l’espresso 18.2.18
Così governa una buona sinistra
Cinque
anni fa il Portogallo era quasi al default. Oggi cresce a ritmi record.
Con un esecutivo socialista e comunista. Liberale in economia, ma con
una politica sociale
Il merito non è soltanto dell’attuale
esecutivo. Che però ha cambiato il clima, aumentato il salario minimo,
ripristinato la tredicesima e gli scatti d’anzianità
di Stefano Vergine da Lisbona
Dalla
terrazza di São Pedro de Alcântara, a Bairro Alto, Lisbona sembra un
enorme cantiere aperto. Solo nella zona intorno ad Avenida da Liberdade,
il grande viale alberato che taglia in due il centro città, si vedono
almeno venti gru in movimento. Nuove case, centri commerciali,
ristrutturazioni di strade, piazze, palazzi. L’impressione del
visitatore è confermata dai dati ufficiali. I prezzi degli immobili
nella capitale sono aumentati in un anno di quasi il cinque per cento.
Una ripresa che riguarda più in generale tutta l’economia lusitana. Il
prodotto interno lordo cresce a tassi invidiabili per parecchi Paesi
della zona euro, la disoccupazione è ai minimi degli ultimi dodici anni,
il deficit pubblico ha raggiunto il punto più basso dalla rivoluzione
dei garofani del 1974. E pensare che poco più di cinque anni fa il
Portogallo era stato costretto a chiedere il salvataggio della Troika
per evitare il fallimento. Un’inversione di marcia che ha portato
parecchi osservatori internazionali a vedere nella piccola nazione
affacciata sull’Oceano Atlantico un esempio che tutta la sinistra
potrebbe seguire. Perché la crescita coincide con l’arrivo al potere di
Antonio Costa, il leader del partito socialista eletto al grido di
“basta austerità”, che dopo due anni di governo ha addirittura aumentato
i consensi evitando che a Lisbona i delusi dalla politica potessero
farsi attirare dalle sirene del cosiddetto populismo, come invece sta
avvenendo nel resto d’Europa. Il premier di origini indiane (una parte
della sua famiglia vive ancora Goa, antica colonia lusitana) è stato
l’artefice di un accordo politico inedito. Quello tra il partito
socialista, liberale in economia, e due formazioni della sinistra
radicale, il Bloco de Esquerda e la Coalizione democratica unitaria
(Cdu), composta da comunisti e verdi. Un’alleanza stretta dopo i
risultati delle ultime elezioni politiche, che si sono tenute
nell’ottobre del 2015 e hanno visto il centrodestra - allora al governo -
perdere voti ma ottenere la maggioranza relativa (il 38,5 per cento dei
voti) mentre i socialisti crescevano al 32 per cento, il Bloco de
Esquerda superava il 10 e il cartello verde-comunista Cdu si attestava
all’8 per cento. Il centrodestra non aveva alleati per tornare al
governo ed è stato a quel punto che Costa ha mostrato tutta la sua
abilità politica, riuscendo a ribaltare gli equilibri e ottenere dal
presidente della Repubblica l’incarico per formare un governo. Il 56enne
avvocato di Lisbona guida oggi un esecutivo appoggiato esternamente dai
due partiti della sinistra radicale: i comunisti e il Bloco de Esquerda
non hanno ministri, ma votano quasi sempre le leggi proposte dai
socialisti. La strana alchimia è basata su una doppia promessa:
rispettare i vincoli di bilancio e cancellare alcune riforme dettate
dalla Troika. Impegni mantenuti. Se da una parte il deficit è calato ben
oltre la soglia fissata dall’Ue (il debito pubblico resta invece ancora
altissimo), dall’altra parte Costa ha ristabilito la tredicesima e gli
scatti d’anzianità per i dipendenti pubblici, reintrodotto alcuni giorni
di festa nazionale, cancellato la sovratassa sui redditi personali,
abbassato l’Iva al 13 per cento per molti prodotti alimentari, alzato il
salario minimo garantito da 557 a 580 euro al mese. Le polemiche
abbondano anche qui, con gli alleati che spesso contestano al premier
l’incapacità di varare cambiamenti radicali come l’aumento delle
pensioni e dei redditi da lavoro. Ma la coalizione tiene, a smentire la
vecchia abitudine delle sinistre - incluse quelle italiane - a litigare
