venerdì 2 febbraio 2018

Corriere 2.2.18
«I Lager erano nazisti Ma la Polonia vuole fuggire dal suo passato»
Lo storico Pezzetti: responsabilità collettive innegabili
di Maria Serena Natale


La norma approvata dal Senato di Varsavia per contrastare qualsiasi sovrapposizione tra la nazione polacca e la responsabilità storica nello sterminio degli ebrei ha risollevato un dibattito che intreccia senso d’identità di un Paese spesso in guerra con il passato, rapporti di forza politici, complicità istituzionali e legge morale. Dibattito inconciliabile, per stratificazioni e complessità, con il rigore semplificatorio di un testo che prevede fino a tre anni di carcere per chiunque si discosti dalla verità ufficiale definendo «campi polacchi» i Lager nazisti. «Che la Shoah sia stata progettata e realizzata dai nazisti è una verità indiscutibile — dice al Corriere lo storico Marcello Pezzetti, tra i massimi esperti dell’Olocausto —. Ma trasformare in reato un’espressione storicamente infondata come “campi polacchi” è inaccettabile. Una manovra che rivela la volontà di prendere le distanze dal passato annullandolo, una fuga».
L’obiettivo della nuova legge del governo nazional-conservatore è respingere l’accusa di collaborazionismo e complicità con il regime nazista rivolta a un’intera popolazione.
«È innegabile la responsabilità di una società profondamente antisemita, come testimoniano fatti atroci, dal pogrom del villaggio di Jedwabne nel 1941 all’omicidio dell’unico sopravvissuto del campo di Belzec, ucciso a Lublino dopo la fine della guerra. Tuttavia sarebbe sbagliato presentare la Polonia come un’enclave di antisemitismo nell’Europa del tempo. Nel 1938 le posizioni di Varsavia erano assai vicine a quelle di Berlino, ma alla fine degli anni Trenta anche Slovacchia, Italia, Romania, Ungheria avevano approvato legislazioni antiebraiche. In tutto il Centro-Est il pregiudizio antiebraico era vivo e forte, ben prima della Shoah».
La società svolse un ruolo più attivo nelle attività di delazione e deportazione?
«Ci furono i delatori, che taglieggiavano gli ebrei e li vendevano ai nazisti. E i Giusti, come Irena Sendler che salvò centinaia di bambini del ghetto di Varsavia. Ricordiamo che in Polonia chiunque aiutasse un ebreo era messo a morte con l’intera famiglia. E i polacchi non lavoravano nei campi: tra le guardie c’erano polacchi-tedeschi, assimilabili ai tedeschi, e ucraini».
Come interagivano la comunità ebraica e la maggioranza della popolazione?
«Prima dello sterminio gli ebrei erano 3.350.000, pari a circa il 10% della popolazione, il 30% di quella urbana. Una presenza vivacissima nelle professioni e nell’impresa. Lo stesso sviluppo della rete ferroviaria intorno ad Auschwitz era frutto dell’industrializzazione alla quale gli ebrei avevano dato slancio ai primi del Novecento. Una popolazione però — e questo è il punto centrale — che è sempre stata considerata altro da sé, una nazione nella nazione dalla quale prima o poi separarsi. Percezione che si traduce nell’esclusione sistematica degli ebrei dalle amministrazioni pubbliche, nella sostanziale assenza di matrimoni misti — che invece in Germania sono la norma —. Per questo, quando cominciano i rastrellamenti, gli ebrei formano già un blocco separato, facilmente identificabile».
Dinamiche che s’innestano su una storia nazionale segnata da conquiste e spartizioni tra potenze.
«Una storia che amplifica la ricerca di fattori interni destabilizzanti. Una figura emblematica di questi complessi rapporti è Maximilian Kolbe, il prete ucciso ad Auschwitz e santificato da Giovanni Paolo II, espressione di ambienti dell’opposizione al nazismo che erano anche anticomunisti, nazionalisti, spesso antisemiti. Se la grande mistica nazionale identifica l’essere polacco con il cattolicesimo, l’ebreo è subito il diverso. Sullo sfondo, la questione mai risolta della restituzione dei beni confiscati, tabù per le forze politiche post-comuniste. Questa memoria divisa della Shoah sta alla base dello straziante amore-odio che lega ogni sopravvissuto all’Olocausto a questa terra».