martedì 27 febbraio 2018

l’espresso 25.2.18
Globe theatre
di Sabina Minardi
Sfida i regimi. Denuncia le crisi. Mette in scena battaglie civili. Si impegna contro violenze e razzismi. Il teatro torna a essere politico


Nei Cavalieri di Aristofane, commedia rappresentata ad Atene per la prima volta 2442 anni fa, un salsicciaio cinico e ignorante accusa Demos, rappresentante del popolo, di non avere più fiducia nell’élite urbana dei “belli e buoni”. E, nel tentativo di portare acqua a quella parte sociale, e di condizionare un dibattito di attualità (che Luciano Canfora ha ricostruito in “Cleofonte deve morire”, Laterza, dedicato agli obiettivi politici del teatro di Aristofane), lo copre di minacce e di insulti, di falsità e violenza. Di fango. Lo stesso nel quale rotolano, amandosi e odiandosi, colpendosi senza pietà, rievocando sopraffazioni antiche e nuove, gli interpreti di “No43Filth” della compagnia di Tallinn TeatrNO99: metafora in troppo chiara del populismo e delle sue retoriche. E se Medea, con le mani sporche del sangue dei figli suoi e di Giasone, urla ancora - l’ultima messa in scena è a cura di Walter Pagliaro, al Teatro Palladium di Roma, dal primo marzo -, è perché c’è un legame stretto tra lei e il presente: non con la feroce assassina cantata da Euripide, ma con la donna sola proveniente dalla Colchide e immigrata a Corinto, aggredita ed emarginata dalla nuova comunità (di Christa Wolf l’emozionante rilettura in “Medea. Voci”, e/o). Denuncia le crisi contemporanee. Si fa carico di battaglie civili. Alza la voce contro censure e regimi. Tocca i nervi scoperti della società, dalla violenza sulle donne alle identità di genere. E li proietta su quella zona franca dalla realtà che è il palcoscenico: il teatro si (ri)scopre politico. Non che per l’Italia sia una vera novità: politica era già l’idea di Giorgio Strehler e del Piccolo Teatro di Mi lano di trasformare in stabile il teatro d’arte. O il teatro di Dario Fo, da “Pum pum chi è la polizia” a “Morte accidentale di un anarchico”. Ma il rilancio - che all’estero è evidente, genera spettacoli cult, contagia soprattutto il pubblico più giovane - è nell’aria: come spiegare l’incantesimo di Pierfrancesco Favino a Sanremo, che per quattro minuti tiene incollati 11 milioni di spettatori con un monologo scomodo del 1977, tratto da “La notte poco prima delle foreste”, del drammaturgo francese “maledetto” Bernard-Marie Koltès? Ode al «nuovo bardo che ha fatto vincere il teatro al Festival», scrive il giorno dopo su Repubblica lo scrittore e regista Stefano Massini, che con “Qualcosa sui Lehman”, indiretta critica al capitalismo e ai suoi disastri, entra a pieno titolo nella nouvelle vague di un teatro sincronizzato sul presente: «Il teatro torna tra il popolo come nella polis greca». «L’Italia ha inventato una ventina d’anni fa un genere di teatro politico e civile: con Marco Paolini e “Il racconto del Vajont”. Poi è stata la volta di Marco Baliani, Ascanio Celestini, Giulio Cavalli», ricorda il critico Oliviero Ponte Di Pino, direttore di Ateatro.it, webzine di cultura teatrale: «Esiste la tradizione di un teatro che riflette sulla nostra storia, come ha fatto Mario Martone, sia in “Noi credevamo” che in “Morte di Danton”. O come hanno fatto Elvira Frosini e Daniele Timpano in “Acqua di colonia”, sul colonialismo italiano, uno degli spettacoli più intelligentemente politici degli ultimi anni, e prima ancora con “Dux in scatola” e “Aldo Morto” sul caso Moro», nota Ponte Di Pino: «E non va trascurato il teatro sociale e di comunità, che è una specificità tutta italiana: come quello di Armando Punzo che, lavorando con i detenuti del Carcere di Volterra, ha dato vita alla Compagnia della Fortezza; di Alessandro Garzella, che coinvolge malati psichiatrici, in Animali Celesti; come il Teatro La Ribalta, Accademia