martedì 13 febbraio 2018

Repubblica 13.2.18
Malattie mentali
La psicoanalisi si fa pop
Abbandonata la ritualità del setting gli strizzacervelli inventano Freud 2.0
di Paola Emilia Cicerone


La psicoanalisi esce dagli schemi, affiancando a strumenti tradizionali come poltrona e lettino iniziative di taglio diverso, rivolte ai pazienti, ma anche alle strutture sanitarie o agli stessi terapeuti. Le novità vengono proprio dalla Società psicoanalitica italiana Spi, che da anni promuove consultazioni a prezzi calmierati che sono insieme strumenti terapeutici e momenti di formazione. E si ragiona persino sulla possibilità di creare nelle principali città italiane centri clinici di ascolto, che offrano a chi ne sente l’esigenza almeno un assaggio di esperienza psicoanalitica.
Allo stesso tempo, si può dire che la psicoanalisi si faccia in quattro: «Alle attività tradizionali come la terapia a due, o quella familiare - in cui l’analista si relaziona col paziente o con il paziente e la famiglia - si aggiunge il lavoro col gruppo » , spiega Giovanni Foresti, psicoanalista e docente all’università Cattolica di Milano. Un lavoro che si può sviluppare in forme diverse, a partire dalla terapia di gruppo vera e propria: « uno strumento particolarmente efficace in un contesto come quello attuale, di risorse decrescenti » , aggiunge il docente. Ma anche uno strumento a servizio di istituzioni e strutture terapeutiche con iniziative di formazione e consulenza: « Come le conferenze cliniche, in cui si discutono in dettaglio i casi più problematici, analizzando le dinamiche consce e inconsce del gruppo e i problemi emersi col paziente», spiega Foresti.
Altro ambito in cui va a operare la nuova psicoanalisi è la formazione al lavoro di gruppo o con gli operatori di una struttura sanitaria, per esempio per agevolare l’interazione delle équipe, un problema di attualità oggi che il turn over del personale è molto rapido: «L’importante è abbandonare la ritualità per inventarsi un nuovo modo di fare psicoanalisi », osserva lo psicoanalista. Un nuovo modo collaudato con esperienze come quella di Mito e Realtà, un’associazione nata con l’obiettivo di costruire una rete tra le comunità terapeutiche per creare scambi di esperienze e fare supervisione e formazione. « In questo modo - osserva Foresti - si lavora per il benessere degli operatori, ma al tempo stesso degli utenti dei servizi ».
E il rapporto diretto con i pazienti? Spesso all’interno delle strutture pubbliche ci sono problemi di costi e di durata dei trattamenti, così gli psicoanalisti presenti lavorano al di fuori delle classiche modalità terapeutiche. Le cose vanno diversamente nelle comunità residenziali dove i pazienti sono ricoverati su indicazione dei dipartimenti di salute mentale territoriali, e dove trattamenti di tipo psicodinamico sono offerti insieme con altre terapie.

il manifesto 13.2.18
Trump deplora le colonie ma ne discute l’annessione a Israele
Usa/Israele/Palestina. Il presidente americano ha definito gli insediamenti coloniali un ostacolo per la pace ma allo stesso tempo, sostiene Netanyahu, è impegnato in colloqui per la loro annessione allo Stato ebraico.
di Michele Giorgio


I palestinesi, sostiene Donald Trump in un’intervista, «non cercano di fare la pace». Però «non sono sicuro che Israele stia cercando la pace» aggiunge subito dopo il presidente americano che poi, a proposito degli insediamenti coloniali israeliani, commenta che «sono qualcosa che complica moltissimo, hanno sempre complicato la pace. Penso quindi che Israele debba fare molta attenzione con gli insediamenti». Parole che non possono passare inosservate perché sono state pronunciate dal capo dell’Amministrazione Usa che, persino più delle precedenti, ha fatto del sostegno a Israele e alle sue politiche una delle ragioni del suo mandato. Senza dimenticare che Trump appena due mesi fa, in violazione del diritto internazionale, ha riconosciuto unilateralmente Gerusalemme capitale di Israele. Tuttavia la Casa Bianca mentre da un lato lancia qualche blando ammonimento al governo israeliano, dall’altro avrebbe avviato colloqui con Tel Aviv su una possibile annessione a Israele degli insediamenti, quindi delle ampie porzioni della Cisgiordania palestinese dove si concentrano le colonie.
«Posso dirvi che è da un po’ che ne parliamo con gli americani», ha rivelato Netanyahu durante un incontro del suo partito, il Likud. «Per questa questione – ha proseguito – sono guidato da due principi.. un coordinamento ottimale con gli americani, le cui relazioni con noi sono una risorsa strategica per Israele e gli insediamenti, e che deve essere una iniziativa del governo e non una privata perchè sarà un passo storico». Netanyahu ha cercato di placare i malumori nella destra, causati dall’intervento con cui domenica ha bloccato un progetto di legge volto ad applicare la sovranità israeliana su tutti gli insediamenti ebraici. Gli Usa non devono aver gradito il passo fatto dal premier israeliano. Preferiscono tenere i colloqui nell’ombra, per poi uscire allo scoperto a giochi fatti come è avvenuto per Gerusalemme. Così ieri un funzionario governativo israeliano si è affrettato a «precisare» che Netanyahu non ha presentato alcuna proposta all’Amministrazione Trump la quale, da parte sua, non ha espresso alcun parere su questo punto.
Ma in Medio oriente anche le pietre sanno che il riconoscimento Usa di gran parte delle colonie e l’annessione a Israele di porzioni di Cisgiordania sono un tema sul tavolo da almeno un anno, da quando i due Paesi hanno definito le parti dei Territori occupati in cui le costruzioni israeliane potranno andare avanti senza limiti e quelle che, nella visione americana, dovrebbero restare ai palestinesi: briciole di terra. Dell’Amministrazione Trump fanno parte sostenitori aperti della colonizzazione israeliana, a cominciare da Jarod Kushner, genero del presidente e inviato speciale in Medio Oriente. Contro questa alleanza strategica Usa-Israele il presidente palestinese Abu Mazen ha cercato di attivare, con risultati incerti, la Russia durante l’incontro con Putin ieri a Mosca.
Sul terreno la situazione resta tesa. Oggi, se non ci saranno altri rinvii, è previsto l’inizio del processo alla ragazza palestinese Ahed Tamimi, arrestata e incarcerata circa due mesi fa per aver schiaffeggiato e dato un calcio a due soldati israeliani davanti alla sua abitazione a Nabi Saleh. La 17enne deve rispondere di ben 12 capi d’accusa. In sua difesa è scesa di nuovo Amnesty International. «Rifiutando di rilasciare Ahed Tamimi le autorità israeliane mostrano di disprezzare il loro obbligo di protezione dei minorenni, sancito dal diritto internazionale», ha dichiarato Magdalena Mughrabi, vicedirettrice di Amnesty International per il Medio Oriente e l’Africa del Nord. «Ahed Tamimi – ha aggiunto – una ragazza disarmata, non costituiva alcuna minaccia per i due soldati dotati di armi pesanti e di protezioni».

il manifesto 13.2.18
Lo scandalo Oxfam e il nodo ineludibile della degenerazione dell’«umanitario»
di Raffaele K. Salinari


