l’espresso 11.2.18
Alla ricerca dell’italiano perduto
La lingua letteraria diventa sempre più povera. Semplificata dagli editor. Snellita dagli scrittori. Standardizzata dal mercato
di Elvira Seminara
Scusate
se inizio così, ma c’è una parola che muore mentre leggete questo
pezzo. Ogni mattina, in qualche parte del mondo, c’è uno scrittore che
insegue una parola, l’ha solo intravista ma ne possiede il suono, la
fiuta la bracca e infine l’afferra. Mentre la scrive, come faceva la
Dickinson, la guarda brillare. Ma ogni mattina, nel mondo c’è un editor
che la spazza via. È una parola poco ordinaria - ti spiega - inconsueta
(stavo per dire desueta, ma anche questa è da evitare), astrusa (forse
anche astratta, se non astrale) insomma poco riconoscibile, poco reale,
non familiare, addirittura poetica. A questo punto, a fugare qualche
risibile resistenza, se non sei Borges o Saramago e nemmeno una
prolifica-provvida penna di milioni di copie, l’editor sgomento accusa: è
una scrittura letteraria! Sottotesto: non si venderà. Postilla: occorre
tradurla in una lingua basica. E non si tratta di un manuale di
istruzioni per lavatrice. Credevate forse che in letteratura sia
praticabile una lingua letteraria? Siete fermi a Croce, voi autori in
cerca di farfalle? Ogni giorno c’è un autore o un’autrice che fa le
esequie a una parola “diversa” - che dopo quest’ultima espulsione sarà
ancor più irrecuperabile ed estranea al lessico comune - perché non
omologata, eccentrica, scardinata, fuori dai registri, troppo nuova o
troppo antica, perché inventata o abbinata a un termine in modo
bizzarro, persino inquietante - sì, anche. Il lettore non va turbato, ma
confortato (tranne in caso di thriller, massimo genere di conforto per
l’editoria). Ogni infrazione alla lingua minima è consentita (anzi
incoraggiata) dall’industria editoriale se fa ridere, sorridere,
distrarre, digerire - cose a tutti gradite peraltro, purché ci sia
varietà di scelta. Ogni giorno, come la collina di pattume a Leonia, una
delle “Città invisibili” di Calvino, ai confini dei nostri bisbigli
cresce e si allarga la discarica delle parole reiette, quelle bandite
dai testi, disabilitate, perché non rientrano fra le 2000 parole del
lessico fondamentale raccolto dai linguisti, quelle che gli italiani
usano e riconoscono. (Forse persino una stima generosa, se il
wikizionario, il dizionario libero e multilingue, conta 1000 parole
sufficienti nella lista italiana). Un gruzzolo davvero ingrato e
striminzito, appena l’1,6 per cento delle parole disponibili nella
nostra lingua, visto che i vocabolari più noti ne contengono 120 mila.
Ed è nella stessa urlante discarica che languono i congiuntivi (forse
colpevoli di esprimere ipotesi e dubbi, cioè roba molesta e
destabilizzante), sotto nugoli di figure retoriche, visto che metafore e
similitudini allentano l’azione e possono dilatarla oltre la pagina e i
muri di casa: volete forse sfiancare quel povero lettore sopravvissuto
allo sterminio di parole e all’invasione di titoli - quest’anno persino
il 3,7 per cento più dell’anno scorso, a (confortante) dispetto della
crisi del libro? Volete voi, cacciatori di farfalle, che quel temerario
misterioso lettore (perduto tra il 40 per cento degli italiani che
leggono, ultimi dati Istat) che ha preso in mano l’unico testo che
leggerà quest’anno, si imbatta in una parola o un’immagine non
familiare, o in un indugio narrativo, una digressione che gli facciano
chiudere il libro? Siete Proust, che impiega 30 pagine a rigirarsi nel
letto prima di entrare nel vivo? Ecco il punto. Nessun editore oggi
pubblicherebbe un Proust, se non a prezzo di un sanguinoso editing, ma
neanche, temo, Perec Cortázar Gadda o Manganelli, né lo stesso Calvino,
il più acuto preconizzatore, essendo anche editore, di questa epocalisse
- giacché tutti in odore di cerebralità e difficoltà di accesso. Cioè
troppo letterari. E coscienti - peggio, orgogliosi - di esserlo. La
glaciazione della lingua è qui, oggi. Ma quale lingua produciamo noi
scrittori, più o meno consapevoli, ribelli, complici o asserviti? Siamo
davvero senza colpa? Quanto siamo condizionati, già al momento della
scrittura, dal terrore di essere letterari, distanti, impegnativi?
