Repubblica 10.2.18
La sinistra dimentica la sua storia
di Ezio Mauro
Quando
i partiti si riducono a semplici comitati elettorali, e non hanno più
ideali politici a cui riferirsi perché vivono nell’estemporaneo,
diventano subalterni al senso comune, suoi replicanti. Invece di
orientare l’opinione pubblica la inseguono gregari, perché invece di
testimoniare una storia affogano nella cronaca.
Con il risultato
di far mancare al Paese l’interpretazione degli avvenimenti attraverso
le grandi culture politiche di riferimento e la loro pedagogia.
Nell’Italia
estrema di oggi, si scopre così quant’è difficile dirsi moderati, e
dirsi riformisti. O meglio: dirlo è facile, testimoniarlo e viverlo,
tradurlo in politica concreta e corrente è molto più complicato.
È
evidente che in una normale campagna elettorale una forza di sinistra
avrebbe già tenuto una riunione della sua direzione a Macerata, aperta
alla cittadinanza e ai media nazionali, riconsegnando la città a se
stessa dopo gli spari, restituendole sicurezza attraverso la politica
dopo il razzismo terrorista.
Etrasformando quelle piazze
magnifiche e quelle strade in una riconquista della convivenza civile e
democratica, per tutti. Questo vale per qualsiasi sinistra, nata ieri o
centenaria. Ma per una sinistra di governo, generata per di più da due
culture popolari e costituzionali, diventa un obbligo. Non si può
pensare di governare il Paese oggi se non si trasmette la sensazione di
tutela dei cittadini, d’accordo: ma la scommessa della sinistra sta
tutta nella capacità di legare insieme questa tutela con la solidarietà,
la sicurezza con la democrazia. Per riuscirci, ed essere credibili,
bisogna dimostrare prima di tutto di saper leggere i fenomeni per quel
che sono, dando loro un nome e assumendosi la responsabilità di un
giudizio.
Un fascioleghista che interpreta follemente la
seminazione razzista e xenofoba di questi anni, decidendo di far da sé
giustizia per tutti sparando sui neri, per poi coprire il suo sovranismo
col tricolore e gli spari con il saluto romano, concentra su di sé un
tale accumulo di significati — tutti convergenti — che non ha bisogno di
interpretazioni. Sembra il precipitato storico di questi anni
sciagurati, dove un fenomeno che investe tutta l’Europa diventa da noi
uno tsunami politico e prima ancora culturale, travolgendo i dati della
realtà in una dimensione fantasmatica della paura nutrita e coltivata a
fini elettorali, ma soprattutto generando odio dalla paura e traducendo
questo odio in una ripulsa fisica fatta di ruspe, fili spinati, muri,
barriere, respingimenti, un bando conclamato per una fetta di umanità.
Poiché
l’odio ha bisogno di nemici, il migrante viene trasformato in invasore
dello spazio nazionale, usurpatore delle periferie in cui dorme,
concorrente nel lavoro che si procura, parassita nei pochi servizi
sociali di cui usufruisce. Fino a diventare inquietante con la sua sola
presenza, intruso per la pura pretesa di sopravvivere, abusivo per
definizione. Riassume in sé l’identità storicamente colpevole dello
straniero, del povero, del migrante. Ridotto a pura quantità ostile,
merce d’ingombro da scaricare, legittima ogni forma di ripulsa, dunque
ogni gesto che segni la separazione, il rifiuto, il rigetto. La figura
del nero riassume, potenzia e scarica a livello istintuale tutto questo
insieme di egoismi aggressivi, armati di un nuovo guscio ideologico che
li protegge, li giustifica, li recita a piene mani nei talk tra i
sorrisi degli astanti, spargendoli ogni sera nella solitudine dispersa
del grande tinello italiano.
È questa interpretazione dell’Italia
che va contrastata. Non c’è nulla di esagerato e di esasperato, in
questa lettura degli avvenimenti: cosa vuol dire il proposito di Renzi
di « abbassare i toni » , dopo Macerata? Prima di tutto un tono bisogna
averlo. Bisogna saper leggere la banalizzazione quotidiana del fascismo
che si pratica nell’ignoranza della storia ma soprattutto
nell’indifferenza generale, bisogna testimoniare a testa alta i valori
dell’accoglienza nella responsabilità, bisogna separare la politica
dalla xenofobia, bisogna pretendere che la violenza venga ripudiata
senza ambiguità. Per queste ragioni di democrazia si può andare in
piazza dopo Macerata e a Macerata, invece di inseguire impossibili
elettori di destra col rischio di aprire altre falle a sinistra: per non
saper cosa fare, per non saper cosa dire, per non sapere in realtà
cos’è la sinistra oggi in un Paese come l’Italia.
Ma la questione
chiama in causa anche la destra, perché la vicenda di Macerata cade
nella sua metà del campo. Diventa dunque la prova del nove della
presunta esistenza di un’anima moderata in quell’alleanza puramente
elettorale che mette insieme il tardolepenismo salviniano, il sovranismo
postfascista di Meloni, l’ecumenismo berlusconiano, alla ricerca della
reincarnazione più conveniente secondo i sondaggi. Incalzato
dall’estremismo dei suoi due soci, l’ex Cavaliere si è ritagliato un
abito moderato che non ha mai saputo rivestire, preferendo per vent’anni
ricoprire col doppiopetto il caimano, la sua vera natura. Oggi che
pretende di intercettare le preoccupazioni europee per una deriva
polacca dell’Italia, e si contrappone all’estremismo antipolitico dei
grillini (cercando di far dimenticare il suo radicalismo e le sue
pulsioni antipolitiche), ha l’occasione per provare il suo nuovo
moderatismo di governo. Pretenda da se stesso, da Salvini e Meloni nei
confronti dello sparatore con la bandiera una condanna con gli stessi
toni che usano ogni giorno nei confronti degli immigrati, facendosi
promotore di una moderna cultura conservatrice europea che da vent’anni
manca in Italia: e che mancherà ancora a lungo, condannati come siamo al
nazionalismo e al populismo, incapaci di uscire dall’eterno
postfascismo che non riesce a finire.