Penny Mordaunt, ministra britannica per la Cooperazione Internazionale, definisce un «fallimento morale» lo scandalo sessuale che ha investito l’organizzazione non governativa Oxfam. Le notizia parlano di fatti avvenuti nel 2010 dopo il terremoto di Haiti.
E già denunciati all’epoca dalla stessa organizzazione, rispetto ad incontri dei suoi cooperanti con prostitute, forse anche minorenni.
Nei giornali britannici lo scandalo si allarga anche ad altre Ong con base in Gran Bretagna, sino a lambire la stessa Croce Rossa internazionale. Quali che siano le evoluzioni, i fatti di Haiti pongono a tutto il mondo della cooperazione e dell’aiuto umanitario un problema che non può essere eluso.
Si tratta, in sintesi, di tornare ad interrogarsi sulle relazioni di potere tra beneficiari e donatori, da sempre evidentemente squilibrate a favore dei secondi. La temperie geopolitica in cui è nata la cooperazione internazionale allo sviluppo, negli anni Sessanta del secolo scorso, aveva già strutturato queste relazioni in modo decisamente asimmetrico.
Fu il Presidente Truman che diede avvio alle politiche di cooperazione allo sviluppo, dichiarando esplicitamente che il resto del mondo avrebbe dovuto seguire il modello statunitense se voleva giungere, finalmente, ad eguagliare il livello di vita dell’americano medio. Era l’ideologia dell’american dream; oggi sappiamo bene cosa significa in concreto, un vero incubo.
Anche oltre la cortina di ferro la cooperazione allo sviluppo venne utilizzato come strumento della Guerra fredda, come carota verso i Paesi di nuova indipendenza. Ma, sia da est che da ovest, ciò che realmente faceva la differenza, al di la della retorica sviluppista, era il nodoso bastone della dittature che via via sostituivano i tentativi democratici. Un esempio per tutti: il Congo di Lumumba barbaramente ucciso per aver affermato che le risorse del suo Paese erano dei congolesi. Dopo sessanta anni quella guerra civile miete ancora milioni di vittime, e per gli stessi interessi.
Ecco allora, come lucidamente già chiariva Frantz Fanon, che nelle pieghe dello «sviluppo» si nascondono portati affatto contrari.
L’idea che esiste una leadership alla quale il resto del mondo si deve di fatto adeguare, sottende naturalmente il disprezzo, più o meno manifesto, per le culture che, secondo questa visione, sono «sottosviluppate» a cagione della loro storia.
Ecco allora che a forme di sfruttamento palese, attraverso la presenza coloniale, si sostituiscono modalità più sottili, ma non meno invadenti, di colonizzazione del simbolico. Kwame Nkrumah, leader panafricanista del Ghana indipendente, evidenziava senza mezzi termini la necessità di «decolonizzare il simbolico» dei popoli africani.
Fanon dedica a questi temi i Dannati della terra e Pelle nera maschere bianche. Oggi vediamo chiaramente come queste dinamiche di potere giocano pesantemente anche nel campo dell’accoglienza e dei migranti trasformandosi in razzismo e xenofobia, in revisionismo storico e sovranismo.
La degenerazione dell’umanitario, però, risulta molto più estesa se consideriamo che oramai le Ong internazionali sono sotto il fuoco incrociato anche di Governi sedicenti democratici, a partire dai divieti di salvataggio in mare dei migranti sino alla loro sostituzione con gli eserciti, costituzionalmente alieni alle regole della neutralità ed indipendenza. Se si dovessero ricordare gli scandali legati agli interventi umanitari militari la lista attraverserebbe ognuno di essi.
Ma, proprio partendo da queste evidenze, le Ong hanno cominciato, sin dagli anni Ottanta, ad introdurre codici di condotta sempre più stringenti, sia per quello che concerne i criteri di reclutamento sia per la vigilanza interna. Altro dato significativo, come nel caso di Oxfam appunto, la presenza delle donne ai vertici delle Ong, divenuto strutturale per introdurre forti correttivi alle dinamiche di genere.
Certo molto resta ancora da fare ma la capacità delle Ong di far pulizia al loro interno e di dotarsi di strumenti di prevenzione di questi fenomeni va letta come lo sforzo di superare quel portato ancora oscuramente sviluppista che rappresenta la peggor negazione degli ideali contenuti nella Carta dei Diritti dell’Uomo.

il manifesto 13.2.18
Minniti come Facta nel 1922
Macerata. Le istituzioni, oggi come ieri, non garantiscono il rispetto della legalità costituzionale e aprono i varchi al neofascismo, ritirandosi dalla piazza di Macerata. I fatti di Reggio Calabria del 1972 videro la risposta coraggiosa dei sindacati metalmeccanici di Trentin, Carniti e Benvenuto in piazza contro le bombe nere
di Carlo Freccero, Andrea Del Monaco


«Il fascismo è morto per sempre» sostiene il ministro degli interni. Mercoledì scorso, per Marco Minniti, ci avrebbe pensato il suo ministero dell’interno a impedire che la manifestazione antifascista di Macerata si facesse. Per fortuna alla fine il governo Gentiloni ha autorizzato tale manifestazione.
Minniti avrebbe dovuto ricordare che il 22 ottobre 1972, un suo predecessore, Mariano Rumor, l’allora ministro democristiano degli interni, consentì la più grande manifestazione antifascista nella nera Reggio Calabria: Minniti è nato proprio a Reggio Calabria, allora aveva 16 anni e si sarebbe iscritto alla Fgci.
Purtroppo oggi non si è ispirato a Rumor. E tantomeno si è ispirato al Pci del 1972. Minniti sembra incorrere nell’errore del presidente del consiglio Luigi Facta nell’ottobre 1922.
Il neofascismo oggi si ripropone per due ragioni.
In primo luogo lo Stato non garantisce il pieno rispetto della legalità costituzionale; il governo Monti e i successivi governi del Pd varano politiche di austerità alle quali si oppongono solo le destre razziste. E così l’operaio impoverito, l’esodato, lo sfrattato o il disoccupato votano a destra perché considerano il centrosinistra complice dell’austerità.
La memoria del 1900 dovrebbe aiutare su tre nodi.
1) DOPO IL 1945, la determinazione antifascista di Pci, Psi e Pri e il rispetto della Costituzione da parte della Dc hanno fermato il neofascismo. Non l’ignavia, bensì il coraggio ha fermato il neofascismo.
Ecco un celebre esempio. Dopo le prime elezioni regionali del 1970 il governo nazionale avrebbe voluto nominare Catanzaro capoluogo della regione Calabria. Al contrario i reggini volevano la loro città capoluogo.
Dall’agosto 1972 il sindacalista della Cisnal, Ciccio Franco, guidò a Reggio Calabria la rivolta neofascista del “boia chi molla”, rivolta che ambiva a rappresentare gli emarginati da destra. Squadristi fascisti assaltarono sezioni del Pci, del Psi e la Camera del Lavoro. Nel contempo il Fronte Nazionale, Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale presero parte ai cosiddetti “moti di Reggio Calabria”: il 22 luglio 1970 a Gioia Tauro una bomba fece deragliare il treno “Freccia del Sud” e morirono 6 persone.
Il 4 febbraio 1971 venne lanciata una bomba contro un corteo antifascista a Catanzaro. Malgrado le bombe e il terrore fascista fossero ben più pericolosi del nazista Luca Traini oggi, Claudio Truffi, leader degli edili Cgil, Bruno Trentin, Pierre Carniti e Giorgio Benvenuto, alla guida dei metalmeccanici di Cgil, Cisl e Uil, organizzarono due cose a Reggio Calabria: una Conferenza sul Mezzogiorno e una grande manifestazione di solidarietà al fianco dei lavoratori calabresi il 22 ottobre del 1972.
I neofascisti provarono ad impedire ai manifestanti di arrivare a Reggio Calabria: nella sola notte tra il 21 e il 22 ottobre 1972 otto bombe furono poste sui treni che portavano i metalmeccanici da tutta Italia a Reggio Calabria.
Cgil, Cisl e Uil non ebbero paura. Oltre 40000 manifestarono a Reggio Calabria. Giovanna Marini immortalò il coraggio degli operai e degli edili nella sua celebre canzone “I treni per Reggio Calabria”. Oggi cosa rimane di quel coraggio?
2) NEL 1922 UN’IGNAVIA analoga a quella attuale e la complicità della monarchia portarono il fascismo al potere. Di fronte a Mussolini che organizzava la marcia su Roma, il presidente del consiglio Luigi Facta molto tardivamente nella notte del 27-28 ottobre 1922 stilò e proclamò lo Stato d’assedio.
Secondo lo storico Aldo Mola, autore del saggio Mussolini a pieni voti? Da Facta al Duce, la mattina del 28 ottobre, Facta, a colloquio con il re Vittorio Emanuele III, esordì con le seguenti parole: «Mi creda, maestà, basterebbero quattro cannonate a farli scappare come lepri».
Il re si rifiutò di firmare lo Stato d’assedio e chiese al Generale Diaz, Capo di Stato Maggiore, se l’esercito sarebbe rimasto fedele alla corona in caso di repressione delle camicie nere. Diaz rispose al re così: «L’esercito farà il suo dovere, come sempre, ma è meglio non metterlo alla prova».
Al contrario, qualora l’esercito avesse bloccato la Marcia su Roma ci saremmo risparmiati vent’anni di dittatura.
3) IL CONSENSO AL NEOFASCISMO e alle destre razziste ha origine nel neoliberismo.
Oggi l’austerità europea è l’ostetrica di nuovi fascismi come il Trattato di Versailles del 1919: esso, vessando economicamente la Germania dopo la prima guerra mondiale, favorì l’ascesa di Hitler durante la Repubblica di Weimar.
I nazisti prevalsero non tanto per l’esplosione dell’inflazione bensì per l’alta disoccupazione.
Oggi l’austerità dei vincoli Ue di bilancio in Italia produce esodati (riforma Fornero) disoccupati e precari dei voucher: costoro, i colpiti dalla crisi, ritenendo il centrosinistra corresponsabile dell’austerità, voteranno Salvini e Meloni.
L’austerità morde anche in Germania.
Analogamente, chi guadagna 450 euro al mese con i minijobs non vota più la Spd di Schultz perché ricorda che i minijobs sono stati ideati dall’ex manager Wolkswagen Peter Hartz e varati dall’ex cancelliere socialdemocratico Schroeder.
Nel 2018 la situazione si incrudelirà per poche semplici ragioni.
L’addendum della Bce di ottobre impone indirettamente alle banche italiane la svendita dei loro crediti deteriorati ai fondi avvoltoio; essi compreranno aziende in crisi e faranno licenziamenti; rileveranno mutui non pagati, acquisiranno le case su cui insistevano i mutui e sfratteranno i morosi. Quindi aumenteranno sfratti e licenziamenti.
Nel contempo il Presidente della Bundesbank Weidmann chiede alle banche italiane di svendere i loro Btp, i titoli di Stato italiani, e comprare Bund, i titoli di Stato tedeschi.
Tale operazione farà aumentare lo spread Btp-Bund e i tassi di interesse sul nostro debito e imporrà nuovi tagli alla spesa pubblica. Infine i tedeschi vogliono trasformare il Meccanismo Europeo di Stabilità, l’ultimo strumento Salva-Stati, in Fondo monetario europeo affidandolo ad un teutone.
Non si fidano della Commissione europea considerata troppo flessibile.
Il Fondo monetario europeo sarà il definitivo cavallo di Troia della Troika in Italia.
Le manovre di finanza pubblica saranno risibili e l’intervento dello Stato azzerato. Se le classi dirigenti di sinistra accettano tutto ciò e lasciano la lotta contro l’austerità alle destre si candidano alla scomparsa.
E spalancano le porte al neofascismo.