Quante volte leggiamo libri instupiditi, di autrici e autori molto più
intelligenti e arguti dei loro libri? Quanto crediamo in una lingua
personale e non addomesticata, che contravvenga e sorprenda, anziché
rassicurare, che incontri il lettore non nei suoi luoghi comuni ma in
quelli inesplorati, dove di rado ti porta la vita o la tv? Una lingua
immaginifica, non plastificabile, portatrice di biodiversità, riserva
genetica del pensiero, bosco lussureggiante, per dirla con Umberto Eco?
«Non si era mai visto, a casa mia, un autunno così smodato». Era
l’inizio del mio primo romanzo, “L’indecenza”, pubblicato con Mondadori
nel 2008, una frase che generò un furioso dibattito. L’editor mi chiese
di sostituire l’aggettivo “smodato”, effettivamente mai associato a una
stagione, con “particolare”. L’incipit sarebbe stato dunque «Non si era
mai visto a casa mia un autunno così particolare», francamente
grossolano e per me inaccettabile. “Smodato” rendeva esattamente la mia
idea di un autunno irregolare, imprevisto, perturbato, e direi sgraziato
nelle sue esternazioni. Concetti peraltro manifesti nelle due pagine
successive. Non avevo proprio intenzione di correggerlo. Io allora
lavoravo ancora in redazione (ho scritto di cronaca per vent’anni nel
quotidiano La Sicilia, ottimo laboratorio espressivo) e sapevo cosa si
intendeva per linguaggio diretto e denotativo, specialmente quando il
morto ammazzato cadeva a mezzanotte, c’erano due morti a settimana, e la
tipografia chiudeva all’una. Pochissimo tempo per andare a vederlo
(solitamente in periferia), informarsi, tornare e scrivere il pezzo.
Guai a perdere tempo e spazio per un aggettivo superfluo, o un vezzo
verbale. Dovevi essere esatta, e insieme rapida. Linguaggio tecnico,
anche, ma comprensibile a tutti. Per questo sapevo bene cosa facevo in
quel romanzo, trasferendo aggettivi e parole da un ambito all’altro -
delocalizzandoli diremmo oggi - per reinverginarli e dargli un nuovo
territorio, altro senso. Non era una lingua di informazione, ma una
lingua di deformazione, visionaria, per raccontare una relazione
ossificata. Una lingua ridondante e scorticata, come i capitelli
barocchi e neri di Catania divorati dalla salsedine e dal tempo. Mi fu
assegnato un altro editor. Il dibattito fu ricco e bello, e senza
amputazioni. Senza saperlo, avevo fatto come prescrive Deleuze:
accostarsi alla lingua madre da straniero, come se tutto il mondo fosse
nuovo. O come un matto. Cito sempre quell’autunno smodato, nei corsi di
scrittura, a ribadire la soglia tra i linguaggi. Ma gli allievi mi
guardano straniti e diffidenti, come avessi in mano una farfalla
agonizzante: dov’è quella soglia? Che differenza resiste tra la lingua
dei social e quella dei romanzi? Nessuna. Anzi in tutto il mondo gli
youtuber più seguiti sono inseguiti dagli editori. Proprio perché si
esprimono in una lingua comoda e senza pretese come una felpa nera,
universale e neutra. E spesso involuta e automatica come le loro storie.
