l’espresso 25.2.18
Globe theatre
di Sabina Minardi
Sfida i
regimi. Denuncia le crisi. Mette in scena battaglie civili. Si impegna
contro violenze e razzismi. Il teatro torna a essere politico
Nei
Cavalieri di Aristofane, commedia rappresentata ad Atene per la prima
volta 2442 anni fa, un salsicciaio cinico e ignorante accusa Demos,
rappresentante del popolo, di non avere più fiducia nell’élite urbana
dei “belli e buoni”. E, nel tentativo di portare acqua a quella parte
sociale, e di condizionare un dibattito di attualità (che Luciano
Canfora ha ricostruito in “Cleofonte deve morire”, Laterza, dedicato
agli obiettivi politici del teatro di Aristofane), lo copre di minacce e
di insulti, di falsità e violenza. Di fango. Lo stesso nel quale
rotolano, amandosi e odiandosi, colpendosi senza pietà, rievocando
sopraffazioni antiche e nuove, gli interpreti di “No43Filth” della
compagnia di Tallinn TeatrNO99: metafora in troppo chiara del populismo e
delle sue retoriche. E se Medea, con le mani sporche del sangue dei
figli suoi e di Giasone, urla ancora - l’ultima messa in scena è a cura
di Walter Pagliaro, al Teatro Palladium di Roma, dal primo marzo -, è
perché c’è un legame stretto tra lei e il presente: non con la feroce
assassina cantata da Euripide, ma con la donna sola proveniente dalla
Colchide e immigrata a Corinto, aggredita ed emarginata dalla nuova
comunità (di Christa Wolf l’emozionante rilettura in “Medea. Voci”,
e/o). Denuncia le crisi contemporanee. Si fa carico di battaglie civili.
Alza la voce contro censure e regimi. Tocca i nervi scoperti della
società, dalla violenza sulle donne alle identità di genere. E li
proietta su quella zona franca dalla realtà che è il palcoscenico: il
teatro si (ri)scopre politico. Non che per l’Italia sia una vera novità:
politica era già l’idea di Giorgio Strehler e del Piccolo Teatro di Mi
lano di trasformare in stabile il teatro d’arte. O il teatro di Dario
Fo, da “Pum pum chi è la polizia” a “Morte accidentale di un anarchico”.
Ma il rilancio - che all’estero è evidente, genera spettacoli cult,
contagia soprattutto il pubblico più giovane - è nell’aria: come
spiegare l’incantesimo di Pierfrancesco Favino a Sanremo, che per
quattro minuti tiene incollati 11 milioni di spettatori con un monologo
scomodo del 1977, tratto da “La notte poco prima delle foreste”, del
drammaturgo francese “maledetto” Bernard-Marie Koltès? Ode al «nuovo
bardo che ha fatto vincere il teatro al Festival», scrive il giorno dopo
su Repubblica lo scrittore e regista Stefano Massini, che con “Qualcosa
sui Lehman”, indiretta critica al capitalismo e ai suoi disastri, entra
a pieno titolo nella nouvelle vague di un teatro sincronizzato sul
presente: «Il teatro torna tra il popolo come nella polis greca».
«L’Italia ha inventato una ventina d’anni fa un genere di teatro
politico e civile: con Marco Paolini e “Il racconto del Vajont”. Poi è
stata la volta di Marco Baliani, Ascanio Celestini, Giulio Cavalli»,
ricorda il critico Oliviero Ponte Di Pino, direttore di Ateatro.it,
webzine di cultura teatrale: «Esiste la tradizione di un teatro che
riflette sulla nostra storia, come ha fatto Mario Martone, sia in “Noi
credevamo” che in “Morte di Danton”. O come hanno fatto Elvira Frosini e
Daniele Timpano in “Acqua di colonia”, sul colonialismo italiano, uno
degli spettacoli più intelligentemente politici degli ultimi anni, e
prima ancora con “Dux in scatola” e “Aldo Morto” sul caso Moro», nota
Ponte Di Pino: «E non va trascurato il teatro sociale e di comunità, che
è una specificità tutta italiana: come quello di Armando Punzo che,
lavorando con i detenuti del Carcere di Volterra, ha dato vita alla
Compagnia della Fortezza; di Alessandro Garzella, che coinvolge malati
psichiatrici, in Animali Celesti; come il Teatro La Ribalta, Accademia
Arte della diversità di Antonio Viganò che a Bolzano rende partecipi i
portatori di handicap o il Teatro patologico di Dario D’Ambrosi, che
opera con persone con problemi psichici. Questo lavoro per
l’integrazione degli emarginati è molto evidente anche in un festival
interculturale, Suq, al porto antico di Genova», aggiunge Ponte Di Pino.