il manifesto 13.2.18
Il classismo delle scuole non paga
Il caso. Nonostante i proclami di alcuni dirigenti scolastici, un'indagine Ocse, e anche il volume «Excellence and equity in education», dimostrano come l'apprendimento migliore si ottenga in scuole socialmente e culturalmente miste
di Andrea Capocci


Le presentazioni delle scuole dei quartieri buoni, come quella del liceo Visconti di Roma in cui si vanta l’assenza di stranieri, poveri e disabili, non meritano moralismi e sensazionalismi. Che si impari più e meglio in una scuola di ragazzi italiani, sani e di buona famiglia è un’opinione molto diffusa. Puntare il dito contro qualche preside chiedendo sanzioni esemplari non deve servire a nascondere il malessere vero che questi episodi segnalano e che non ha un solo responsabile. Onestà intellettuale richiede di partire dai dati, rassicuranti o sgradevoli che siano: è vero che licei socialmente omogenei come il Visconti siano ambienti di apprendimento migliori? In realtà, si tratta di un luogo comune in gran parte smentito dai risultati dell’indagine «Programme for International Student Assessment» (Pisa) svolta dall’Ocse, la più accurata ricerca comparata sui sistemi di istruzione. Il volume Excellence and equity in education (l’ultima edizione è uscita a fine 2016) è dedicato appositamente a questo tema.
LA CORRELAZIONE tra aumento degli alunni stranieri e calo della qualità è solo apparente. Quando si tiene conto dello status socio-economico degli immigrati si osserva che, a parità di condizioni sociali, le scuole con più stranieri ottengono mediamente risultati migliori. Avviene in Italia ma anche in Scandinavia, Inghilterra, Nordamerica, Spagna. Inoltre l’Italia, insieme alla Spagna, è il paese in cui le differenze scolastiche tra stranieri e autoctoni si sono più assottigliate tra il 2006 e il 2015, nonostante il livello di scolarizzazione delle famiglie straniere di origine sia peggiorato.
DUNQUE, l’assenza o la presenza di alunni stranieri, di per sé, non garantisce un bel nulla. È vero, invece, che nelle scuole frequentate dagli studenti di status sociale superiore (italiani o stranieri che siano) il livello di apprendimento medio è migliore, anche se rispetto alla media Ocse le nostre scuole forniscono ambienti educativi mediamente più omogenei. La percezione dell’impatto negativo degli stranieri in classe, dunque, non ha ragioni culturali: nasce dal fatto che l’alunno migrante e quello povero spesso coincidono. Confrontare sistemi educativi diversi è molto difficile, ma la lezione che traggono i ricercatori Ocse è chiara: permettendo a studenti di diverso status socio-economico di frequentare le stesse scuole, si migliora l’apprendimento degli alunni svantaggiati senza peggiorare quello dei più abbienti.
LE POLITICHE scolastiche nazionali dovrebbero dunque andare in questa direzione, favorendo un accesso equo a tutte le scuole. I vari attori del sistema scolastico italiano hanno colpevolmente ignorato questa lezione, nonostante provenga da una fonte autorevole e non certo sovversiva come l’Ocse. Le riforme ministeriali negli ultimi venti anni sono andate nella direzione opposta: «autonomia scolastica» è stata interpretata in gran parte come «concorrenza», nell’idea (falsa, come si è visto) che la competizione tra le singole scuole generi un miglioramento complessivo del sistema.
Le famiglie, anch’esse poco informate, inseguono le scuole delle classi sociali più abbienti invece che pretendere istituti scolastici efficienti anche nelle periferie disagiate.
INFINE, dirigenti scolastici e docenti (i Rapporti di autovalutazione incriminati sono scritti anche da loro) assecondano la domanda sempre più insistente delle famiglie, visto che dalla politica non provengono impulsi in direzione dell’equità e dell’efficienza.
Possiamo puntare il dito contro qualche dirigente scolastico, ma il classismo della scuola italiana riguarda tutti.

Repubblica 13.2.18
Migranti, sicurezza e tre per cento sale la tensione tra Renzi e Bonino
Dopo lo scontro con Minniti sulle politiche per l’immigrazione si apre un altro fronte con la leader radicale: il timore che la lista +Europa superi la soglia del proporzionale sottraendo seggi ai dem
di Goffredo De Marchis


Roma Divisi sulle politiche dell’immigrazione. In competizione per i voti del centrosinistra, con Emma Bonino sempre più vicina al traguardo del 3 per cento. Significherebbe 11 deputati in meno per il Pd, ai quali vanno aggiunti gli eletti radicali nell’uninominale. Risultato? Un duro colpo alle speranze di diventare il primo gruppo parlamentare. « Ognuno voterà nella coalizione quello che crede — dice il segretario del Pd —. Non condivido la linea di Emma Bonino sulla questione delle migrazioni. Noi non crediamo che i problemi della sicurezza derivino dai migranti, ma la linea Minniti è molto più seria di altre».
È la risposta di Renzi all’articolo di Bonino pubblicato ieri da Repubblica.
C’è dunque un confronto sulle idee, che era chiaro, limpido già prima di stringere un’alleanza. Ora però esiste anche una tensione sui bacini elettorali. « Non c’è dubbio che Più Europa vada a incidere sui nostri potenziali elettori — spiega il leader dem in privato —. Ma è anche un valore aggiunto, pesca fuori dal nostro perimetro » . Ecco, da oggi in poi al Pd farebbe piacere che l’ex commissaria della Ue concentrasse la sua “ aggressività” verso l’astensionismo, le destre, i 5stelle. Non solo sulle politiche del Pd o su una «campagna sgangherata, la peggiore mai vista » , come l’ha definita la leader radicale riferendosi a tutti i soggetti in campo.
Non c’è stata una sola manifestazione comune con Renzi e Bonino (ma nel centrodestra la situazione è identica). Non è previsto alcun palco insieme neanche nelle prossime settimane. La differenza rispetto alle tensioni Salvini- Berlusconi è che lì ci si gioca sul filo il primato dentro la coalizione. Nel centrosinistra, le distanze restano abissali. Allora il problema c’è. «L’ideale — scherza un renziano doc — sarebbe che le tre liste collegate, quelle di Santagata, Lorenzin e Bonino, prendessero tutte il 2,9 per cento, appena sotto la soglia che permette di eleggere parlamentari col proporzionale. Sarebbero 27-28 deputati in più per il Pd».
I sondaggi, arrivati giusto ieri mattina sul tavolo di Renzi, disegnano la tempesta perfetta: Più Europa a una manciata di consensi dal 3 per cento, le altre due forze sotto l’ 1, ovvero portatori di voti che si disperdono e non finiscono ai partiti della coalizione che superano il tetto.
Nelle mille proiezioni che Luca Lotti aveva preparato per Renzi al momento di scegliere i candidati, il braccio destro aveva immaginato lo scenario in cui agli eletti dem si potevano aggiungere nomi certi dalle forze alleate. Nomi pronti a iscriversi immediatamente al gruppo parlamentare Pd in modo da aumentare la quota. Proprio Benedetto Della Vedova, di Più Europa, era il primo della lista. Poi si aggiungevano i centristi Lorenzo Dellai, Gabriele Toccafondi e altri da individuare. Con la Bonino sopra il 3 il piano rischia di fallire, almeno per la componente radicale.
Marco Minniti difende la sua impostazione. Risponde in maniera implicita a Bonino. «Abbiamo intrapreso una strada per affrontare i temi della sicurezza slegandoli dalle questioni emergenziali — dice il ministro dell’Interno in una manifestazione a Firenze accanto a Renzi —. Io sono maniacalmente convinto che la parola sicurezza vada separata dalla parola emergenza e dai temi della questione migratoria». Per farlo, insiste, serve, eccome, l’accordo con la Libia. «L’integrazione si fa con i numeri piccoli diffusi sul territorio. Lo dicono i sindaci, non lo dico io » . E l’accoglienza fiorentina, racconta il ministro, è stata molto positiva. Lo stesso Carlo Calenda, grande sponsor della Bonino, sui migranti guarda altrove: « Mi pare che Minniti abbia svolto un lavoro difficile nel modo migliore e credo sia stato sentito dai cittadini». Dunque, la linea del Pd non cambia, anche sotto il pressing dell’alleato radicale.
Per il momento la tensione viene tenuta sotto traccia. Il Pd è convinto che non verrà mai allo scoperto, come avviene invece quotidianamente tra Lega e Forza Italia. Ma la convivenza dipende da molti fattori. Si teme, a Largo del Nazareno, un effetto Pisapia legato a Emma Bonino. Ovvero, consensi del centrosinistra che rimangano dentro quell’area ma finiscono a Più Europa per l’avversione a Renzi. È il voto d’opinione, non cifre giganti, capace però di spostare gli equilibri interni. Poi ci sono i sondaggi che ogni giorno arrivano sulla scrivania del segretario Pd. Infine, va registrata la competizione sui territori, dove i dirigenti locali non vogliono diventare i capri espiatori di possibili cattivi risultati per il Partito democratico. Arrivano segnalazioni di “boicottaggio” nei confronti della lista Bonino. Voci che corrono nel quartier generale dell’ex commissaria. Per esempio, a Genova dove il caso sembra sul punto di esplodere.

