lunedì 19 febbraio 2018

l’espresso 18.2.18
Così governa una buona sinistra
Cinque anni fa il Portogallo era quasi al default. Oggi cresce a ritmi record. Con un esecutivo socialista e comunista. Liberale in economia, ma con una politica sociale
Il merito non è soltanto dell’attuale esecutivo. Che però ha cambiato il clima, aumentato il salario minimo, ripristinato la tredicesima e gli scatti d’anzianità
di Stefano Vergine da Lisbona


Dalla terrazza di São Pedro de Alcântara, a Bairro Alto, Lisbona sembra un enorme cantiere aperto. Solo nella zona intorno ad Avenida da Liberdade, il grande viale alberato che taglia in due il centro città, si vedono almeno venti gru in movimento. Nuove case, centri commerciali, ristrutturazioni di strade, piazze, palazzi. L’impressione del visitatore è confermata dai dati ufficiali. I prezzi degli immobili nella capitale sono aumentati in un anno di quasi il cinque per cento. Una ripresa che riguarda più in generale tutta l’economia lusitana. Il prodotto interno lordo cresce a tassi invidiabili per parecchi Paesi della zona euro, la disoccupazione è ai minimi degli ultimi dodici anni, il deficit pubblico ha raggiunto il punto più basso dalla rivoluzione dei garofani del 1974. E pensare che poco più di cinque anni fa il Portogallo era stato costretto a chiedere il salvataggio della Troika per evitare il fallimento. Un’inversione di marcia che ha portato parecchi osservatori internazionali a vedere nella piccola nazione affacciata sull’Oceano Atlantico un esempio che tutta la sinistra potrebbe seguire. Perché la crescita coincide con l’arrivo al potere di Antonio Costa, il leader del partito socialista eletto al grido di “basta austerità”, che dopo due anni di governo ha addirittura aumentato i consensi evitando che a Lisbona i delusi dalla politica potessero farsi attirare dalle sirene del cosiddetto populismo, come invece sta avvenendo nel resto d’Europa. Il premier di origini indiane (una parte della sua famiglia vive ancora Goa, antica colonia lusitana) è stato l’artefice di un accordo politico inedito. Quello tra il partito socialista, liberale in economia, e due formazioni della sinistra radicale, il Bloco de Esquerda e la Coalizione democratica unitaria (Cdu), composta da comunisti e verdi. Un’alleanza stretta dopo i risultati delle ultime elezioni politiche, che si sono tenute nell’ottobre del 2015 e hanno visto il centrodestra - allora al governo - perdere voti ma ottenere la maggioranza relativa (il 38,5 per cento dei voti) mentre i socialisti crescevano al 32 per cento, il Bloco de Esquerda superava il 10 e il cartello verde-comunista Cdu si attestava all’8 per cento. Il centrodestra non aveva alleati per tornare al governo ed è stato a quel punto che Costa ha mostrato tutta la sua abilità politica, riuscendo a ribaltare gli equilibri e ottenere dal presidente della Repubblica l’incarico per formare un governo. Il 56enne avvocato di Lisbona guida oggi un esecutivo appoggiato esternamente dai due partiti della sinistra radicale: i comunisti e il Bloco de Esquerda non hanno ministri, ma votano quasi sempre le leggi proposte dai socialisti. La strana alchimia è basata su una doppia promessa: rispettare i vincoli di bilancio e cancellare alcune riforme dettate dalla Troika. Impegni mantenuti. Se da una parte il deficit è calato ben oltre la soglia fissata dall’Ue (il debito pubblico resta invece ancora altissimo), dall’altra parte Costa ha ristabilito la tredicesima e gli scatti d’anzianità per i dipendenti pubblici, reintrodotto alcuni giorni di festa nazionale, cancellato la sovratassa sui redditi personali, abbassato l’Iva al 13 per cento per molti prodotti alimentari, alzato il salario minimo garantito da 557 a 580 euro al mese. Le polemiche abbondano anche qui, con gli alleati che spesso contestano al premier l’incapacità di varare cambiamenti radicali come l’aumento delle pensioni e dei redditi da lavoro. Ma la coalizione tiene, a smentire la vecchia abitudine delle sinistre - incluse quelle