Repubblica 15.2.18
Processo a Cappato
Il confine tra legge e dignità
Così il principio dell’autodeterminazione diventa il pilastro sul quale ricostruire il nostro ordinamento
di Michela Marzano
Ogni
persona è libera di decidere come e quando morire: è un principio
cardine non solo della Convenzione dei diritti dell’uomo, ma anche della
nostra Costituzione. Ce lo ha ricordato ieri la corte d’assise di
Milano, riconoscendo che Marco Cappato non ha rafforzato la volontà di
Dj Fabo di porre fine alla propria vita, e chiedendo al tempo stesso
alla Consulta di pronunciarsi sulla legittimità costituzionale del reato
di aiuto al suicidio. Una decisione storica, quindi, nonostante
l’apparente neutralità, visto che il processo a Cappato è stato sospeso
in attesa che si pronunci la Corte Costituzionale. Solo la Consulta può
d’altronde stabilire fin dove può spingersi il diritto
all’autodeterminazione di ciascuno di noi e quale sia la relazione
esatta tra la dignità della persona e l’autonomia individuale.
Al
di là della mancanza di coraggio da parte di un pezzo importante del
mondo politico italiano, la vicenda di Fabiano Antoniani e la decisione
di Marco Cappato di accompagnarlo in Svizzera, ci costringono a
riflettere sullo spazio che la nostra società è disposta a dare al
desiderio profondo di chi, costretto dalla sorte a ritrovarsi in un
limbo di sofferenza e di impotenza, vorrebbe solo mettere fine a una
vita che, di vita, ha ormai molto poco. È una questione delicata sia dal
punto di vista giuridico sia, soprattutto, dal punto di vista etico. Ma
dalla quale non è più possibile esimersi, visto che sono numerosissime
le persone che aspettano che il proprio diritto all’autodeterminazione,
nel momento in cui decidono di accedere al suicidio assistito, sia
finalmente preso in considerazione.
In nome di quale principio si
può d’altronde obbligare un’altra persona a comportarsi come alcuni
pensano che si debba comportare? In nome di quali valori si può anche
solo pensare di cancellare la soggettività altrui e di imporre agli
altri la propria concezione del mondo e dell’esistenza?
La vita è
sempre sacra, si sente ripetere da chi, forse, non si è mai dovuto
confrontare con quella sofferenza profonda e quell’assenza di speranza —
perché non c’è più nulla da fare se non aspettare che finisca quella
«notte senza fine», come diceva Dj Fabo parlando della propria esistenza
dopo l’incidente — che talvolta tolgono alla vita ogni dignità.
Uccidere è un reato, si sente dire da chi, forse, non ha mai fatto lo
sforzo di capire la differenza che esiste tra il “far morire” e il
“lasciar partire”, il privare della vita chi, quella vita, la vuole
vivere e il liberare dal peso dell’esistenza chi, quell’esistenza, l’ha
già abbandonata da tempo.
«Ho visto polmoni respirare da soli su
un tavolo, macchine che sostituiscono cuori… ma è vita questa? » , si
era chiesta la pm Tiziana Siciliano durante la requisitoria, chiedendo
ai giudici o l’assoluzione di Marco Cappato o l’eccezione di legittimità
costituzionale. Il cuore del problema, per lei, era proprio il senso
che ha il termine “vita” quando non si ha più la possibilità di
esercitare la propria dignità. Non è allora anodina la scelta della
corte d’assise di trasmettere gli atti alla Consulta: significa aver
deciso che la questione dell’autodeterminazione non è più solo il
cardine dell’etica contemporanea, ma anche il pilastro attorno al quale
ricostruire il nostro ordinamento giuridico. Certo, l’ultima parola
spetterà al legislatore. Ma come potrà il legislatore tirarsi indietro
una volta stabilito che è in nome della dignità umana che nessuno può
giudicare cosa possa essere o meno degno per un’altra persona, compreso
l’accesso al suicidio assistito?