Repubblica 13.2.18
Il carro di Emma l’ultima tentazione dei delusi dal Pd
d Giovanna Casadio


Roma Per molti Democratici delusi è una sorta di ultima scialuppa del centrosinistra unito. Emma Bonino e la sua lista + Europa raccoglie supporter e promesse di voti. Giovanna Melandri ad esempio, ha fatto sapere alla leader radicale che per la prima volta nelle urne potrebbe tradire il Pd e proprio per lei. L’ex ministra dei Beni culturali, tra i fondatori del Pd, non ha ancora deciso però sembra tentata dalla scelta europeista.
Ma l’elenco di chi sta con Bonino cresce. Non solo il compagno Sergio Staino, ex direttore dell’Unità e vignettista, militante dem si è speso per Emma alla convention di avvio della campagna elettorale, ma invita la sinistra anti renziana a puntare su + Europa. « Io voterò per il Pd, mi sembra deontologicamente più corretto, ma l’appello a chi non vuole votarlo è di sostenere Emma » , ha spiegato. Stesso ragionamento di Dacia Maraini, che – dice – voterà per il Pd però è tra i supporter di Bonino: « E sono per l’unione della sinistra » , sottolinea la scrittrice. L’elenco è lungo: ci sono intellettuali, professionisti, mondo dello spettacolo e della cultura. Renzo Arbore e Franca Valeri sono tra i simpatizzanti, come Franco Bernabè, Lella Costa e Marta Dassù, che è la presidente del We- Women empower the world. Si sono associati Angela Missoni e Raffaele La Capria, Irene Bignardi, Oliviero Toscani e Silvio Sircana, ex portavoce di Prodi e senatore dem.
Bonino ringrazia e rilancia: « Mi augurerei soprattutto di attrarre gli astenuti». Il New York Times qualche giorno fa ha scritto che l’ex ministra degli Esteri ha catturato il cuore degli italiani, ma - si è chiesto - saprà conquistarne i voti? Bruno Tabacci - leader di + Europa con Benedetto Della Vedova e Riccardo Magi - è ottimista e prevede: « Saremo sopra il 3% » . È Il numero magico. Sotto quella soglia, + Europa sarebbe solo portatore d’acqua per il Pd. Sopra il 3%, avrà un gruppetto di almeno dieci parlamentari e scompaginerà i conti di Renzi. Per ora la giostra del centrosinistra gira e la fotografia di chi vota chi è sfocata. Franco Monaco, che è stato tra i fondatori di Campo progressista il movimento di Giuliano Pisapia, che si è arenato nel progetto di unità del centrosinistra, « non esclude » di votare Bonino: «Ne apprezzo la opzione chiara di centrosinistra, l’europeismo, la battaglia per la cittadinanza ai nuovi italiani » . Luigi Manconi, senatore dem, l’ha già dichiarato: «Voterò Bonino, ritengo sbagliate le politiche sull’immigrazione » Persino al Festival di Sanremo, Bonino ha ricevuto endorsement. L’ha fatto Ornella Vanoni: «Io le pagine dei giornali che parlano di politica non le leggo per nulla, non mi interessano, non mi interessa quello che dicono i politici. L’unica che seguo è Bonino e voterò per lei... » . E poi, c’è Carlo Calenda. Al ministro dello Sviluppo economico, Bonino ha chiesto di candidarsi con + Europa. Lui per questo giro ha risposto di no, però l’ha sostenuta nel lancio della lista. Del resto + Europa ha inserito nel suo programma il piano industriale di Calenda- Bentivogli. Il feeling è forte.

Repubblica 13.2.18
L’eterna caccia allo straniero
di Nadia Urbinati


La tolleranza è una virtù liberale della quale si nutre la democrazia. Una virtù che viene detta negativa, nel senso che non comanda di essere ricettivi verso gli altri, ma “semplicemente” di non reprimerli o umiliarli o violarli. Giro i tacchi se non amo interagire con chi non approvo o non mi piace: questa è già una prova di tolleranza. In tempi di concordia tra simili sembra una virtù scontata e poco costosa. Tra connazionali uguali nella lingua e nella religione, sembra quasi naturale essere tolleranti. Ovviamente, non è così. In Italia non è mai stato così. E in nessun Paese, anche il più piccolo e omogeneo, è così.
In effetti non è facile essere tolleranti nemmeno quando si vive tra chi parla lo stesso dialetto. Anzi, più piccolo è il nostro spazio vitale e omogenea la nostra cultura, più il rischio di sentirti soffocare per troppa identità è realistico —  dove tutti conoscono tutti e sanno come interpretare tutti i segni e i gesti, c’è ben poco spazio dove celarsi, ben poca ombra nella quale ritagliarsi una zona di invisibilità dallo sguardo ispettivo dei nostri simili. La tolleranza è forse più difficile da praticare proprio dove gli identici dominano la geografia.
Nei discorsi del leader della Lega, Matteo Salvini o della leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, per limitarsi ad alcuni degli identitari che competono alle prossime elezioni, si annida un’idea opposta. Essi dicono, per esempio, che gli italiani sarebbero più liberi se potessero vivere «tra italiani soltanto, senza stranieri». Sembra di capire che, se potessimo disporre delle nostre città e delle nostre terre senza dover far la fatica di rapportarci a chi ha un’altra religione, un’altra cultura e un’altra lingua madre, allora saremmo più liberi. Liberi perché senza dover fare la fatica di tollerare chi non è come noi.
Ma proviamo ad immaginare come sarebbe la nostra vita se vivessimo nel paesello d’origine senza avere mai a che fare con chi non è come noi; siamo sicuri che saremmo più liberi, che la nostra libertà sarebbe proporzionale all’assenza del bisogno di essere tolleranti? Non dovremmo giurarci. Ricordiamo il film di Ettore Scola, Una giornata particolare, con Sophia Loren e Marcello Mastroianni? Tutta Roma come un paesello abitato da identici (in quella giornata particolare del 1938, dove tutti erano ai Fori Imperiali ad acclamare il Führer) — a parte due persone, a parte una infima minoranza: in quel caso, un omosessuale e una casalinga infelice. Quanti diversi ci sono tra gli identici è difficile da anticipare. Il fatto certo è che ci sarà sempre qualcuno che non rientra negli schemi di chi aspira a “vivere tra identici, senza gli altri”; poco importa chi sono “gli altri”.
È facile pretendere di rappresentare sentimenti generali gridando all’invasione degli immigrati. Ma siamo certi che il mio accento romagnolo o quello di una siciliana o di una pugliese non sia notato in un Paese di identici per dialetto, che non sia avvertito come il segno di una estraneità che rende gli identici diffidenti?
Non fidiamoci di chi grida al nemico contro lo straniero — perché stranieri sono tutti, che per una qualche ragione non rientrano mai perfettamente nel modello dominante di vita comunitaria. Ci sarà sempre una differenza che verrà notata, giudicata e, forse, maltrattata. Allora: è davvero persuasivo l’argomento nazionalista, quasi autarchico, dei leghisti e neo-fascisti di questi giorni, per cui è comprensibile voler essere poco tolleranti verso i diversi perché sono troppi? È proprio vero che più identici siamo e meno bisogno abbiamo di essere tolleranti? Non crediamo a queste false sirene. La caccia al diverso è uno sport che gli intolleranti non dismettono mai; troverebbero sempre una ragione buona per discriminare ed essere razzisti. La passione identitaria non è mai paga proprio perché che cosa sia l’identità è qualcosa di così impossibile da stabilire con chiarezza che, alla fine, saranno quelli con la voce più grossa o con più violenza in corpo a imporre che cosa deve essere tollerato e che cosa no. Non fidiamoci dei predicatori dell’intolleranza. Mai.

