La Stampa 2.2.18
Se il potere vuole scrivere la Storia
di Giovanni Sabbatucci
La
memoria storica di un popolo è di per sé un’entità impalpabile e
difficile da maneggiare, fatta com’è della somma di infinite memorie
individuali non sempre riducibili a un’unica sintesi. Diventa materia
pesante e scivolosa quando il potere politico pretende di ricostruirla
ex novo, di depurarla d’autorità dalle pagine oscure o addirittura di
imporne una versione ufficiale. È quanto purtroppo rischia di accadere,
anzi sta già accadendo, nella Polonia di oggi: dove il Senato ha
approvato a larga maggioranza una legge che, se definitivamente
approvata, vieterebbe a chiunque, pena la reclusione fino a tre anni, di
stabilire qualsiasi collegamento tra la nazione polacca e la tragedia
della Shoah che si consumò, in parte rilevante, nel suo attuale
territorio.
Ora è vero che la Polonia ha combattuto dall’inizio
alla fine la guerra dalla parte giusta, e in quella guerra ha subito, in
rapporto alla popolazione, più perdite di qualsiasi altro Paese (sei
milioni circa, di cui la metà ebrei); che fra il ’39 e il ’45 è stata
cancellata come Stato e soggetta a una doppia e crudelissima occupazione
(tedesca e sovietica); che visse queste tragedie dopo quasi due secoli
di eroismi e di tragedie, di spartizioni, aggressioni e oppressioni di
ogni genere (che sarebbero state il preludio a un altro e mezzo secolo
di servitù). E hanno ragione coloro che si offendono quando sentono
parlare di Auschwitz come di «un campo di sterminio polacco». Ma
l’orrore di queste vicende non può giustificare la cancellazione di una
parte della storia: una storia che pure esiste e pesa e che riguarda
proprio le colpe dei polacchi. Non mi riferisco solo all’antisemitismo
diffuso e radicato, ma anche e soprattutto all’attiva partecipazione a
pogrom e massacri avvenuti nel corso dell’occupazione tedesca (a
Jedwabne, nel luglio del 1941, a invasione dell’Urss appena iniziata,
furono centinaia gli ebrei massacrati da «volonterosi carnefici»
polacchi) e, quel che è più grave, anche dopo: era il luglio del 1946,
la guerra era finita da più di un anno quando, a Kielce, circa quaranta
ebrei furono uccisi con armi rudimentali dai loro vicini e conoscenti
sulla base della falsa notizia di un infanticidio. Né si può dimenticare
che, fra i regimi comunisti dell’Europa dell’Est, quello polacco fu,
negli Anni 60, l’unico ad annoverare nei suoi vertici una corrente
organizzata - i «partigiani» del generale Moczar - in cui
l’antisemitismo aveva libero corso.
Certo, queste e altre analoghe
sono vicende «minori», per quanto orribili, rispetto al contesto
generale entro cui si consumarono. Ma anch’esse contribuiscono a formare
quel quadro: occultandole o censurandole non si rende un buon servizio
alla conoscenza storica e si fa ancora una volta torto alle vittime
della Shoah, sottraendo arbitrariamente a un metaforico banco degli
imputati una parte, seppur minoritaria, dei loro carnefici: in questo
senso, parlare di negazionismo dall’alto non è per nulla fuori luogo.
Qualcuno
potrebbe poi obiettare che un certo grado di manipolazione, o di
reinvenzione della memoria, è tipico di tutti i processi di costruzione
nazionale. Ovunque le autorità politiche e gli apparati pedagogici
tendono a valorizzare i momenti alti della storia della loro nazione, a
coltivarne le glorie e a custodirne i miti fondativi. Vero, ma c’è una
differenza sostanziale. Nei Paesi liberi questi temi sono oggetto di
continuo, e spesso aspro, dibattito. Anzi, la messa in discussione dei
miti e la rivisitazione delle pagine buie costituiscono, quali che siano
i loro esiti, una premessa e un passaggio necessario della riflessione
storiografica e poi della costruzione di una memoria condivisa (che non
significa imposta da una legge). Per fare solo qualche esempio, gli
storici francesi hanno studiato i massacri in Vandea e, sia pur con
ritardo, il regime di Vichy, gli americani gli orrori della guerra di
secessione; i tedeschi hanno avviato negli Anni 80 la discussione sui
crimini nazisti e sul «passato che non passa», gli inglesi hanno
affrontato senza reticenze la storia del colonialismo; gli italiani non
hanno mai smesso di discutere sulla «conquista regia» e sui limiti e le
colpe del movimento risorgimentale nemmeno quando celebravano il 150°
anniversario dell’unità; e infine - è storia di questi giorni - hanno
fatto solennemente ammenda, per bocca del capo dello Stato, del
contributo fornito dal regime fascista alla persecuzione degli ebrei fra
il 1938 e il 1945. Viene allora da pensare che anche la capacità di
accettare il proprio passato, e di discuterne in libertà senza eludere i
temi scabrosi, rappresenti un discrimine significativo per misurare la
qualità di una democrazia.