Il tema dell’immigrazione è al centro anche dell’impegno teatrale di
Mario Perrotta: con “Versoterra” e “Lireta - A chi viene dal mare”,
messa in scena del diario di Lireta Katiaj, solo per citare qualche
titolo. E ora Jacopo Fo e Nazzareno Vasapollo destinano un finanziamento
europeo a un progetto per migranti: workshop e corsi di teatro
sperimentale, tra Italia, Portogallo e Svezia (tellmeproject. com), per
far acquisire loro padronanza linguistica. «La grande differenza tra
l’Italia e paesi come la Germania o la Gran Bretagna è che all’estero
sono i teatri pubblici a proporre spettacoli che provocano e che
dividono. In Italia si coltivano reazioni più ovattate del pubblico». I
dati ufficiali confermano: a guidare la classifica degli spettacoli più
visti nell’ultimo anno, secondo l’Osservatorio dello Spettacolo di Siae,
sono musical come “Notre-Dame De Paris” e “Grease”. «Anche se poi i
testi più impegnati e difficili circolano eccome: penso ad “Afghanistan:
Il grande gioco”, diretto da Ferdinando Bruni ed Elio De Capitani per
il Teatro dell’Elfo», aggiunge Ponte Di Pino, affresco in tredici
stazioni che il Tricycle Theatre di Londra ha commissionato per
raccontare le relazioni complesse di quel Paese con l’Occidente. «O
“Democracy in America”, sul rapporto tra l’America di Trump e la
democrazia»: ispirato al trattato di Alexis de Tocqueville, rilegge la
storia della democrazia a partire dalle colonie della vecchia Europa.
All’estero, la tendenza di affidare al teatro un ruolo politico,
rendendolo specchio, antico e rinnovato, dell’attualità è sempre più
netta: se gli estoni di TeatrNO99, premiati come “Realtà teatrale”
all’ultimo Premio Europa per il Teatro, hanno rappresentato al teatro
Argentina di Roma il loro “Filth”, Gianina Carbunariu, dalla Romania,
guida l’ondata di autori alle prese con temi come censura, nazionalismo,
scontri etnici. Nell’ultimo spettacolo, “Sprechen Sie Schweigen?” (Do
you speak silence?), attori rumeni, ungheresi e tedeschi esplorano il
nodo della manodopera a basso costo che dalla Romania arriva in
Germania. Amir Reza Koohestani, col suo Mehr Theatre Group, rende
evidente attraverso i suoi spettacoli la paura e la tensione dell’Iran
di oggi, da “Timeloss” a “Hearing”, appena rappresentato a Milano,
ambientato in un dormitorio femminile e con una protagonista
significativamente chiamata Neda: come la donna uccisa a Teheran durante
le manifestazioni post-elettorali del 2009, represse dalle autorità.