il manifesto 13.2.18
Costa (Fieg): «Per avere giornali autonomi è fondamentale l’indipendenza economica»
Editoria. I ricavi della carta stampata. Ecco le cifre degli ultimi 10 anni: -50% dei ricavi, vendite -40%, -65% la pubblicità. Contro la tripla concorrenza della rete - utilizzo improprio dei contenuti, dei dati e una fiscalità anomala - serve l’«algoritmo della credibilità»
di Bruno Perini


MILANO La crisi economica e finanziaria che da più di un decennio attanaglia il vecchio Continente e con particolare virulenza l’Italia ha fatto vittime un po’ ovunque. Vittime eccellenti settori industriali che nel secondo dopoguerra non avevano mai conosciuto così da vicino gli effetti devastanti della recessione.
Se si dà uno sguardo alle cifre, si scopre che tra i settori industriali più colpiti c’è l’editoria. Ma non c’è soltanto la crisi finanziaria a colpire la carta stampata, c’è anche lo zampino della più grande ragnatela del mondo, ovvero la rete internet che ha fatto la sua irruente entrata nell’informazione con effetti devastanti per l’editoria tradizionale.
Ne abbiamo parlato con Maurizio Costa, presidente della Fieg, ex Ad di Mondadori ed ex Presidente di Rcs.
Ingegner Costa, il quadro come lei sa non è consolante: i principali quotidiani e periodici italiani in questi ultimi dieci anni hanno assistito a un vero e proprio tracollo di vendite e a un calo da paura degli introiti pubblicitari. Come se la spiega questa ecatombe?
Maurizio Costa - Fieg
Se vogliamo datarne l’origine direi che dobbiamo tornare al 2007, quando la crisi finanziaria che ha colpito l’Europa e in modi diversi anche gli Stati Uniti ha cambiato tutti i paradigmi. Se in alcuni settori dell’industria abbiamo assistito anche a momenti di debole ripresa, nell’editoria questo non è accaduto.
Il crollo è stato costante.
Le fornisco un dato eloquente: negli ultimi dieci anni quotidiani e periodici hanno perso oltre il 50 per cento dei ricavi. E se scorporiamo questo dato nelle due fonti principali dei ricavi, vediamo che gli introiti pubblicitari hanno subito un calo di circa il 65 per cento e le vendite di circa il 40 per cento.
Dunque è tutta colpa della crisi finanziaria?
Direi di no. La profondità della crisi del nostro settore, che ha carattere strutturale, non può essere spiegata soltanto con l’andamento negativo del ciclo economico. Io credo che una delle cause principali sia dovuta all’avvento del digitale, che ha portato a una trasformazione profonda e irreversibile del modo di fare editoria.
Dopo sei secoli dalla rivoluzione tecnologica di Gutenberg, con la stampa a caratteri mobili, tutto è cambiato, tutto si è trasformato. Apro una parentesi: io non sono tra coloro che pensano che il digitale sia il male assoluto e che tutto il bene stia nell’editoria tradizionale.
La disintermediazione introdotta dalla rete, ad esempio nel commercio, è un fatto di grande rilevanza, è un elemento di progresso. Quello che trovo pericoloso invece è la modalità e la poca professionalità con la quale la rete gestisce l’informazione e la conoscenza.
Penso che ci sia un abisso qualitativo tra l’informazione che viene fornita dai grandi quotidiani e il dilettantismo con cui spesso la rete diffonde informazione. Con un’aggravante: i grandi player utilizzano sulle proprie piattaforme l’informazione professionale in modo gratuito e l’uso dei dati personali a fini commerciali. Le cause del crollo pubblicitario vanno cercate in questi fenomeni.
È questa una delle ragioni del crollo degli introiti pubblicitari su tv e carta stampata?
Certamente. I grandi player della rete hanno conquistato fette consistenti del mercato grazie a una pubblicità mirata e a un monitoraggio dei gusti dei consumatori. Se lei è un appassionato di occhiali e legge su un sito un articolo sugli occhiali, stia certo che la rete rileverà i suoi gusti e da quel momento le verranno offerti centinaia di modelli di occhiali.
È davvero così pesante la concorrenza della rete in termini pubblicitari? Facciamo qualche cifra.
Partiamo da una valutazione grezza: oggi il mercato pubblicitario vale circa 10 miliardi. Il primo grande player è ancora la Tv con una quota che sta appena sotto il 50%. Ma i top player della rete controllano ormai tra il 25 e il 30 per cento.
E la stampa?
Alla stampa resta tra l’11 e il 12 per cento. Tutto ciò con un’altra aggravante assai rilevante: gli introiti dei top player della rete non sono rilevabili, visto che i grandi gruppi del web di cui parliamo fatturano all’estero. Quindi noi siamo di fronte a una tripla concorrenza sleale: utilizzo improprio dei contenuti, utilizzo dei dati e fiscalità anomala.
Per dirla in altro modo, gli editori hanno subito una trasformazione dominata da algoritmi. E a questa trasformazione forzata debbono rispondere con l’algoritmo della credibilità, devono essere in grado di marcare una diversità nella qualità dell’informazione.
La strada più pericolosa e perdente sarebbe quella di inseguire Internet.
Non pensa che il successo di Internet sia dovuto anche al fatto che, almeno in apparenza, chi scrive su Internet si sente più libero e indipendente? Come racconta «The Post», il film che è ora nelle sale cinematografiche, l’indipendenza dei giornali dai grandi gruppi economici e dalla politica è una delle condizioni della loro credibilità.
Io penso che i giornali siano tanto più autonomi quanto più sono indipendenti economicamente. Ma una delle condizioni dell’indipendenza finanziaria è che essi operino in un mercato corretto e trasparente, senza posizioni dominanti e in presenza di regole competitive coerenti e corrette.
Quale sarà il nostro futuro? Ferma restando la possibilità di agire in un sistema della comunicazione in equilibrio, ribadisco che una informazione qualificata, autorevole, polifonica, basata su fonti certificate e sulla qualità professionale dei giornalisti è e sarà anche in futuro una risorsa fondamentale, non solo per l’editoria ma per la stessa circolazione delle idee e il confronto democratico.
Questa è la sfida che riguarda gli editori, che devono affrontarla attraverso giornali sempre più qualificati, rivolti a un pubblico sempre più consapevole della necessità di una informazione credibile.
Giornali che dovranno per questo anche avere un riconoscimento di «value for money» adeguato.

La Stampa 13.2.18
Nelle fabbriche tedesche
vola il sindacato di destra
Zentrum Automobil raggiunge il 10% alla Daimler “Difendiamo solo i metalmeccanici nati in Germania”
di Walter Rauhe


Il nuovo sindacato di estrema destra si chiama «Zentrum Automobil» e negli stabilimenti storici della Daimler-Benz a Untertürkheim, Rastatt e Wörth occupa ben il 10% dei posti nei rispettivi consigli di fabbrica. Il presidente del sindacato è Oliver Hilburger, un ex militante neonazista noto da anni ai servizi segreti per aver suonato nel gruppo rock naziskin «Noie Werte» e per gli stretti legami con gli ambienti del movimento revanscista e negazionista degli «Identitari». Fino al 2007 Hilburger militava nel «Christliche Gewerkschaft Metall», il sindacato metalmeccanico d’ispirazione cristiana, ma venne poi sospeso da tutti i suoi incarichi all’interno del consiglio di fabbrica della Daimler-Benz dopo che vennero a galla i suoi contatti con gli ambienti dell’estrema destra neonazista e con gruppi di hooligans xenofobi all’interno della tifoseria della squadra della Bundesliga del Stoccarda.
Con l’affermazione della destra populista dell’Alternative für Deutschland (AfD) e del movimento anti-islamico di Pegida (i cosiddetti «Patrioti europei contro l’islamizzazione dell’occidente») per l’operaio nello stabilimento Daimler di Untertürkheim Olver Hilburger è arrivato il grande momento. Quello di lanciare un’associazione di lavoratori metalmeccanici di estrema destra in concorrenza con il potentissimo sindacato di categoria della Ig Metall. In un’intervista alla «Süddeutsche Zeitung», il fondatore e presidente di «Zentrum Automobil» ha definito la sua organizzazione come l’unica e vera «rappresentanza degli interessi degli operai tedeschi» in un momento in cui i sindacati ufficiali sarebbero diventati parte integrante del «sistema» e dei «poteri forti» e avrebbero tradito gli interessi dei lavoratori.
Le attività dell’organizzazione sindacale neonazista allarmano nel frattempo i vertici stessi dell’azienda. L’amministratore delegato i Daimler-Bent Dieter Zetsche ha lanciato nei giorni scorsi un accorato appello a tutti i suoi dipendenti di partecipare possibilmente in massa alle elezioni per il rinnovo dei consigli di fabbrica che si terranno nel mese di marzo tutti gli stabilimenti dell’azienda, nella speranza che ad essere eletti siano rappresentanti che «rispettino i valori democratici e civili alla base del nostro Paese e della nostra casa automobilistica». In occasione delle elezioni «Zentrum Automobil» ha presentato ben 200 suoi candidati e secondo i sondaggi condotti all’interno degli stabilimenti ha ottime possibilità di triplicare il numero dei suoi rappresentanti nei consigli di fabbrica. Sindacati di estrema destra si sono fatti largo nel frattempo anche nelle fabbriche di altre grandi aziende automobilistiche tedesche come Volkswagen, Audi e Opel.
A preoccupare i manager delle rispettive società sono soprattutto due rischi: quello di una scissione di stampo quasi «razziale» all’interno di una classe lavorativa che già oggi è costituita al 40% da operai di origine straniera e i danni d’immagine a marchi automobilistici premium che tradizionalmente sono molto presenti non solo sui mercati di tutto il mondo ma in modo particolare anche in quelli arabi e nei Paesi di fede islamica. Secondo una recente inchiesta svolta dallo stesso sindacato Ig Metall, alle ultime elezioni politiche in Germania il partito di estrema destra dell’AfD ha raccolto fra gli operai oltre il 15% dei consensi, contro un risultato medio nazionale del 12%.

