giovedì 8 febbraio 2018

La Stampa 8.2.18
Il sesso consensuale secondo Foucault
Esce a 34 anni dalla morte del filosofo francese il quarto volume della Storia della sessualità L’eros? Ce l’hanno insegnato i Padri della Chiesa
di Leonardo Martinelli


La morte sarebbe arrivata di lì a poco, il 25 giugno 1984, all’ospedale Pitié-Salpetrière: inevitabile? Quasi inconsapevolmente vagheggiata? Malato di Aids, se ne andava a 57 anni Michel Foucault. Quegli ultimi tempi avevano visto il filosofo prendere le distanze da un certo militantismo gauchista. Poi, Foucault trascorreva molto del suo tempo all’università di Berkeley, in California, dove ogni volta alle sue lezioni o alle conferenze si accalcavano migliaia di persone: era assurto a mito vivente negli Usa (e in Italia) prima che in Francia, libertario estremo e non moralista ortodosso come Sartre o Camus. Era anche uno dei primi intellettuali star, da coinvolgere nei dibattiti alla tv e che analizzavano l’attualità: il Corriere della Sera, per primo, lo spedì a fine 1979 in Iran a raccontare la rivolta khomeinista, che lui osannò come «la forma più moderna di rivolta pervasa di spiritualità politica».
In quegli anni Foucault andava anche a caccia di sesso con sconosciuti nelle saune di San Francisco, quando l’Aids era uno spettro temuto o sfidato («Il piacere completo e totale», diceva, «per me è legato alla morte»). Cos’altro ci è rimasto di quegli ultimi suoi anni, misteriosi e febbrili?
Da Gallimard
Basta infilarsi in questi giorni di neve a Parigi, nelle stradine della Rive Gauche, dietro al museo d’Orsay, e presentarsi al palazzotto antico dell’editore Gallimard, dall’atmosfera più ovattata che mai, dove alcuni giornalisti hanno avuto accesso a Les aveux de la chair («Le confessioni della carne»), 427 pagine, testo finora inedito, ormai un mito da decenni. E che sarà finalmente venduto da domani in tutta la Francia. È il quarto e ultimo volume della Storia della sessualità.
Dopo essere stato il filosofo della follia (influenzò Franco Basaglia), della prigione e della psichiatria, Foucault si lanciò in un vasto studio sulla genealogia dell’uomo del desiderio. Nel 1976 uscì il primo tomo, La volontà di sapere. Come spiega nella prefazione di Le confessioni della carne Frédéric Gros, uno dei maggiori specialisti di Foucault, il filosofo scrisse questo testo tra il 1980 e l’82. E nell’autunno di quell’anno si presentò da Gallimard con la redazione finale, ma senza note. Poi, però, si mise al lavoro sul secondo e il terzo volume: voleva che uscissero prima. E furono pubblicati nel 1984, dopo la sua morte (L’uso dei piaceri e La cura di sé), mentre l’ultimo si perse per strada.
In Les aveux de la chair, Foucault volle capire come e quando la sessualità fosse diventata «il sismografo della nostra soggettività». Si rifece ai padri fondatori del cristianesimo, tra cui Clemente Alessandrino, Tertulliano, Tascio Cecilio Cipriano, sant’Ambrogio, san Giovanni Crisostomo, Giovanni Cassiano, tutti citati in un corso impartito al Collège de France nel 1980, ma stavolta con un’aggiunta non da poco, sant’Agostino. Mediante fili tematici (come la verginità, la castità o il consenso nel rapporto sessuale) andò poi indietro fino alla filosofia antica.
Repressione borghese?
Foucault si chiede: è stata la morale giudeo-cristiana a far calare una cappa di piombo sulla libertà sessuale? La «repressione borghese» rappresenta la semplicistica continuazione del soffocamento cristiano della sessualità? La risposta è negativa. Gli stessi principi, scrive, «sono emigrati nel pensiero e nella pratica cristiane a partire dagli ambienti pagani, dei quali bisognava disarmare l’ostilità, mostrando forme di condotta già riconosciute da loro per il proprio intrinseco valore».
Insomma, basta con la mitologia della grande libertà pagana fatta fuori dall’austerità cristiana. Come sottolinea Gros, Foucault (sorprendentemente) «ha una visione del cristianesimo che non è per nulla quella di una filosofia del proibito, della frustrazione, del disprezzo o dell’odio della sessualità». Che alla fine, invece, ripropone gli stessi limiti, forse necessari, alle pratiche sessuali di un Platone o di un Marco Aurelio. Anzi, la Patristica dà così una centralità al sesso, propria della civiltà occidentale: impedisce che diventi un argomento tabù.
Piacere e morale
Foucault osserva anche che, se i Padri della Chiesa conservano pratiche già formulate nell’antichità, come la condanna dell’adulterio o della possibilità di risposarsi, cessano però di considerare le relazioni tra piacere e morale per preoccuparsi della carne e della concupiscenza: guardano all’interiorità del soggetto, al suo rapporto al proprio desiderio, fatto di consenso intimo o di rinuncia al male. E, a loro volta, se i Padri fondatori parlano di consenso nei confronti del proprio desiderio, in questi tempi di post scandalo Weinstein il dibattito riguarda invece il consenso al desiderio altrui. Così come i testi alle origini del cristianesimo prefiguravano la fine della differenza tra i sessi nell’altro mondo, mentre oggi noi ne parliamo ma per questo stesso mondo terreno. Sì, Foucault gettò le basi di tanti dibattiti attuali. Anche quello sul gender.

