giovedì 1 febbraio 2018

Repubblica 1.2.18
La Germania
Spd, la via crucis di Schulz
di Tonia Mastrobuoni


Il partito è morto, viva il partito! Migliaia di nuove iscrizioni alla Spd stanno agitando Martin Schulz, impegnato in una spinosa trattativa con Angela Merkel e Horst Seehofer per la Grande coalizione. Il boom, registrato dopo il congresso di Bonn di metà gennaio (che ha dato il via libera dei seicento delegati alle trattative per la GroKo), è stato alimentato dall’agguerrita campagna degli Jusos. I giovani socialdemocratici che al grido di “ 10 euro per fermare la Grande coalizione” — il costo della tessera — vogliono sabotare il referendum tra gli iscritti previsto alla fine del negoziato.
Il deputato della Spd, Karl Lauterbach ha parlato di una «truffa» che rischia di «smantellare il partito». Ma Lars Klingbeil, segretario dei socialdemocratici, ha lanciato una controffensiva. Mobilitando una campagna per attrarre nuovi iscritti che votino a favore della GroKo. Così, da quando le schede raggiungeranno i circa 450 mila militanti nelle loro case fino al momento in cui nelle sedi della Spd si concluderà la conta dei Sì e dei No, Schulz e i big continueranno a tremare. Se prevarranno i No, mesi e mesi di negoziati saranno carta straccia e la Spd tornerà ufficialmente all’opposizione, lasciando Merkel in un mare di guai. E per Schulz significherebbe quasi certamente la fine della sua carriera alla testa dei socialdemocratici tedeschi.
Per quanto la Spd di Willy Brandt e Gerhard Schröder stia attraversando da anni una grave crisi di identità simile a quella dei cugini di mezza Europa, le dinamiche in corso nel più antico partito socialdemocratico del mondo fanno riflettere. Danno conto di processi interni profondamente democratici, intessuti in una struttura d’altri tempi dichiarata prematuramente morta. L’opposto speculare delle forze politiche che vantano una presunta vicinanza con i cittadini perché hanno sostituito congressi, referendum e segreterie con plebiscitarie democrazie dei clic e primarie vere e finte.
Mentre in Italia la fine della Prima Repubblica, la Grande crisi e l’insorgere dei populismi sono andati di pari passo con la trasformazione del termine partito in parolaccia, e con lo spuntare di “alleanze” e “movimenti” che dovevano farne dimenticare la lunga tradizione, un partito come la Spd ha dimostrato ancora una volta di saper condurre una verifica democratica continua e solida rispetto alle traiettorie dei suoi vertici. Non attraverso guerre di tweet e consultazioni online: invece, grazie alla sua struttura classica di deleghe e rappresentanze.
Un anno fa, un congresso ha approvato con il 100 per cento dei voti l’avvio della grande corsa di Martin Schulz per battere Angela Merkel. E il crollo di quel consenso al 56 per cento in quello recentissimo di Bonn è il risultato di errori clamorosi fatti dal leader della Spd. Quella risicata percentuale a favore della Grande coalizione non è soltanto lo specchio fedele della caduta di Schulz all’interno del partito. È uno sprone a condurre un negoziato duro con Merkel e Seehofer, per strappare un accordo migliore e convincere gli iscritti a confermare quel risultato.
Altrettanto democratici sono i continui processi di verifica che avvengono a Berlino tra Schulz, il gruppo parlamentare, la segreteria e la direzione della Spd. In questi mesi, il leader socialdemocratico ha dovuto misurarsi passo passo con loro. E, alla fine di un anno vissuto pericolosamente, dopo notti insonni a strappare concessioni a Merkel e Seehofer, dopo innumerevoli riunioni con gli altri big della Spd e un congresso a Bonn vissuto al cardiopalma, l’ex presidente del Parlamento europeo si inchinerà alla volontà di 450 mila iscritti. Se vinceranno i No sarà una tragedia per mezza Europa e la stessa Spd rischierebbe il tracollo alle prossime elezioni. Ma nessuno potrà accusare Schulz di aver condotto il partito nel baratro da solo.