il manifesto 13.2.18
Il ministro della cultura del Venezuela: «Serve una vittoria politica per sistemare la nostra economia»
Venezuela. Intervista a Ernesto Villegas Poljak, giornalista e oggi ministro della cultura venzuelano: «Uscire dalla dipendenza petrolifera»
intervista di Paolo Moiola


Quando ci incontrammo per la prima volta era il 2003. Ernesto Villegas Poljak, nato a Caracas nel 1970, era già un giornalista molto conosciuto. Dagli studi della Tv pubblica «Venezolana de Televisión» (VTV) conduceva «En Confianza», seguitissima trasmissione dedicata soprattutto ai dibattiti e alle interviste politiche. All’epoca lavorava anche per emittenti radio e giornali, incluso «El Universal», quotidiano dell’opposizione. Almeno fino al golpe dell’aprile 2002 contro il presidente Hugo Chávez, evento che lo convinse a schierarsi con la rivoluzione bolivariana.
Al golpe è dedicato anche il suo libro più noto «Abril, golpe adentro» (Editorial Galac, 2009).
Tra i suoi lavori più recenti vanno menzionati «Buenos dias, Presidente» e «Golpe bajo» (Editorial Nosotros Mismos). Il suo esordio ufficiale in politica risale al 2012 quando Chávez lo nominò ministro della comunicazione e informazione. Dal novembre del 2017 è ministro della cultura per il governo di Nicolás Maduro.
Ministro, in Italia, in Europa e nel mondo occidentale in generale, il Venezuela gode di una pessima immagine. Come giornalista e come ministro, come spiega questo fatto?
Rispondo con Malcolm X: “Se non state attenti, i media vi faranno odiare le persone che vengono oppresse e amare quelle che opprimono.
Il presidente Maduro non sembra avere né il carisma personale né la forza intellettuale del presidente Chávez. Però tornerà a essere candidato nelle elezioni del 22 di aprile. Non sarebbe stato opportuno puntare su un nome differente?
Chávez è Chávez e Maduro è Maduro. Se fosse un cattivo candidato, l’imperialismo lo lascerebbe in pace in modo tale da crollare. In realtà, e al di là della satanizzazione e degli stili personali, dopo Chávez è l’uomo che ha portato molte vittorie al fronte della Rivoluzione bolivariana. Manca la vittoria in campo economico, per ottenere la quale è necessario prima vincere queste elezioni presidenziali e chiarire ogni dubbio sul potere politico. Sarà il popolo venezuelano a dire l’ultima parola.
Negli Stati Uniti, in Europa, ma anche in molti paesi dell’America latina si descrive l’opposizione venezuelana come democratica e il governo Maduro come dittatoriale. In Italia, Lilian Tintori e suo marito Leopoldo López sono quasi degli eroi. Dove sta la verità?
Insisto con Malcom X. Bruciare le persone vive, incendiare le università o attaccare le maternità, come ha fatto l’opposizione “democratica” in Venezuela, non mi sembra una cosa eroica. Ma, certamente, la disinformazione intorno al mio paese è brutale. Viene imposta una storia unica, in stile Hollywood, che sacrifica la verità per soddisfare il copione “dei buoni e dei cattivi”. Il cartello dei media capitalisti esercita il suo potere per preparare l’opinione pubblica a un “happy end” interventista. Nulla di felice per il popolo, ma molto per le multinazionali del petrolio e il capitalismo globale. Chi si ricorda o si preoccupa oggi del popolo della Libia? Di Haiti, Afghanistan, Iraq? Nessuno.
Qualche settimana fa la Rai, la televisione pubblica italiana, ha trasmesso un reportage di un’ora titolato “Venezuela anno zero” (8 gennaio 2018). Si sono viste schiere di venezuelani ridotti allo stremo. Senza cibo, senza medicinali, senza cure mediche.
Non posso commentare qualcosa che non ho visto. Ma non sono sorpreso. Certamente le ferite sofferte dal popolo venezuelano sono terribili. Sono ferite di guerra. La strategia economica degli Stati Uniti contro il Venezuela obbedisce apertamente a una logica di guerra. La gente ha resistito eroicamente.
    Eroi ed eroine non sono quelli che costruiscono media e politici per catturare l’opinione pubblica. Sono milioni di umili venezuelani che non hanno ceduto agli effetti di un terribile blocco economico-finanziario e della persecuzione.
I numeri dicono che oggi in Venezuela c’è un’inflazione del 2.600-2.700% all’anno (dati 2017). Di chi è la responsabilità? Del governo o si tratta veramente di una guerra economica?
Con Obama ci fu una guerra non dichiarata. Hanno cominciato ad applicare codici non scritti per accerchiare l’economia venezuelana. Obama ha emesso un ordine esecutivo che ha dichiarato il Venezuela come una minaccia per gli Stati Uniti. Una cosa assurda per i più. Oggi Trump ha praticamente dichiarato guerra su tutti i fronti. Trump ha parlato apertamente di applicare una “opzione militare”. E il suo segretario del Tesoro ha parlato apertamente di “soffocare” l’economia venezuelana. Probabilmente in futuro si declassificheranno i documenti che comproveranno quanto l’attacco alla nostra moneta, il bolivar, sia stato parte di un copione macabro di fattura statunitense e con la Colombia come strumento e base operativa. Tutto questo non significa però che non ci siano cose da correggere, da parte del Venezuela, nella gestione della propria economia. Proprio per questo abbiamo bisogno di una vittoria politica che spiani la strada. La stabilità di un nuovo mandato presidenziale dovrebbe contribuire a una stabilità economica che noi tutti desideriamo.
Ministro, mi permetta: gli scaffali dei supermercati venezuelani sono troppo spesso vuoti. Come mai?
La scomparsa e / o l’aumento brutale dei prodotti, come conseguenza dell’attacco identicamente brutale alla nostra moneta, è parte del boicottaggio economico contro il Venezuela. I prodotti a prezzi regolati scompaiono rapidamente e gli altri, a prezzi stratosferici, rimangono più a lungo sugli scaffali. È necessario ricordare che Chávez, e ora Maduro, sono stati i presidenti che erano più preoccupati per il cibo del popolo venezuelano. Chávez ha creato il ministero dell’Alimentazione, scuole doppio turno bolivariani compresi i pasti scolastici, le case di alimentazione per i più umili, Mercales, Mercalitos e Pdvales, tra le altre iniziative, investendo grandi somme di denaro nel settore alla ricerca della sovranità alimentare. Maduro, nonostante il calo dei prezzi del petrolio, ha creato il CLAP (Comités Locales de Abastecimiento y Producción) e la “Grande Missione per il rifornimento sovrano” per portare il cibo direttamente alle famiglie, nel tentativo di aggirare i meccanismi della distribuzione privata. Per ridurre la speculazione, l’accaparramento e il boicottaggio, che sono economici ma più recentemente politici. I venezuelani vogliono sconfiggere l’aggressione economica non solo perché i supermercati siano riforniti, ma perché i diritti e i bisogni della gente siano soddisfatti. Il primo obiettivo non è sempre accoppiato con il secondo su un pianeta caratterizzato da disuguaglianza ed esclusione.
Lo scorso novembre ero a Lima. Per la prima volta, ho incontrato tanti venezuelani. Lavoravano come taxisti, nei ristoranti o per le strade.
