l’espresso 11.2.18
Maledetta Terza via
Il blairismo ha fallito. E ora resta la rabbia. Parla il filosofo che ispirò il dopo-Pci
colloquio con Salvatore Veca di Francesco Postorino
Nell’epoca
dominata dalle agende populiste, dal problema del multiculturalismo e
dalla psicopolitica, la terza via dei Giddens, Blair, Prodi e Veltroni
non ha retto la sfida del nuovo millennio, finendo per assecondare
involontariamente la rivoluzione neoliberale avviata verso la fine degli
anni Settanta. Salvatore Veca prende le distanze dalla Third Way. Il
filosofo che insieme a Michele Salvati propose al Pci il cambiamento del
nome in Pds e più tardi sostenne la nascita del Pd con occhio vigile e
«migliorista», è oggi del parere che l’esperienza ventennale del New
Labour abbia tradito il fine della sinistra, cioè l’idea della giustizia
come equità. Occorre ripartire dai principi.
Cos’è una società giusta?
«Una
società le cui istituzioni, norme e pratiche siano giustificabili in
modo equo e imparziale nei confronti di tutti. Nel caso delle forme di
vita democratiche, più o meno brillanti, il principio di giustificazione
chiama in causa la dimensione della cittadinanza, ove ciascuna persona
ha uguale dignità, come ci ha insegnato il compianto Stefano Rodotà e
come ci suggeriscono i fondamentali costituzionali».
Come si risponde alle circostanze dell’ingiustizia?
«Premetto
che il fatto dell’ingiustizia consiste nell’impiego di uomini e donne
come mezzi e non come fini. A tal proposito, ritengo che una buona
risposta filosofica e politica sia rinvenibile nella prospettiva della
giustizia sociale come equità, inaugurata dal classico lavoro di John
Rawls. La giustizia sociale come equità si basa sulla priorità
dell’uguale sistema delle libertà fondamentali di cittadinanza e sul
principio distributivo di differenza.
Quest’ultimo ci dice che le
sole disuguaglianze giustificabili in termini di accesso o di titolo
sui beni sociali primari sono quelle che vanno a vantaggio di chi è più
svantaggiato».
Nella realtà non è proprio così.
«Mi rendo
conto che la distanza fra la teoria della giustizia come equità e il
contesto empirico può sembrare abissale. Ma ciò non riduce l’importanza
dei fini di giustizia sociale che la teoria ci indica. Al contrario,
offre ragioni e motivazioni per ridurre, nelle scelte pubbliche e
nell’azione collettiva, la distanza intollerabile. Devo aggiungere che
la giustizia come equità, cui sono da lungo tempo affezionato, è solo
una fra le concezioni di giustizia che rendono conto del senso
dell’espressione “società giusta”».
Per Rawls, infatti, uno è il concetto di giustizia, ma diverse le sue interpretazioni.
«Sì.
Basta pensare al programma dell’utilitarismo vecchio e nuovo, contro
cui Rawls ha costruito la sua prospettiva, o ancora alla famiglia delle
teorie del comunitarismo e, soprattutto, alle teorie libertarie della
giustizia le quali hanno dominato il campo delle idee e delle credenze
negli ultimi decenni. Dopo la lunga fase di egemonia della “giustizia
neoliberista” torna al centro della controversia filosofica, civile e
politica l’idea alternativa di giustizia, quella imperniata sull’equa
distribuzione di costi e benefici».
Un suo motto è “non possiamo
non dirci cosmopolitici”. Come tradurlo sul piano politico in un Paese e
in un’Europa che sembrano andare in senso contrario ?
«La mia è
una convinzione etica che chiede ed è in cerca di politica. Piaccia o
meno, non possiamo non guardare al mondo interconnesso e conteso, che
condividiamo con alcuni miliardi di coinquilini del pianeta, se non con
“gli occhi del resto dell’umanità”. L’obiettivo irrinunciabile e
difficilissimo resta quello della giustizia globale. Un’idea di equità
senza frontiere».
Per molti è un’utopia.
«Lo so bene.
Vorrei ricordare che il grande Max Weber ci ha insegnato, ai tempi della
barbarie europea della prima guerra mondiale, che è perfettamente
esatto, e confermato dalla storia, che se non si tentasse sempre di
nuovo l’impossibile, non si conseguirebbe mai il possibile. Quindi, con
Albert Camus e Che Guevara possiamo evocare la classica massima per la
condotta: siamo realisti, chiediamo l’impossibile».