Corriere 8.2.18
Psicologia
Dalla tradizione freudiana alle sfide di oggi, il saggio di Paola Marion (Donzelli)
La tecnologia ha sconnesso persino il triangolo di Edipo
di Silvia Vegetti Finzi


Nel secolo scorso due avvenimenti epocali hanno infranto il paradigma della procreazione umana: la sessualità si è resa autonoma dalla generazione e, successivamente, la procreazione si e disgiunta dalla sessualità. Si tratta di profonde infrazioni nella concezione che abbiamo di noi stessi, dei rapporti con gli altri, con la natura, la società, l’etica e la storia. Ma, come accade per i traumi più gravi, abbiamo preferito rimuoverli o minimizzarli considerandole come forme di liberazione o interventi terapeutici. Solo in un secondo tempo, nell’ après coup che separa il trauma dalla sua elaborazione, è iniziato quel lento, doloroso processo di consapevolezza che porta a valutare le conseguenze reali e fantastiche, oggettive e soggettive di quanto è accaduto fuori e dentro di noi, come si ripromette il saggio della psicoanalista Paola Marion, Il disagio del desiderio , pubblicato da Donzelli.
Si tratta di un libro tanto opportuno quanto esauriente, rivolto non solo agli addetti ai lavori ma a tutti, perché nessuno può considerarsi indifferente rispetto ai quesiti che questa epoca ci pone.
Invitando il lettore ad affrontare un ambito così mobile e complesso, Paola Marion fornisce, nella prima parte del libro, le competenze storiche e teoriche necessarie per seguirla in un’esplorazione psicoanalitica appassionante e innovativa. Poiché le biotecnologie procedono espellendo il sesso dalla procreazione, la sua ricerca prende le mosse proprio dalla sessualità che la psicoanalisi aveva posto al centro della vita biologica e psichica. Integrando la teoria freudiana, che privilegia la pulsione, con quella post-freudiana, che sottolinea gli aspetti relazionali della sessualità, l’autrice appronta un dispositivo teorico e clinico particolarmente idoneo a cogliere la complessità dei mutamenti in atto. Primo tra i quali la disintegrazione del triangolo edipico (formato da padre, madre, figlio), gravato, come effetto delle biotecnologie, da un eccesso di protagonisti. Nella gravidanza indotta con dono di gameti e condotta per conto terzi, ad esempio, le madri possono essere tre: genetica, portante, committente.
La «vertigine tecnologica» tende ad annullare i limiti e le differenze tra le generazioni, i sessi e le posizioni. È possibile generare da soli, con partner dello stesso sesso, dopo l’età feconda, post mortem e così via.
Ma queste soluzioni impreviste pongono richieste psicologiche ed etiche sempre più impegnative. Il comprensibile desiderio di prolungare la propria vita si può trasformare in un bisogno necessario e insopprimibile che conduce a una pericolosa coazione a ripetere.
L’autrice conclude la sua discesa verso le profondità della psiche con un appello alla responsabilità verso se stessi e verso gli altri.
Lo stesso che, in una magistrale introduzione, esprime Giuliano Amato, preoccupato che uno sviluppo illimitato delle nostre potenzialità trasformative possa «creare intorno a noi un contesto nel quale non siamo più in grado di riconoscerci». Dietro le neutrali finalità terapeutiche della fecondazione medicalmente indotta si cela un ventaglio di desideri e di possibilità che minacciano, tra l’altro, l’interesse prioritario del nascituro. Ma, prima di affidare al legislatore il compito di dirimere una materia così intricata e sfuggente, Amato chiede a tutte le componenti della società di interrogarsi e di confrontarsi in una dimensione etica perché «è solo l’etica che può entrare nelle coscienze e qui dettare, quando serve, il comando giusto».

