l’espresso 25.2.18
Ancora con Freud… e certo che i sogni sono orrendi!
Spettatori sul lettino
colloquio con Stefano Massini
di Emanuele Coen
Tutto
il teatro è politico. Shakespeare, Molière, perfino Goldoni.
«Aristotele diceva che ogni gesto è politico. E il teatro non può non
parlare alla società», incalza subito Stefano Massini. Sotto questo
aspetto, il grande drammaturgo e scrittore fiorentino si muove nel solco
della tradizione. Del resto la sua opera più nota, “Lehman Trilogy”
(andrà in scena da luglio al National Theatre di Londra, con la regia
del premio Oscar Sam Mendes) racconta con trama fittissima i 160 anni di
storia di una delle famiglie più potenti d’America, i Lehman, e della
banca da loro fondata, fallita nel 2008. Il crac che diede inizio alla
grande crisi globale. In un certo senso è un testo “politico”, senza
sbavature né scorciatoie populiste. Eppure alcuni l’hanno accusata di
aver scritto un testo in cui non esprime la sua posizione, non emerge la
condanna del sistema economico. «Mi limito a raccontare i fatti, la
storia di una famiglia americana che ha fondato una banca, con pregi e
difetti, luci e ombre. Cosa avrei dovuto fare? Dare il cartellino rosso
etico e morale, come l’arbitro di una partita di calcio, in base alle
mie convinzioni politiche? E poi siamo sicuri che la colpa sia solo dei
banchieri cattivi? Qualcuno mi ha chiesto: “Perché non ha parlato del
Monte dei Paschi di Siena?”. Non c’è bisogno che arrivi io a dire che le
banche sono cattive e rubano i soldi dei poveri risparmiatori. Io devo
raccontare ciò che il pubblico non vuole sentire, non ciò che sa già».
Ogni
settimana lei recita un monologo in tv durante il programma
“Piazzapulita” (La7), in cui affronta temi di attualità: il populismo,
l’amore per la cosa pubblica, la figura del sindaco di Roma Ernesto
Nathan. È una forma di impegno civile?
«Non è una novità. I
grandi autori di teatro, anche in passato, non erano chiusi nel mondo
asfittico del teatro ma scrivevano romanzi, partecipavano al dibattito
politico. Non consideriamo Pirandello un autore sminuito dal fatto che
scriveva romanzi come “Il fu Mattia Pascal” o articoli per riviste
letterarie. E non riteniamo Verga un autore teatrale meno forte perché
ha scritto “I Malavoglia”. Il teatro è un genere aperto, guai se
restasse solo nei teatri».
A volte il teatro resta impigliato
nella gabbia del politicamente corretto. Sul palco lirico di Firenze la
“Carmen” di Bizet è andata in scena con il finale modificato: l’eroina
non muore, uccisa da Don José, perché non si può applaudire un
femminicidio. Cosa ne pensa?
«L’arte pura non è mai politically
correct. È il discorso politico che tende invece a essere inclusivo,
consolatorio, perbenista, non deve lasciare fuori nessuno. Se il teatro
fa questo perde la propria ragion d’essere».
Dal suo romanzo
“L’interpretatore dei sogni” (Mondadori) è stato tratto lo spettacolo
“Freud o l’interpretazione dei sogni”, in scena al Piccolo Teatro
Strehler di Milano. Anche il padre della psicoanalisi è politico?
«Freud
è la quintessenza di questo ragionamento. Di notte, quando chiudi gli
occhi, ti dici la verità su te stesso. Che è talmente orrenda che hai
bisogno di renderla metafora, perché altrimenti non la sosterresti.
Ecco, il teatro sta alla società come i sogni stanno all’individuo. È il
luogo in cui vedi la realtà su te stesso: cattiva, tremenda, spietata.
Ma ne hai bisogno».