D’altro canto, come diceva il sovversivo Wittgenstein, i confini della
nostra lingua creano quelli del nostro mondo personale, e se le parole
sono poche e grezze lo saranno anche i nostri contenuti. Possiamo
esprimere solo i sentimenti che sappiamo nominare. Ridurre o inquinare
il parco linguistico di un paese, sottraendogli l’irrorazione della
lingua letteraria, cioè la lingua dell’immaginazione, è anche per questo
un sopruso, oltre che una deplorevole e offensiva sottovalutazione dei
gusti del pubblico e dei suoi diritti di “sconfinamento”. Ma siamo
coscienti - autori lettori editori librai bibliotecari studiosi - di
questo scempio inflitto in nome del mercato alla lingua romanzesca,
ormai ridotta a lingua basica, una lingua omologata e standard,
poverissima sul piano lessicale ed elementare nella struttura, una
lingua paratattica e sostanzialmente modellata su quella televisiva di
basso intrattenimento? Una lingua di scambio, insomma, funzionale e
mimetica, assimilata a una struttura che punta sul ritmo per legarti al
divano, sulla riconoscibilità di situazioni per idelizzare, su fraseggi
per farne tormentoni, su personaggi- tipo per serializzare. Per farne
storie simili e riproducibili, farcite di stereotipi e luoghi
comuni/accomunanti, da identificare facilmente sul banco. Quanti romanzi
italiani degli ultimi anni, e quanti fra quelli premiati da pubblico o
riconoscimenti - presentano una lingua altra, e un costrutto diverso,
autoriale? Perché non parlano, si fanno avanti, i critici e gli storici
della letteratura? La gran parte dichiara di non leggere i romanzi
contemporanei, per mancanza di tempo e di interesse - come del resto i
loro allievi nelle facoltà di Lettere del Paese. E non hanno più spazio
nelle pagine culturali nei giornali, peraltro vistosamente ridotte.
Forse perché coi critici e studiosi si rischia una vera critica, e
dunque di non far vendere il libro? «Non c’è nulla che non possa essere
tradotto», urlava James Joyce di fronte alle resistenze di Nino Frank,
primo traduttore in italiano del Finnegans Wake. Un’impresa così
titanica che chi ci ha provato da ultimo, Enrico Terrinone e Fabio
Pedone, autori di un’edizione pubblicata lo scorso anno da Mondadori, ha
confessato di aver impiegato cinque ore di lavoro al giorno per tre
anni, per tradurre solo una settantina di pagine. Ma Joyce utilizzava un
inglese impastato ad altre lingue: un gergo sorprendente, babelicamente
ibridato, sublime e ostico, eppure in grado di scalare le classifiche:
come nel 1939, quando il libro uscì, attesissimo dopo l’Ulysses. Oggi il
romanzo prediletto dal mercato parla una lingua ben più semplice,
standardizzata e scarnificata: destinata a un pubblico abituato al ritmo
delle serie tv e patito di storie on demand (letteralmente: come i
distributori analogici di racconti brevi che spopolano in Francia). Una
lingua “onesta” e “accessibile”, l’ha definita la poetessa Rebecca
Watts, in un articolo pubblicato su PN Review “(The Cult of the Noble
Amateur”) e ripreso, tra le polemiche, dal Guardian: critica feroce
contro il culto del nobile dilettante, con tanto di nome e cognome: Kate
Tempest, Rupi Kaur, Hollie McNish, per citarne qualcuno. Autrici molto
amate e molto celebrate (solo in Gran Bretagna hanno venduto quasi 300
mila libri; McNish e Tempest hanno anche vinto il premio Ted Hughes per
la poesia), che devono notorietà e lodi, incluse quelle
dell’establishment poetico, ai social network. «Il lettore è morto»,
commenta Watts: anziché liberare il linguaggio dai cliché, i social