italiane - a litigare su tutto e a sfasciarsi appena arrivano al governo. Risultato: alle elezioni comunali dello scorso ottobre i socialisti hanno ottenuto la miglior performance di sempre, 38 per cento dei voti, quasi 6 punti in più rispetto a due anni prima. Tendenza che, se dovesse proseguire, potrebbe permettere a Costa di ottenere alle prossime legislative (2019) abbastanza consensi per governare anche da solo. I meriti dell’attuale miracolo, tuttavia, non sono ascrivibili interamente all’attuale governo. Per capirlo bisogna tornare indietro di qualche anno. Aprile 2011: dopo due trimestri consecutivi di decrescita, il Portogallo entra ufficialmente in recessione. La disoccupazione supera il dieci per cento, il rapporto deficit/pil oltrepassa di quasi quattro volte il tetto fissato dall’Unione europea, Lisbona rischia di non riuscire più a rifinanziare i propri debiti. Per questo il governo dell’epoca, guidato dall’allora leader dei socialisti Jose Socrates, chiede aiuto a Unione europea, Banca centrale europea e Fondo monetario internazionale. La Troika acconsente a prestare 78 miliardi di euro al Portogallo in cambio di una serie di riforme tra cui la privatizzazione di alcune aziende, l’innalzamento dell’Iva, il taglio della tredicesima e degli scatti d’anzianità per i dipendenti pubblici, la riduzione della durata dei sussidi di disoccupazione da tre anni a 18 mesi. È la ricetta standard già applicata in Grecia e Irlanda. A fare inghiottire l’amara pillola non è però il governo socialista, perché poco dopo la firma dell’accordo le elezioni decretano un nuovo premier: il leader del centrodestra Pedro Passos Coelho, che resta in carica sino alla fine del 2015. A inizio 2013, quando il centrodestra è ancora al governo, arrivano i primi segnali positivi. Da allora in poi il miglioramento è praticamente continuo, trasformandosi in crescita sostenuta da quando Costa diventa primo ministro. Lo scorso gennaio, quando gli hanno chiesto di spiegare i fattori che stanno trainando l’attuale ripresa, il ministro dell’Economia Manuel Caldeira Cabral ha risposto così: l’aumento del turismo «è una storia già conosciuta», mentre «meno noto è che stiamo crescendo a tassi superiori al 20 per cento nell’export di prodotti agricoli e sopra il 15 per cento in quello di automobili, aeronautica, meccanica e software». La causa principale del boom turistico è piuttosto semplice. Gli atti terroristici in nome di Allah hanno reso pericolose agli occhi di molti mete tradizionali come Egitto e Tunisia, ma anche parecchie capitali europee, mentre il Portogallo finora non è mai stato teatro di violenze simili. Le ragioni dell’aumento delle esportazioni sono invece collegate direttamente alla crisi economica. Nel 2011, quando è stato approvato il salvataggio, l’export rappresentava il 40 per cento del Pil, mentre ora siamo arrivati al 50 per cento. Insomma, il “made in Portugal” si è rafforzato durante la recessione. Almeno questo è quanto sostiene Pedro Santa Clara, docente di Finanza alla Nova School of Business and Economics, ateneo pubblico tra i migliori al mondo secondo varie classifiche del settore, spiegando che dietro la crescita dell’export c’è il parallelo miglioramento dell’economia mondiale, i bassi prezzi dell’energia (il Portogallo, come l’Italia, è un importatore netto di gas e petrolio), la politica monetaria adottata dalla Bce per favorire il credito bancario verso imprese e cittadini. L’aspetto essenziale sono però i salari, tiene a sottolineare Santa Clara: «I nostri erano già tra i più bassi d’Europa, con la crisi si sono ridotti ulteriormente. E così vendere all’estero è diventato più facile per gli imprenditori che hanno avuto il coraggio di spingersi oltreconfine». Caschetto antinfortunistico e giubbino giallo fluorescente, il professore ci accoglie in un cantiere di Carcavelos, paesino a metà strada fra Lisbona e Cascais. Un altro simbolo del periodo di grazia lusitano. Qui, a pochi metri dal punto in cui il fiume Tago sbocca nell’Atlantico, sta