L’attacco al bolivar è, in ultima istanza, un attacco al salario dei venezuelani. Emigrare per motivi economici è diventato un’opzione per i compatrioti che inviano rimesse ai loro parenti in Venezuela, come durante la storia passara hanno fatto tanti italiani, portoghesi e peruviani, per citare solo tre nazionalità, quando la crisi economica nei loro paesi d’origine li spinse a tentare la fortuna fuori dai loro confini. Nonostante i pregiudizi e le stigmate, i venezuelani sono persone che lavorano, che si alzano molto prima dei cittadini di altri paesi per studiare e lavorare. Molte volte hanno due o tre posti di lavoro. Il diritto all’educazione, ampliato al tempo della Rivoluzione bolivariana, si traduce in un prezioso capitale umano che – è una certezza – viene usato dai capitalisti di altri paesi per sfruttare gli immigrati venezuelani. Pagano meno rispetto ai loro cittadini e i venezuelani accettano perché, in presenza dell’attacco al bolivar, con le poche valute straniere che inviano come rimesse dall’estero riescono ad aiutare le loro famiglie ad attenuare gli effetti della guerra economica. Sono cicli che vivono le nazioni. Abbiamo milioni di colombiani che vivono in Venezuela. Ricordo che molti italiani e portoghesi hanno trovato rifugio qui e hanno cresciuto le loro famiglie guidando un taxi o lavorando in ristoranti e negozi. Questo non è indegno. Il lavoro nobilita.
L’economia venezuelana si fonda totalmente sul petrolio. La compagnia pubblica Petróleos de Venezuela (PDVSA) ha però una pessima reputazione a causa di inefficienze e corruzione. Risponde al vero quest’accusa?
La cattiva reputazione ce l’hanno la maggioranza, per non dire tutte, le imprese transnazionali. La Petróleos de Venezuela non sfugge a fenomeni corruttivi. Proprio per questo, con il sostegno del presidente Maduro, una grande campagna anti-corruzione è stata lanciata dall’ufficio del procuratore generale (Tarek William Saab, ndr). Qualcosa che non si fece, per inciso, quando era a capo la ex procuratrice generale (Luisa Ortega Díaz, ndr), presentata dal cartello dei media capitalisti come un’eroina da telenovela. Accanto, perdipiù, a Lilian Tintori e Leopoldo López, proprio lei che aveva messo in galera López, per aver organizzato l’ondata di violenze del 2014.
A parte i problemi di PDVSA, come fare per diversificare un’economia totalmente dipendente dal petrolio?
Per quanto riguarda la diversificazione dell’economia venezuelana non è solo una necessità, ma anche un argomento che genera consenso. Penso che nessuna persona ragionevole in Venezuela pensi di poter continuare a dipendere esclusivamente dal petrolio.
    C’è un campo immenso in cui i venezuelani possono raggiungere accordi, attraverso il dialogo, per la costruzione di un modello economico diversificato che però metta sempre davanti l’essere umano.
Leggendo i media e le statistiche, parrebbe che il Venezuela sia un paese con alti se non altissimi livelli di criminalità comune. Com’è la situazione?
A costo di essere ripetitivo per la terza volta insisto su Malcom X. Prima delle bombe e dei marines, i primi attacchi ai paesi che stanno nelle mire imperialiste vengono dal cartello dei media transnazionali. Non vorrei maltrattare paesi fratelli, ma la Colombia è il più grande fossa comune della terra e il Messico, invece di essere entrato nel Primo mondo, come prometteva il trattato di libero scambio con gli Stati Uniti, oggi più che mai è nelle mani del narcotraffico. Nessuno nega i problemi che abbiamo in Venezuela in materia di sicurezza dei cittadini, esacerbati dalle infiltrazioni dalla Colombia e dalla politica di “caotizzazione” interna promossa dall’opposizione filo-Usa. Ma c’è un paradosso: i piani e le azioni del governo Maduro per affrontare il crimine sono condannati dall’opposizione e dai suoi media come violazioni dei diritti umani. Ora, il modo migliore per dare il giusto peso al fenomeno è di venire in Venezuela, un paese unico.
La maggioranza dice che la nuova Assemblea nazionale costituente (Anc) è illegale, un organo inventato per escludere l’opposizione. Come risponde?
Di che maggioranza stiamo parlando? L’Asamblea Nacional Constituyente è stata riconosciuta anche da tre governatori eletti dall’opposizione nelle elezioni regionali dello scorso 15 ottobre. I tre hanno giurato davanti all’Anc.
Il Venezuela di Maduro ha buone relazioni con Cuba, Nicaragua, Bolivia, Russia, Cina ed Iran. Però sono cattive o pessime con gli Stati Uniti e l’Europa. Che strategie persegue il suo paese nel campo delle relazioni internazionali?
Il Venezuela vuole relazioni rispettose con tutti i paesi in un mondo multipolare, senza egemonie. In primis, scommettiamo sulla pace.
I proprietari dei media venezuelani sostengono che le leggi sulla televisione e i mezzi di comunicazione li danneggiano. Come giornalista, come risponde a queste critiche?
Immagino che si riferisca alla Legge di responsabilità sociale nei mezzi di comunicazione radiofonici, televisivi e elettronici (legge del 7 dicembre 2004 che prevede anche la “cadena obligatoria y gratuita” di messaggi governativi, ndr). Invito le parti interessate a leggerlo su Internet e confrontarlo con le leggi dei paesi europei in materia. Se invece intende la Legge contro l’odio (Ley Constitucional contra el Odio, por la Convivencia Pacífica y la Tolerancia, novembre 2017, ndr), dovrebbe prima rivedere una norma simile recentemente approvata in Germania (è la legge contro l’hate speech e i post offensivi sui social network dell’ottobre 2017, ndr). Il cartello dei media capitalisti vuole sempre decidere cosa è male e cosa è buono e non necessariamente coerente. La Merkel è raffigurata come un democratico democraticamente rieletto più volte mentre Evo Morales come un ignorante dittatore indigeno che vuole perpetuarsi al potere.
La Chiesa cattolica venezuelana, in primis la sua gerarchia, è da sempre un nemico giurato del governo bolivariano. A tal punto che nell’aprile del 2002 appoggiò palesemente il golpe contro il presidente Hugo Chávez. Come spiegare questo suo comportamento?
Il volto arcigno di Papa Francesco quando ha ricevuto (nel giugno 2017, ndr) la gerarchia cattolica venezuelana a Roma dice tutto. Accanto a quella cupola ecclesiastica, un conservatore come Ratzinger sembrerebbe un marxista-leninista. In generale, con poche eccezioni, i vescovi venezuelani sono persone molto arretrate, molto di destra.
    Uno di loro, il cardinale Velasco, possa Dio averlo in gloria, firmò l’atto di nomina dell’uomo d’affari (Pedro Carmona, ndr) che guidò il golpe contro Chávez nel 2002.
A parte le sue speranze personali, in sua opinione, quale sarà il futuro del Venezuela?
Lottiamo per un futuro di pace, stabilità, inclusione e giustizia sociale per tutti i venezuelani, in particolare per i lavoratori. Un futuro con un Venezuela indipendente e sovrano, con un sistema economico protetto dagli attacchi esterni e dalla dipendenza.
Teme per la sua vita e per la sicurezza della sua famiglia?
Ogni giorno ricevo esplicite minacce di morte dagli stessi settori che il cartello dei media capitalisti mostra come eroi e democratici pacifisti. Ma a loro non farò il piacere di paralizzarmi o di rinnegare per paura i miei sogni e ideali. Credo nel potere della parola e della politica nel suo senso migliore. Voglio che tutte le famiglie, comprese quelle dei miei avversari e la mia, possano vivere in un paese libero, equo, diversificato e democratico, senza sfruttati o sfruttatori, senza distinzioni o esclusioni. La mia personale vendetta, parafrasando Tomas Borge, sarà che i loro figli e i miei crescano sani e allegri in un paese in cui gli esseri umani non siano merce.
* Giornalista. Ultimo saggio: «O Encontro», con Corrado Dalmonego (Paulinas Editora, São Paulo, Brasil, dic. 2017) su Yanomami e missionari.