Parafrasando
il filosofo sudcoreano Byung-Chul Han, siamo immersi nell’impazzito
“capitalismo dei like”. Il virtuale avanza spedito e a farne le spese
sono le narrazioni di lungo respiro. Come si può riscrivere la trama
della giustizia nell’era dei social network?
«L’agorà informatica
è ricca di bellezza e di orrore. La libertà di accesso è in tensione
con il potere di controllo sulle nostre menti e sulle nostre biografie.
Non credo che le narrazioni di “lungo respiro”, come dice lei, siano
rese vane o fatue dai social network. Penso piuttosto che l’enorme
asimmetria fra i poteri sociali, fra cui quelli della finanza e della
comunicazione, e i poteri politici (e quelli dello spazio pubblico di
cittadinanza), generi un effetto che ho definito: “la dittatura del
presente”».
Ci spieghi.
«L’ossessione sul breve termine
contrae e riduce l’ombra del futuro sul presente. Al tempo stesso, la
dittatura del presente erode il senso del passato come repertorio o
archivio di possibilità alternative. Senza passato e senza futuro, i
varchi per le visioni di lungo termine si fanno sempre più stretti. I
varchi della speranza politica e civile come le piccole porte da cui
poteva entrare il Messia di cui parlava Walter Benjamin. La rete è
ineludibile. Nella tensione fra libertà e potere teniamo d’occhio i
varchi e le piccole porte in giro per il mondo e diamoci da fare per
scrivere e delineare insieme modi di convivenza più decenti. Dal Siam
alla California, come concludeva nel diciottesimo secolo la sua
preghiera laica Voltaire, nello straordinario “Trattato sulla
tolleranza”».
Il modello New Labour di Blair e Giddens continua a
suscitare ammirazione in alcuni ambienti riformisti. Tuttavia, sono in
molti ad annunciarne il fallimento ideologico e politico. In che stato
di salute versa la Third Way?
«I sostenitori della Third Way
hanno preso le mosse dalla ragionevole considerazione che il paesaggio
sociale, nella costellazione nazionale e postnazionale, subiva mutamenti
a volte drastici e improvvisi, a volte lenti e sotto pelle. Di qui,
l’esigenza in un mondo mutato di mettere mano a un paniere di mezzi e di
politiche innovative, ma leali ai fini ereditati dalle tradizioni
plurali dei movimenti e dei partiti socialisti o laburisti o
socialdemocratici».
Qualcosa è andato storto.
«Il
paradosso consiste nel fatto che, passo dopo passo, i mezzi si sono
mangiati i fini. E mentre i processi di globalizzazione avanzavano con
luci e ombre, le culture e le politiche della sinistra nei regimi
democratici europei (senza considerare l’esperienza dell’amministrazione
Clinton) finivano per disperdere e dissipare i loro fini specifici e
distintivi, generando sfiducia e apatia o rabbia e indignazione in ampie
frazioni di popolazione. Alla fine, “de nobis fabula narratur”».
L’impressione
è che i protagonisti della cultura liberal non vogliano tener fede
all’imperativo del “tu devi”, trascurando così quel manuale progressista
fondato sul bisogno di correggere la realtà in una direzione
egualitaria.
«Una seria prospettiva progressista deve porre al
primo posto il fine della giustizia sociale come equità. Justice, first.
Per l’uguale dignità di chiunque, ovunque gli o le sia accaduto di
avere una vita da vivere sull’unico pianeta di cui sinora almeno
disponiamo, come ci ha ricordato Stephen Hawking dalla cattedra che fu
di Newton».
Intanto la forbice sociale continua ad allargarsi.
«A
fronte delle ineguaglianze crescenti e intollerabili che affollano il
pianeta, proprio Hawking ha sostenuto: “Possediamo la tecnologia per
distruggere il pianeta su cui viviamo, ma non abbiamo ancora sviluppato
la tecnologia per sfuggire da questo pianeta. In questo momento
condividiamo un solo pianeta, e dobbiamo lavorare insieme per
proteggerlo. Per farlo è necessario abbattere le barriere interne ed
esterne alle nazioni, non costruirle. Se vogliamo avere una possibilità
di riuscirci, è necessario che i leader mondiali riconoscano che hanno
fallito e che stanno tradendo le aspettative della maggior parte delle
persone. Con le risorse concentrate nelle mani di pochi, dovremo
imparare a condividere molto più di quanto facciamo adesso”»