Arte della diversità di Antonio Viganò che a Bolzano rende partecipi i portatori di handicap o il Teatro patologico di Dario D’Ambrosi, che opera con persone con problemi psichici. Questo lavoro per l’integrazione degli emarginati è molto evidente anche in un festival interculturale, Suq, al porto antico di Genova», aggiunge Ponte Di Pino. Il tema dell’immigrazione è al centro anche dell’impegno teatrale di Mario Perrotta: con “Versoterra” e “Lireta - A chi viene dal mare”, messa in scena del diario di Lireta Katiaj, solo per citare qualche titolo. E ora Jacopo Fo e Nazzareno Vasapollo destinano un finanziamento europeo a un progetto per migranti: workshop e corsi di teatro sperimentale, tra Italia, Portogallo e Svezia (tellmeproject. com), per far acquisire loro padronanza linguistica. «La grande differenza tra l’Italia e paesi come la Germania o la Gran Bretagna è che all’estero sono i teatri pubblici a proporre spettacoli che provocano e che dividono. In Italia si coltivano reazioni più ovattate del pubblico». I dati ufficiali confermano: a guidare la classifica degli spettacoli più visti nell’ultimo anno, secondo l’Osservatorio dello Spettacolo di Siae, sono musical come “Notre-Dame De Paris” e “Grease”. «Anche se poi i testi più impegnati e difficili circolano eccome: penso ad “Afghanistan: Il grande gioco”, diretto da Ferdinando Bruni ed Elio De Capitani per il Teatro dell’Elfo», aggiunge Ponte Di Pino, affresco in tredici stazioni che il Tricycle Theatre di Londra ha commissionato per raccontare le relazioni complesse di quel Paese con l’Occidente. «O “Democracy in America”, sul rapporto tra l’America di Trump e la democrazia»: ispirato al trattato di Alexis de Tocqueville, rilegge la storia della democrazia a partire dalle colonie della vecchia Europa. All’estero, la tendenza di affidare al teatro un ruolo politico, rendendolo specchio, antico e rinnovato, dell’attualità è sempre più netta: se gli estoni di TeatrNO99, premiati come “Realtà teatrale” all’ultimo Premio Europa per il Teatro, hanno rappresentato al teatro Argentina di Roma il loro “Filth”, Gianina Carbunariu, dalla Romania, guida l’ondata di autori alle prese con temi come censura, nazionalismo, scontri etnici. Nell’ultimo spettacolo, “Sprechen Sie Schweigen?” (Do you speak silence?), attori rumeni, ungheresi e tedeschi esplorano il nodo della manodopera a basso costo che dalla Romania arriva in Germania. Amir Reza Koohestani, col suo Mehr Theatre Group, rende evidente attraverso i suoi spettacoli la paura e la tensione dell’Iran di oggi, da “Timeloss” a “Hearing”, appena rappresentato a Milano, ambientato in un dormitorio femminile e con una protagonista significativamente chiamata Neda: come la donna uccisa a Teheran durante le manifestazioni post-elettorali del 2009, represse dalle autorità. Ismael Saïdi, dal Belgio, ha avuto il coraggio di far riflettere sul fanatismo islamico con “Djihad”: storia di tre musulmani costretti a compiere un viaggio in Siria, e a toccare con mano le conseguenze della guerra santa. Contro gli stereotipi di genere è l’impegno di Esmeray Özatik, curda, femminista e trans, che in Turchia ha osato portare in scena stupri e violenze della polizia. ro erede di Beckett e di Pinter per la capacità che ha di affondare la lama nelle ferite del genere umano. Considerata la virtualizzazione nella quale siamo immersi, il teatro resta l’unica forma d’arte irriproducibile, che vive il qui e l’ora. E il pubblico lo sente: si identifica nel corpo dell’attore, ne coglie la fragilità». Ne percepisce la fatica, e quel messaggio universale che supera le riscritture, le traduzioni, il tempo: come nei classici, appunto. Shakespeare, per cominciare: sia che si esprima col “Riccardo III” di homas Ostermeier, metafora di un dittatore perverso attorniato da una classe politica