su tutto e a sfasciarsi appena arrivano al governo. Risultato: alle
elezioni comunali dello scorso ottobre i socialisti hanno ottenuto la
miglior performance di sempre, 38 per cento dei voti, quasi 6 punti in
più rispetto a due anni prima. Tendenza che, se dovesse proseguire,
potrebbe permettere a Costa di ottenere alle prossime legislative (2019)
abbastanza consensi per governare anche da solo. I meriti dell’attuale
miracolo, tuttavia, non sono ascrivibili interamente all’attuale
governo. Per capirlo bisogna tornare indietro di qualche anno. Aprile
2011: dopo due trimestri consecutivi di decrescita, il Portogallo entra
ufficialmente in recessione. La disoccupazione supera il dieci per
cento, il rapporto deficit/pil oltrepassa di quasi quattro volte il
tetto fissato dall’Unione europea, Lisbona rischia di non riuscire più a
rifinanziare i propri debiti. Per questo il governo dell’epoca, guidato
dall’allora leader dei socialisti Jose Socrates, chiede aiuto a Unione
europea, Banca centrale europea e Fondo monetario internazionale. La
Troika acconsente a prestare 78 miliardi di euro al Portogallo in cambio
di una serie di riforme tra cui la privatizzazione di alcune aziende,
l’innalzamento dell’Iva, il taglio della tredicesima e degli scatti
d’anzianità per i dipendenti pubblici, la riduzione della durata dei
sussidi di disoccupazione da tre anni a 18 mesi. È la ricetta standard
già applicata in Grecia e Irlanda. A fare inghiottire l’amara pillola
non è però il governo socialista, perché poco dopo la firma dell’accordo
le elezioni decretano un nuovo premier: il leader del centrodestra
Pedro Passos Coelho, che resta in carica sino alla fine del 2015. A
inizio 2013, quando il centrodestra è ancora al governo, arrivano i
primi segnali positivi. Da allora in poi il miglioramento è praticamente
continuo, trasformandosi in crescita sostenuta da quando Costa diventa
primo ministro. Lo scorso gennaio, quando gli hanno chiesto di spiegare i
fattori che stanno trainando l’attuale ripresa, il ministro
dell’Economia Manuel Caldeira Cabral ha risposto così: l’aumento del
turismo «è una storia già conosciuta», mentre «meno noto è che stiamo
crescendo a tassi superiori al 20 per cento nell’export di prodotti
agricoli e sopra il 15 per cento in quello di automobili, aeronautica,
meccanica e software». La causa principale del boom turistico è
piuttosto semplice. Gli atti terroristici in nome di Allah hanno reso
pericolose agli occhi di molti mete tradizionali come Egitto e Tunisia,
ma anche parecchie capitali europee, mentre il Portogallo finora non è
mai stato teatro di violenze simili. Le ragioni dell’aumento delle
esportazioni sono invece collegate direttamente alla crisi economica.
Nel 2011, quando è stato approvato il salvataggio, l’export
rappresentava il 40 per cento del Pil, mentre ora siamo arrivati al 50
per cento. Insomma, il “made in Portugal” si è rafforzato durante la
recessione. Almeno questo è quanto sostiene Pedro Santa Clara, docente
di Finanza alla Nova School of Business and Economics, ateneo pubblico
tra i migliori al mondo secondo varie classifiche del settore, spiegando
che dietro la crescita dell’export c’è il parallelo miglioramento
dell’economia mondiale, i bassi prezzi dell’energia (il Portogallo, come
l’Italia, è un importatore netto di gas e petrolio), la politica
monetaria adottata dalla Bce per favorire il credito bancario verso
imprese e cittadini. L’aspetto essenziale sono però i salari, tiene a
sottolineare Santa Clara: «I nostri erano già tra i più bassi d’Europa,
con la crisi si sono ridotti ulteriormente. E così vendere all’estero è
diventato più facile per gli imprenditori che hanno avuto il coraggio di
spingersi oltreconfine». Caschetto antinfortunistico e giubbino giallo
fluorescente, il professore ci accoglie in un cantiere di Carcavelos,
paesino a metà strada fra Lisbona e Cascais. Un altro simbolo del
periodo di grazia lusitano. Qui, a pochi metri dal punto in cui il fiume
Tago sbocca nell’Atlantico, sta infatti nascendo un nuovo campus
