il manifesto 10.2.18
Foibe, la lunga marcia del revisionismo storico
di Angelo d’Orsi
Il
revisionismo ha compiuto una lunga marcia, a partire dagli anni
Sessanta, tra Francia, Germania, Italia, essenzialmente. In Italia ha
riscosso notevole fortuna, e ha riguardato essenzialmente la vicenda del
comunismo e del fascismo: alla squalificazione del primo, ha
corrisposto, in contemporanea, il recupero del secondo.
Il
processo ricevé una formidabile accelerazione con «la caduta del Muro», e
l’immediata sentenza di morte autoinflittasi dal Partito comunista,
quando si accettò non soltanto il terreno dell’avversario ma la sua tesi
di fondo: la intima natura maligna, del comunismo.
Tale
revisionismo estremistico toccò punte clamorose dopo l’avvento di
Berlusconi, e lo «sdoganamento» della destra «postfascista» e il suo
ingresso in area governativa.
Il giudizio riduttivo sulla
Resistenza, la banalizzazione e la successiva demonizzazione del
partigianato, in specie comunista, l’equiparazione tra repubblichini e
combattenti per la libertà, la retorica della memoria condivisa, e così
via, condussero alla celebrazione del «sangue dei vinti».
Il
revisionismo giungeva così alla sua fase estrema, il «rovescismo». E qui
si pone la «questione foibe», lanciata da un programma televisivo nei
primi anni ‘90.
Una vicenda drammatica della storia dell’Europa
che tentava di risollevarsi dalla catastrofe della guerra scatenata dal
nazifascismo, finiva in show ma, nella disattenzione degli apparati
culturali della democrazia, generava rilevanti esiti politici e persino
giuridici.
Da capitolo della storia la foiba diventava un marchio
propagandistico: il luogo, il simbolo, la bandiera da agitare in ogni
situazione, come in passato si fece con l’Ungheria del 1956, o la
Cecoslovacchia del 1968. La foiba fu il nome del martirio subìto da
centinaia, migliaia, decine di migliaia (l’andamento delle cifre è
grottesco) di italiani «colpevoli solo di essere italiani».
Non si
vuole sottovalutare la questione dell’esodo forzoso dei connazionali
dalle terre del Nord-Est, che comunque va tenuta distinta da quella
delle foibe.
In passato, studiosi come Enzo Collotti e Giovanni
Miccoli ci misero in guardia però dalla necessità di non sottovalutare
il nesso tra foibe e risposta ai crimini del fascismo. Ma già da allora
apparve difficile opporsi all’«operazione foibe». La foiba diventò un
tabù: l’invito a riconsiderare scientificamente il problema veniva
bollato con l’etichetta di «negazionismo».
E nelle foibe venivano
affossate le colpe della nazione italiana, che anzi ne usciva con una
sorta di lavacro che le restituiva l’innocenza. La foiba diventava, al
contrario, il trionfale verdetto sulle irredimibili colpe del comunismo.
La
storia, invece, che ci dice? Che il 1945, con le sue tragedie e le sue
atrocità, fu la conseguenza di una politica italiana all’insegna di un
razzismo antislavo (la «barbarie» di quella gente), fin dalla stessa
origine del Regno dei serbocroati e degli sloveni, verso la fine della
Grande guerra.
Nell’Italia dannunziana la «Vittoria mutilata»,
l’impresa fiumana, furono base culturale dell’ondata antislava, che
giunto Mussolini al potere, sedimentò nella pretesa di sottoporre la
Jugoslavia al «protettivo» controllo italiano, tanto meglio se si fosse
potuto frammentare l’unità di quei popoli faticosamente raggiunta.
Il
fascismo non arretrò davanti alla pulizia etnica, che nella Seconda
guerra assunse le tinte fosche di una violenza inaudita, nella quale gli
italiani fascisti non furono inferiori ai tedeschi nazisti. Noi
fingiamo di dimenticarlo, o semplicemente lo ignoriamo; ma come si
poteva pretendere che quei popoli dimenticassero?
Le foibe, di cui
si è volutamente e grottescamente esagerato numero e portata, sono la
risposta jugoslava: e i primi a servirsi di quelle cavità per i «nemici»
peraltro furono gli italiani. E il più delle volte erano tombe naturali
in cui in guerra si dava sepoltura ai morti, sia le vittime di
combattimenti, sia persone giustiziate, accusate di crimini di guerra:
in quella situazione vi furono probabilmente anche innocenti infoibati.
Ma ridurre tutta la vicenda a questo è esempio di profonda disonestà
intellettuale e di un pesante uso politico della storia, tanto meglio se
i fatti vengono direttamente «adattati» all’obiettivo perseguito.
Che
fu più chiaro, con l’istituzione, nel marzo 2004 (II governo
Berlusconi), con voto condiviso dal centrosinistra, di una legge
istitutiva del «Giorno del ricordo» («dell’esodo degli italiani dalle
terre dalmato-giuliane dei “martiri delle foibe”»).
Sabato 10 febbraio ne discutiamo in un convegno a Torino.
In
proposito mi limito qui a ricordare quanto scrisse un testimone
d’eccezione, Boris Pahor, che giudicò che quella legge «monca,
unilaterale, parla del ricordo italiano, tralascia il ricordo altrui»,
ossia della parte jugoslava, specificamente slovena, che ha subìto
un’ampia gamma di crimini e nefandezze da parte italiana.