media hanno fatto prevalere contenuti guidati da consumatori e premiato
la gratificazione istantanea: «I nuovi poeti sono prodotti di un culto
della personalità che esige solo onestà e accessibilità, dove per onestà
si intende l’espressione costante di ciò che si sente, e
l’accessibilità significa il rifiuto totale della complessità, della
sottigliezza, dell’eloquenza e dell’aspirazione a fare qualsiasi cosa al
massimo». Il mondo anglosassone si divide. E che il tema sia sentito lo
dimostrano colti saggi in circolazione. «Le storie riflettono il
presente. E le parole per raccontarlo pure», sostiene Martin Puchner, in
“The Written World: colloquio con Adam Kirsch di Sabina Minardi La
tentazione del romanzo globale Forse perché spesso essendo amici o
colleghi degli autori risultano troppo clementi, dunque inattendibili
per i lettori? Scrivono in modo ostico e criptico? Lo spazio di commento
e analisi si raddensa nei terreni più friabili dei blog, più
democratici, dove chiunque può dare giudizi senza bisogno di aver letto
Tolstoj e Musil, e coinvolgere i lettori in un clima disteso e
divertente, fluido. C’è più qualcuno che ha in cuore una stella
danzante? Che parli ancora, da quella valle degli scarti, di canoni e
correnti, di ascendenze e rimandi, di filoni e dialogo fra autori
lontani? Qualcuno che indaghi in modo non solitario sulle forme dell’io
narrante? Non ce ne siamo accorti, eravamo distratti, ma di letteratura
non parliamo più. Parliamo di libri, dappertutto, fra saloni e fiere,
saghe e premi - è tutto un festival. Ma non parliamo di letteratura, di
lingua. Ci imbarazza. Non è divertente, non raccoglie masse. Temiamo di
essere bolsi, malmostosi, fuori dal mercato. In realtà, abbandonati su
quella discarica di parole, stralunati e soli come le marionette in quel
film di Pasolini, forse ci siamo anche noi autori. Cosa sono le nuvole -
era il film. Nuvole o farfalle, è così. La soppressione di noi
scrittori, narcisi, ciarlieri e presuntuosi nonché spesso improduttivi
sul mercato, è già in atto. Basterà sostituirci con lo Script Generator,
un dispositivo automatico per produrre testi, come ha previsto quindici
anni fa nel suo bel fantasy Philippe Vasset, scrittore poco noto che a
me ricorda Arthur Clarke. Se il campo delle storie è sempre quello,
riproducibile con infinite variazioni, vuol dire che il racconto è ormai
diventato materia prima. E che dunque la sua raffinazione può essere
meccanizzata, miscelando e assemblando le strutture essenziali delle
trame prodotte in Duemila anni (e immesse nella banca dati del congegno)
per generare testi, capaci anche di autoriprodursi in forma di film,
serie, romanzi, cartoni, videogiochi e programmi tv, tutti
intercambiabili. «È assurdo destinare soldi e tempo alla creazione,
quando questo segmento produttivo può essere vantaggiosamente
rimpiazzato da un riciclaggio intelligente e sistematico. Il fattore
umano è sopravvalutato e anacronistico. Il prodotto base utilizzato dal
dispositivo non è naturalmente il linguaggio», cito Vasset, «ma la
storia». Appunto. Gli autori, prosegue, saranno impersonati da attori
fotogenici capaci di identificarsi col loro personaggio, e di portarlo
in scena o sul set, con salutari guadagni e giubilo dei lettori. Ma non
mi piace chiudere in modo sinistro. Mentre leggevate questo pezzo, un
paio di termini dismessi sono tornati in vita. E ci sono 9 miliardi,
scriveva Clarke in un prodigioso racconto, di nomi di Dio. Eppure non
l’abbiamo mai visto.