martedì 27 febbraio 2018

l’espresso 25.2.18 
Ancora con Freud… e certo che i sogni sono orrendi!
Spettatori sul lettino
colloquio con Stefano Massini
di Emanuele Coen


Tutto il teatro è politico. Shakespeare, Molière, perfino Goldoni. «Aristotele diceva che ogni gesto è politico. E il teatro non può non parlare alla società», incalza subito Stefano Massini. Sotto questo aspetto, il grande drammaturgo e scrittore fiorentino si muove nel solco della tradizione. Del resto la sua opera più nota, “Lehman Trilogy” (andrà in scena da luglio al National Theatre di Londra, con la regia del premio Oscar Sam Mendes) racconta con trama fittissima i 160 anni di storia di una delle famiglie più potenti d’America, i Lehman, e della banca da loro fondata, fallita nel 2008. Il crac che diede inizio alla grande crisi globale. In un certo senso è un testo “politico”, senza sbavature né scorciatoie populiste. Eppure alcuni l’hanno accusata di aver scritto un testo in cui non esprime la sua posizione, non emerge la condanna del sistema economico. «Mi limito a raccontare i fatti, la storia di una famiglia americana che ha fondato una banca, con pregi e difetti, luci e ombre. Cosa avrei dovuto fare? Dare il cartellino rosso etico e morale, come l’arbitro di una partita di calcio, in base alle mie convinzioni politiche? E poi siamo sicuri che la colpa sia solo dei banchieri cattivi? Qualcuno mi ha chiesto: “Perché non ha parlato del Monte dei Paschi di Siena?”. Non c’è bisogno che arrivi io a dire che le banche sono cattive e rubano i soldi dei poveri risparmiatori. Io devo raccontare ciò che il pubblico non vuole sentire, non ciò che sa già».
Ogni settimana lei recita un monologo in tv durante il programma “Piazzapulita” (La7), in cui affronta temi di attualità: il populismo, l’amore per la cosa pubblica, la figura del sindaco di Roma Ernesto Nathan. È una forma di impegno civile?
«Non è una novità. I grandi autori di teatro, anche in passato, non erano chiusi nel mondo asfittico del teatro ma scrivevano romanzi, partecipavano al dibattito politico. Non consideriamo Pirandello un autore sminuito dal fatto che scriveva romanzi come “Il fu Mattia Pascal” o articoli per riviste letterarie. E non riteniamo Verga un autore teatrale meno forte perché ha scritto “I Malavoglia”. Il teatro è un genere aperto, guai se restasse solo nei teatri».
A volte il teatro resta impigliato nella gabbia del politicamente corretto. Sul palco lirico di Firenze la “Carmen” di Bizet è andata in scena con il finale modificato: l’eroina non muore, uccisa da Don José, perché non si può applaudire un femminicidio. Cosa ne pensa?
«L’arte pura non è mai politically correct. È il discorso politico che tende invece a essere inclusivo, consolatorio, perbenista, non deve lasciare fuori nessuno. Se il teatro fa questo perde la propria ragion d’essere».
Dal suo romanzo “L’interpretatore dei sogni” (Mondadori) è stato tratto lo spettacolo “Freud o l’interpretazione dei sogni”, in scena al Piccolo Teatro Strehler di Milano. Anche il padre della psicoanalisi è politico?
«Freud è la quintessenza di questo ragionamento. Di notte, quando chiudi gli occhi, ti dici la verità su te stesso. Che è talmente orrenda che hai bisogno di renderla metafora, perché altrimenti non la sosterresti. Ecco, il teatro sta alla società come i sogni stanno all’individuo. È il luogo in cui vedi la realtà su te stesso: cattiva, tremenda, spietata. Ma ne hai bisogno».