infatti nascendo un nuovo campus dedicato a 600 studenti, in maggioranza stranieri, interessati ad approfondire i temi dell’economia digitale. «È un progetto da 50 milioni di euro, realizzato grazie alle donazioni di aziende come Microsoft, Cisco, Nestlé, Accenture e molte altre», racconta Santa Clara, che punta a trasformare Milano per ragioni di cuore, professore associato di Informatica all’università Nova Information Management School, dice di non essere sorpreso da tutto questo interesse: «Investire qui vuol dire puntare su una nazione europea dove i costi sono bassi, la qualità della vita è alta, la maggior parte della gente parla inglese e la preparazione dei neo-laureati è buona. Certo», aggiunge, «in Italia gli studenti sono in media più bravi, ma un portoghese che esce dall’università è più abituato al mondo del lavoro: qui, tanto per fare un esempio, si può sostituire la tesi con uno stage presso un’azienda, perciò quando si ottiene la laurea spesso si è già inseriti nel mercato». Secondo Pacheco Pereira, ex vice presidente del Parlamento Europeo, per anni deputato socialista e amico personale del premier, «le politiche del governo attuale non sono poi così diverse rispetto a quelle degli ultimi anni, ma per capirne il successo bisogna guardare un il suo Paese nella «California d’Europa perché - dice - da noi si può studiare e poi andare in spiaggia, godere del buon cibo e di infrastrutture moderne. E si può fare tutto questo a prezzi molto abbordabili». Ad accorgersene non sono stati solo i pensionati di mezzo mondo, attirati nella patria di Magellano da una legge (del 2009) che per dieci anni garantisce la totale esenzione fiscale sul reddito. Negli ultimi tempi anche parecchie multinazionali hanno deciso di scommettere sul Portogallo. Investimenti privati che hanno spinto al rialzo il Pil nazionale senza costringere il governo ad aumentare la spesa pubblica. È il caso della tedesca Daimler, l’azienda della Mercedes, che meno di un anno fa ha aperto a Lisbona una sede con 100 dipendenti dedicati allo sviluppo di prodotti digitali. Della pattuglia di imprese attirate nella culla del fado fanno parte anche Huawei e Fujitsu, Microsoft e Uber, Vestas, Zalando, Renault, Bosch e Siemens. Alcune hanno assunto personale per far fronte alle richieste del mercato, altre hanno aperto nuove sedi rivolte ai mercati internazionali. Come Google, che secondo quanto annunciato il mese scorso dal premier Costa inaugurerà a Oeiras un centro tecnologico con 500 ingegneri dedicati ai mercati di Europa, Medio Oriente e Africa. Lorenzo Vanneschi, trasferitosi qui sette anni fa da altro aspetto». Pereira lo spiega passeggiando sul selciato della Lx Factory, un vecchio complesso industriale alla periferia di Lisbona trasformato in un centro artistico alla moda. «Ciò che è cambiato con questo governo è soprattutto il linguaggio politico: non si dice più alla gente che viviamo al di sopra delle nostre possibilità, non si parla più della necessità di fare sacrifici. Ed è soprattutto questo a fare la differenza». Le analogie tra l’Italia di oggi e il Portogallo di due anni fa sono tante, ma c’è anche una differenza eclatante: l’assenza di un partito populista, un movimento anti-establishment capace di raccogliere consensi. Federico Santi, analista politico italiano che per conto della società di consulenza americana Eurasia Group segue con attenzione quanto avviene nei Paesi del Mediterraneo, fa notare un particolare: «Fino a prima di diventare di fatto parte del governo, i due partiti portoghesi di estrema sinistra erano euroscettici, i comunisti facevano campagna per l’uscita dall’euro. Poi Costa li ha portati dalla sua parte, ha neutralizzato la loro rabbia e ora i loro consensi sono stabili, mentre quelli dei socialisti crescono». Potrebbe succedere anche in Italia? «Difficile», ragiona Santi, «ma di certo Renzi è stato meno fortunato, i tempi non sono stati dalla sua parte. In Italia la situazione economica sta iniziando a migliorare solo ora».