assetata di potere, sia che aleggi, nei panni del Calebbano (il Calibano della “Tempesta”) in “EterNapoli”, melologo sul degrado morale di una città-mondo, su testo di Giuseppe Montesano e musica di Fabio Vacchi, interpretato da Toni Servillo al San Carlo di Napoli. E una tragedia come “Antigone” di Sofocle è tra i testi più emblematici di questa universalità di messaggi: l’ultima riproposta arriva da una produzione di Federico Tiezzi per il Teatro di Roma (prima nazionale dal 27 febbraio al 29 marzo), dove lo scontro tra le ragioni del potere e quelle del cuore si svolge in un ospedale-obitorio, e Antigone - ha chiarito lo stesso Tiezzi - è un’integralista, dai discorsi folli e farneticanti come quelli dei combattenti dell’Isis. «I classici ci rivolgono domande attualissime», concorda Daniela Nicolò, che ha fondato, con Enrico Casagrande, i Motus: la loro Antigone-Silvia Calderoni, in felpa e casco, addensava un potente, modernissimo, spirito di ribellione: «In Italia continuiamo a essere considerati outsider, ma c’è un’attenzione nei teatri di tutto il mondo verso i temi più urgenti e brucianti. Il nostro spettacolo “Mdlsx”, inno di libertà contro i confini e i generi, ha raggiunto le 250 repliche. Ora, al tempo di Trump, e di razzismo anche artistico, “Panorama”, il nostro nuovo progetto, lancia una rilessione sull’identità nomade, sui confini fisici e mentali e sul diritto alla non appartenenza». Debutto europeo il 14 e 15 marzo a Gent; in Italia dal 2 al 7 maggio alla Triennale Teatro dell’Arte di Milano, con «performer che hanno vissuto esperienze diasporiche sulla loro pelle, in grado perciò di incarnare il tema della territorialità. Il teatro è diventato il nostro modo di confrontarci con pubblici diversi su questi argomenti: smetteremmo di farlo, se dovessimo dedicarci al teatro da salotto. Lo sforzo in più è quello di agire non solo sulla parola ma anche sulle immagini: dando vita a un linguaggio visionario. Anche questo è un gesto politico». Come sanno tutti i nuovi autori: «Dall’estero arrivano esempi di teatro partecipato e di nuovi linguaggi espressivi, nei quali l’Italia è rimasta un po’ indietro», aggiunge Ponte Di Pino: «Come fa Roger Bernat, capofila di un teatro che richiama letteralmente la polis». Vedi “Pendiente de voto”, voto sospeso, che arriva in Italia mentre infuriano i dibattiti pre-elettorali: gli spettatori, muniti di telecomando, votano realmente. «Non è un caso che oggi gli spettacoli più interessanti, ispirati dalla realtà, provengano da luoghi inquieti e in fermento politico come la Catalogna», nota Daniela Nicolò: «Come il collettivo El Conde de Torreiel, che coinvolge il pubblico in una delle tante guerrille che attraversano l’Europa. O Agrupación Señor Serrano, che riflette sulle disuguaglianze sociali, mescolando performance, video, suono, modellini in scala: come in “Birdie”, recentemente rappresentato a Milano, che tiene insieme i migranti, gli uccelli del capolavoro di Hitchcock, il golf. Emoziona l’impegno sociale e politico di una compagnia come il Belarus Free heatre, osteggiata in patria per la sua battaglia contro la pena di morte e in difesa dei prigionieri politici. Provoca, e conquista, il lavoro di Milo Rau, non a caso protagonista già da qualche anno del Festival internazionale del teatro in piazza di Santarcangelo. Dopo aver dato voce all’attentatore di Utoya, con il suo discorso pronunciato davanti alla corte di Oslo, rito collettivo che chiamava in causa gli spettatori e le loro vere idee su immigrazione e multiculturalismo, l’ultimo lavoro è dedicato all’infanzia violata: “Five Easy Pieces” coinvolge ragazzi tra i 9 e i 13 anni, e rievoca uno degli episodi più tragici e scabrosi della storia del Belgio: quella del pedoilo e assassino Marc Dutroux. Ed è un nodo allo stomaco. Solo il teatro sa come scioglierlo.