dedicato a 600 studenti, in maggioranza stranieri, interessati ad
approfondire i temi dell’economia digitale. «È un progetto da 50 milioni
di euro, realizzato grazie alle donazioni di aziende come Microsoft,
Cisco, Nestlé, Accenture e molte altre», racconta Santa Clara, che punta
a trasformare Milano per ragioni di cuore, professore associato di
Informatica all’università Nova Information Management School, dice di
non essere sorpreso da tutto questo interesse: «Investire qui vuol dire
puntare su una nazione europea dove i costi sono bassi, la qualità della
vita è alta, la maggior parte della gente parla inglese e la
preparazione dei neo-laureati è buona. Certo», aggiunge, «in Italia gli
studenti sono in media più bravi, ma un portoghese che esce
dall’università è più abituato al mondo del lavoro: qui, tanto per fare
un esempio, si può sostituire la tesi con uno stage presso un’azienda,
perciò quando si ottiene la laurea spesso si è già inseriti nel
mercato». Secondo Pacheco Pereira, ex vice presidente del Parlamento
Europeo, per anni deputato socialista e amico personale del premier, «le
politiche del governo attuale non sono poi così diverse rispetto a
quelle degli ultimi anni, ma per capirne il successo bisogna guardare un
il suo Paese nella «California d’Europa perché - dice - da noi si può
studiare e poi andare in spiaggia, godere del buon cibo e di
infrastrutture moderne. E si può fare tutto questo a prezzi molto
abbordabili». Ad accorgersene non sono stati solo i pensionati di mezzo
mondo, attirati nella patria di Magellano da una legge (del 2009) che
per dieci anni garantisce la totale esenzione fiscale sul reddito. Negli
ultimi tempi anche parecchie multinazionali hanno deciso di scommettere
sul Portogallo. Investimenti privati che hanno spinto al rialzo il Pil
nazionale senza costringere il governo ad aumentare la spesa pubblica. È
il caso della tedesca Daimler, l’azienda della Mercedes, che meno di un
anno fa ha aperto a Lisbona una sede con 100 dipendenti dedicati allo
sviluppo di prodotti digitali. Della pattuglia di imprese attirate nella
culla del fado fanno parte anche Huawei e Fujitsu, Microsoft e Uber,
Vestas, Zalando, Renault, Bosch e Siemens. Alcune hanno assunto
personale per far fronte alle richieste del mercato, altre hanno aperto
nuove sedi rivolte ai mercati internazionali. Come Google, che secondo
quanto annunciato il mese scorso dal premier Costa inaugurerà a Oeiras
un centro tecnologico con 500 ingegneri dedicati ai mercati di Europa,
Medio Oriente e Africa. Lorenzo Vanneschi, trasferitosi qui sette anni
fa da altro aspetto». Pereira lo spiega passeggiando sul selciato della
Lx Factory, un vecchio complesso industriale alla periferia di Lisbona
trasformato in un centro artistico alla moda. «Ciò che è cambiato con
questo governo è soprattutto il linguaggio politico: non si dice più
alla gente che viviamo al di sopra delle nostre possibilità, non si
parla più della necessità di fare sacrifici. Ed è soprattutto questo a
fare la differenza». Le analogie tra l’Italia di oggi e il Portogallo di
due anni fa sono tante, ma c’è anche una differenza eclatante:
l’assenza di un partito populista, un movimento anti-establishment
capace di raccogliere consensi. Federico Santi, analista politico
italiano che per conto della società di consulenza americana Eurasia
Group segue con attenzione quanto avviene nei Paesi del Mediterraneo, fa
notare un particolare: «Fino a prima di diventare di fatto parte del
governo, i due partiti portoghesi di estrema sinistra erano
euroscettici, i comunisti facevano campagna per l’uscita dall’euro. Poi
Costa li ha portati dalla sua parte, ha neutralizzato la loro rabbia e
ora i loro consensi sono stabili, mentre quelli dei socialisti
crescono». Potrebbe succedere anche in Italia? «Difficile», ragiona
Santi, «ma di certo Renzi è stato meno fortunato, i tempi non sono stati
dalla sua parte. In Italia la situazione economica sta iniziando a
migliorare solo ora».