Ismael Saïdi, dal Belgio, ha avuto il coraggio di far riflettere sul
fanatismo islamico con “Djihad”: storia di tre musulmani costretti a
compiere un viaggio in Siria, e a toccare con mano le conseguenze della
guerra santa. Contro gli stereotipi di genere è l’impegno di Esmeray
Özatik, curda, femminista e trans, che in Turchia ha osato portare in
scena stupri e violenze della polizia. ro erede di Beckett e di Pinter
per la capacità che ha di affondare la lama nelle ferite del genere
umano. Considerata la virtualizzazione nella quale siamo immersi, il
teatro resta l’unica forma d’arte irriproducibile, che vive il qui e
l’ora. E il pubblico lo sente: si identifica nel corpo dell’attore, ne
coglie la fragilità». Ne percepisce la fatica, e quel messaggio
universale che supera le riscritture, le traduzioni, il tempo: come nei
classici, appunto. Shakespeare, per cominciare: sia che si esprima col
“Riccardo III” di homas Ostermeier, metafora di un dittatore perverso
attorniato da una classe politica assetata di potere, sia che aleggi,
nei panni del Calebbano (il Calibano della “Tempesta”) in “EterNapoli”,
melologo sul degrado morale di una città-mondo, su testo di Giuseppe
Montesano e musica di Fabio Vacchi, interpretato da Toni Servillo al San
Carlo di Napoli. E una tragedia come “Antigone” di Sofocle è tra i
testi più emblematici di questa universalità di messaggi: l’ultima
riproposta arriva da una produzione di Federico Tiezzi per il Teatro di
Roma (prima nazionale dal 27 febbraio al 29 marzo), dove lo scontro tra
le ragioni del potere e quelle del cuore si svolge in un
ospedale-obitorio, e Antigone - ha chiarito lo stesso Tiezzi - è
un’integralista, dai discorsi folli e farneticanti come quelli dei
combattenti dell’Isis. «I classici ci rivolgono domande attualissime»,
concorda Daniela Nicolò, che ha fondato, con Enrico Casagrande, i Motus:
la loro Antigone-Silvia Calderoni, in felpa e casco, addensava un
potente, modernissimo, spirito di ribellione: «In Italia continuiamo a
essere considerati outsider, ma c’è un’attenzione nei teatri di tutto il
mondo verso i temi più urgenti e brucianti. Il nostro spettacolo
“Mdlsx”, inno di libertà contro i confini e i generi, ha raggiunto le
250 repliche. Ora, al tempo di Trump, e di razzismo anche artistico,
“Panorama”, il nostro nuovo progetto, lancia una rilessione
sull’identità nomade, sui confini fisici e mentali e sul diritto alla
non appartenenza». Debutto europeo il 14 e 15 marzo a Gent; in Italia
dal 2 al 7 maggio alla Triennale Teatro dell’Arte di Milano, con
«performer che hanno vissuto esperienze diasporiche sulla loro pelle, in
grado perciò di incarnare il tema della territorialità. Il teatro è
diventato il nostro modo di confrontarci con pubblici diversi su questi
argomenti: smetteremmo di farlo, se dovessimo dedicarci al teatro da
salotto. Lo sforzo in più è quello di agire non solo sulla parola ma
anche sulle immagini: dando vita a un linguaggio visionario. Anche
questo è un gesto politico». Come sanno tutti i nuovi autori:
«Dall’estero arrivano esempi di teatro partecipato e di nuovi linguaggi
espressivi, nei quali l’Italia è rimasta un po’ indietro», aggiunge
Ponte Di Pino: «Come fa Roger Bernat, capofila di un teatro che richiama
letteralmente la polis». Vedi “Pendiente de voto”, voto sospeso, che
arriva in Italia mentre infuriano i dibattiti pre-elettorali: gli
spettatori, muniti di telecomando, votano realmente. «Non è un caso che
oggi gli spettacoli più interessanti, ispirati dalla realtà, provengano
da luoghi inquieti e in fermento politico come la Catalogna», nota
Daniela Nicolò: «Come il collettivo El Conde de Torreiel, che coinvolge
il pubblico in una delle tante guerrille che attraversano l’Europa. O
Agrupación Señor Serrano, che riflette sulle disuguaglianze sociali,
mescolando performance, video, suono, modellini in scala: come in
“Birdie”, recentemente rappresentato a Milano, che tiene insieme i
migranti, gli uccelli del capolavoro di Hitchcock, il golf. Emoziona
l’impegno sociale e politico di una compagnia come il Belarus Free
heatre, osteggiata in patria per la sua battaglia contro la pena di
morte e in difesa dei prigionieri politici. Provoca, e conquista, il
lavoro di Milo Rau, non a caso protagonista già da qualche anno del
Festival internazionale del teatro in piazza di Santarcangelo. Dopo aver
dato voce all’attentatore di Utoya, con il suo discorso pronunciato
davanti alla corte di Oslo, rito collettivo che chiamava in causa gli
spettatori e le loro vere idee su immigrazione e multiculturalismo,
l’ultimo lavoro è dedicato all’infanzia violata: “Five Easy Pieces”
coinvolge ragazzi tra i 9 e i 13 anni, e rievoca uno degli episodi più
tragici e scabrosi della storia del Belgio: quella del pedoilo e
assassino Marc Dutroux. Ed è un nodo allo stomaco. Solo il teatro sa
come scioglierlo.