dalla tesi che si vuole
vietare o prescrivere — varare norme che fissino una sorta di «verità
storica» di Stato. Qualcuno potrebbe osservare che le leggi sul
negazionismo, che colpiscono chi nega la realtà storica della Shoah,
sanzionano una tesi manifestamente infondata; mentre nel caso della
legge polacca è vero e documentato proprio ciò che si proibisce di
sostenere, il rapporto tra la popolazione della Polonia e lo sterminio
degli ebrei. È un’obiezione sbagliata per due motivi. In primo luogo
perché sottende l’idea che la libertà di espressione debba essere
garantita, sì, purché non la si usi poi per sostenere tesi chiaramente
erronee. Ma una simile concezione della libertà di opinione, pur molto
diffusa, si adatta più alla Russia di Putin che a Paesi come l’Italia,
la Germania o la Francia. In una democrazia, infatti, la libertà di
espressione si misura proprio sulla possibilità di sostenere tesi che la
maggioranza ritiene sbagliate (e naturalmente sulla facoltà di
criticarle anche duramente).
In secondo luogo, cosa o chi può mai
certificare che una tesi storica è infondata oppure no? La nostra
rappresentazione del passato — sempre provvisoria e in evoluzione —
dovrebbe prendere forma attraverso una libera ricerca e una libera
discussione; al contrario, se ci si mette sulla strada di una versione
ufficiale sancita per legge, c’è poco da fare: ci si deve affidare alla
maggioranza parlamentare che approva le leggi, accettando dunque che in
Paesi diversi si sanzionino (o impongano) tesi diverse, anche
manifestamente (per noi) assurde. Oltre al caso polacco, pensiamo a
quello della Repubblica Ceca dove non solo è vietato negare i crimini
del regime comunista ma essi devono essere obbligatoriamente definiti
quali «crimini contro l’umanità», cosa a dir poco discutibile.
È
stato soprattutto in Francia che sono state approvate varie «lois
mémorielles», leggi sul passato che sanzionavano il negazionismo della
Shoah o del genocidio degli armeni, che obbligavano a definire lo
schiavismo un crimine contro l’umanità oppure, qualche anno dopo,
chiedevano che i programmi scolastici riconoscessero «il ruolo positivo
della presenza francese oltremare». Non a caso fu proprio in quel Paese
che venne fondata da alcuni studiosi un’associazione in difesa della
«libertà per la storia», il cui manifesto iniziava con queste parole:
«La storia non è una religione. Lo storico non accetta alcun dogma, né
rispetta alcun divieto, né conosce tabù. Lo storico può essere
disturbante». Era il 2005 e da allora molti Stati, tra i quali l’Italia,
si sono dotati di leggi — sul negazionismo e non solo — che fissano una
versione ufficiale del passato, nel sostanziale disinteresse delle
opinioni pubbliche e in barba alle proteste degli storici. C’è solo da
sperare che la legge polacca, mostrando a quali esiti si possa arrivare
una volta che venga accettato il principio di una verità di Stato, ci
induca a riflettere sulla connessione tra ricerca storica e libertà.