Il Fatto 13.2.18
Addio a Galasso, lo storico che dava del voi
di Paolo Isotta


“La migliore morte è quella che giunge inavvertita”. Lo dice Cesare, il modello del coraggio. È capitata a Giuseppe Galasso; e la meritava, perché non era solo il più illustre napoletano vivente, ma un uomo grande e buono, di straordinaria generosità intellettuale e affettiva.
Il 20 novembre avevamo festeggiato i suoi 88 anni. Il suo allievo prediletto Luigi Mascilli Migliorini aveva organizzato un convegno nella biblioteca della Società Napoletana di Storia Patria con illustri storici italiani, tedeschi, francesi, spagnoli, perché fossero presenti i principali ambiti della sua ricerca. L’occasione erano anche la Storia della storiografia italiana. Un profilo, e Storiografia e storici europei del Novecento, i suoi ultimi libri. Aveva detto: “Oggi è possibile festeggiare due volte i quarant’anni, anche i cinquanta, spesso. Ma ottantotto, si può una volta sola”. E, con l’eloquio accattivante e la napoletana arguzia che gli erano propri, aveva ripercorso le tappe della sua ricerca, della sua passione. Nessuno, come lui, era in grado di palesare la più ardua materia con la semplicità dei grandi. Poi una cena in riva al mare. Racconti, battute di spirito. Di fronte al ricordo della pervicace ostilità di Arnaldo Momigliano verso chi di gran lunga gli era superiore, Santo Mazzarino, “don Peppino” raccontò che all’inizio degli anni Cinquanta un suo fratello, manovale, era morto cadendo da un’impalcatura; e Momigliano gli inviò un assegno di sessantamila lire per la vedova.
Le sue lezioni erano trascinanti. Non ho l’età per aver ascoltato quelle di Benedetto Croce ma sono certo che le sue ne derivassero. Con Croce il legame di Galasso è fortissimo; è facile dire che egli ne fosse il principale erede. La somma dottrina li apparenta, ma anche la sprezzatura intellettuale e quella nel rapporto umano; e la passione civile, che si faceva passione politica. Nella casa di Croce Galasso teneva lezione, oltre che all’Università di Suor Orsola Benincasa. Si era formato lì, vi aveva trascorso una vita. Quelle sale, ora Istituto Italiano per gli Studi Storici, conservano il tratto della dimora ospitale di un grande borghese.
Non sta a me ricordare sotto il profilo scientifico chi è stato un onore degli studi della Storia. Galasso ha trattato la grande Storia e quella minuta, con un gusto per gli epistolari, i documenti d’archivio, i particolari, che pure sono comuni a “don Benedetto”. L’amore per Napoli li unisce. Galasso continuava pervicacemente a lottare per Napoli e per il Meridione: colla forza delle idee, con l’impegno politico, con la legge per la difesa del suolo e del territorio: uno dei più alti modelli di legislazione civile, disatteso e travolto da turpi interessi. Ma vorrei ricordare quanto piacevole egli fosse nella convivialità. Dava il “Voi”, da napoletano all’antica. Gli occhi gli brillavano di bontà. Leggendo la bozza del mio libro di memorie (si era nel 2014) mi inviò una lettera manoscritta, su inchiostro verde, scusandosi poi per la lunghezza. E mi faceva osservazioni sulla grafia della lingua napoletana, dandomi alcune fondamentali correzioni; persino su parole sconce, che pur fanno parte della vita. Da Hegel e Cavour al delizioso particolare: solo uno spirito magno può permetterselo.
Che se ne sia andato “di subito” lo so per certo. Mi rendo conto di fare la figura di quelli che s’affannano a divulgare la loro intrinsichezza con un illustre scomparso; mi rassegno. Domenica mattina dice: “Don Paolino, ho ancora qualche strascico influenzale, vediamoci a cena lunedì 19”. Il dialogo intellettuale non s’interrompe: restano i suoi libri, i ricordi: durerà per il resto della vita. Ma quell’amicizia che arricchisce, ecco: lascia un rimpianto cocente. “La vita è terribile e bellissima”, disse alla celebrazione. È diminuita di valore, senza di lui.

Repubblica 13.2.18
Il cinema America cede e va in periferia Da Virzì a Martone “ Cancellata una magia”
di Arianna Finos


ROMA I ragazzi dell’America spostano il proiettore e la traiettoria. Via dal Centro, verso la periferia: a Monte Ciocci, al Parco della Cervelletta, al Porto turistico di Ostia. E il mondo del cinema li sostiene e li segue come ha fatto per quattro anni, nelle serate affollate di film e pubblico in piazza San Cosimato. Un addio amaro, consumato dopo la richiesta di partecipazione a un bando da parte del Comune.
«Ribadiamo la nostra indipendenza culturale e politica verso questa amministrazione — dice il portavoce dei ragazzi, Valerio Carocci, presidente dell’associazione — per anni abbiamo ridato vita e dignità a San Cosimato, una territorio che era sventrato dalla movida.
L’amministrazione si è accorta dopo quattro anni di essere la proprietaria della piazza e per motivi elettorali ce l’ha tolta, inserendola nel bando per l’Estate romana, chiedendoci di inserire l’amministratore come Ente sostenitore e di fatto obbligandoci a una censura verso qualunque critica agli amministratori: ad esempio la battaglia contro la speculazione di sale storiche come il Metropolitan di via del Corso, che vogliono trasformare in centro commerciale». «Perciò dice Carocci - non partecipiamo al bando e lasciamo la piazza sperando che altri riproducano il nostro progetto». Un auspicio che pare difficile alla luce dei requisiti richiesti dal bando, tra i quali «un’attività a bassa emissione acustica».
Cala quindi un silenzio su San Cosimato che indigna Paolo Virzì: «Passeggiare per Trastevere e sbucare in una piazza affollata in religioso silenzio davanti a uno schermo cinematografico aveva qualcosa di magico. Non ci sono parole per commentare il gesto autoritario e meschino di chi ha voluto soffocare questa straordinaria esperienza».
Francesca Archibugi si domanda: «Giovani, creativi e pragmatici, cinema collettivo e vita di quartiere: ma quale cervello può fermare iniziative del genere?
Perché?» mentre per Nicola Piovani «abbiamo bisogno di perdere l’abitudine di inseguire le cose brutte e fare la guerra alle cose belle». Il produttore Angelo Barbagallo consegna il suo ricordo: «Ci capitai una sera con amici francesi, estasiati davanti alla folla silenziosa che si gustava Shining in versione directors’cut.
Negli ultimi anni Roma è una città depressa e questi ragazzi, che andrebbero studiati per la passione e l’impegno, erano riusciti a regalare a Trastevere una nuova vivacità».
Mario Martone sottolinea che «essere giovane in Italia oggi è difficile, più di quanto lo è stato per noi. Da questi ragazzi c’è più da imparare che da censurare.
Lottare fa bene, ma mi sorprende il fondamentalismo burocratico del comune, che è in realtà un modo per censurare. Mi ricorda un racconto di Borges in cui si disegnavano mappe sempre più minuziose fino a farle coincidere con il territorio. Gli amministratori abbiano il coraggio di dire: non vogliamo i ragazzi del cinema America, senza nascondersi dietro a un bando». Ragiona, Daniele Vicari: «Se c’è qualcuno che pensa che dietro questa battaglia si nasconda un oscuro potere deve farsi vedere da uno bravo. Noi siamo grati della generosità di questi ragazzi, in un paese gretto e privo di speranza. A San Cosimato il maestro Franco Rosi disse: “Il cinema è questo, siete voi, siamo noi qui insieme a fare una cosa bella”». Luca Bigazzi attacca: «Il comune sta danneggiando una delle più belle e preziose possibilità che si siano viste nel nostro paese, la visione collettiva del film è fondamentale per la sopravvivenza stessa del cinema». Riccardo Milani: «Se i ragazzi lasceranno il centro sarà un dolore, anche se è importante anche andare in periferia. Nel concreto io credo che vadano tenute presenti le esigenze di tutti, quindi anche degli abitanti e di chi non è d’accordo. Non ne farei una battaglia militante. Ma è bello riconoscere la loro oggettiva capacità organizzativa e di sostenere il cinema che è una cosa che fanno in pochissimi». Per Alessandro Roja «quello che succede è una cosa goffa e assurda, credo che a Roma ci siano altre emergenze rispetto a mettere le mani su qualcosa che funziona ed è nato dal nulla».
Più ottimista la visione di Carlo Verdone: «Proseguire il braccio di ferro non avrebbe portato nulla di buono. I ragazzi hanno fatto la scelta migliore. Dispiace che lascino San Cosimato, che però è stata una grande palestra, per affrontare realtà più difficili, andare in luoghi che hanno bisogno di aggregazione e condivisione. Noi abbiamo sostenuto questi ragazzi, sono stati motivo di orgoglio per il quartiere, è giusto che portino luce nella periferia dimenticata di Roma. E noi saremo con loro».


Repubblica 9.2.18
In Malesia scoperta una nuova lingua. Non ha la parola "rubare
Si chiama Jedek, e la parlano appena 280 persone di etnia Semang. Un idioma che riflette lo stile di vita dei suoi parlanti: non possiede parole come 'rubare' o 'vendere', ma è ricca di termini che declinano il concetto di scambio e condivisione
di Simone Valesini

qui
si ringrazia Roberto Chimenti









RadioLuna 22.1.18
Gli ebrei perseguitati nella provincia del Duce
di Licia Pastore





La 7 8.2.18
Rinascita del fascismo? L'analisi storica del prof. Emilio Gentile

AlgaNews 12.2.18
Giorgio Galli: fascismo in rispolvero per nascondere disagio sociale
dI Carlo Patrignani

La7 12.1.18
Lui è tornato?
con Emilio Gentile
Enrico Mentana conduce uno speciale dedicato alla figura di Benito Mussolini e al ritorno dell'estrema destra nel panorama politico italiano