Repubblica 8.2.18
Il femminismo folle della ragazza che sparò a Warhol
Per lei la liberazione delle donne sarebbe stata possibile solo con la violenza Scriveva: “Non resta che rovesciare il governo, eliminare il sistema monetario e distruggere gli uomini”
Trent’anni fa moriva Valerie Solanas, l’attivista che nel 1968 tentò di uccidere il re della Pop Art. I suoi scritti, ora tradotti in Italia, immaginano un mondo alternativo che può fare a meno del sesso debole: quello maschile
di Melania Mazzucco


Il 25 aprile 1988 nella stanza 420 del Bristol Hotel viene ritrovato il cadavere di una delle tante randagie del Tenderloin, il quartiere più sordido di San Francisco. Brulica di vermi ed è in decomposizione, ma si tratta di Valerie Solanas. Era stata una scrittrice, un’attivista politica, una propagandista sociale e una protagonista della controcultura americana degli anni ’60, ma da tempo nessuno aveva notizie di lei. Era stata risucchiata nel gorgo di un’esistenza maledetta, marginale e “abietta” – l’unica del resto congeniale a una donna che, pur dotata di un’intelligenza superiore e di una laurea, aveva vissuto sempre senza tetto né legge, aveva rifiutato sesso (“rifugio dei mentecatti”), figli, amore e famiglia, e la possibilità di affermarsi come autrice (non scrisse mai il romanzo che le aveva chiesto Maurice Girodias di Olympia Press, l’editore di Nabokov e Burroughs), nonché teorizzato (e praticato) il sabotaggio del sistema e lo s-lavoro. Feccia – in inglese scum – era la sua parola feticcio e l’unica condizione umana cui riconoscesse dignità. E come feccia – “stravagante, sporca, stracciona” – era morta.
Rigettata nella “fogna”, dannata all’oblio al punto che Lou Reed protestò contro la sopravvivenza del suo ricordo nella canzone I believe. Eppure Valerie Solanas era stata qualcuno. Doveva la celebrità ai tre colpi di rivoltella tirati, il 3 giugno del 1968, contro un bersaglio clamoroso: il re della Pop Art, e di New York. Ho sparato a Andy Warhol, si intitolava il film di Mary Harron (1995), nel quale l’ottima Lily Taylor offriva all’attentatrice il proprio volto impertinente e la voce alle sue teorie (i dialoghi sono quasi tutte frasi di Solanas). Warhol sopravvisse ai proiettili, e Solanas al carcere, alla condanna e all’internamento in manicomio.
Ma nessuno dei due fu più lo stesso.
Se la singolare figura di Solanas rimaneva un riferimento nel sommerso mondo antagonista, col tempo si è risvegliato anche l’interesse della cultura ufficiale – e le sono stati dedicati studi universitari, biografie, romanzi, spettacoli. Ma la radicalità del suo pensiero (e del suo comportamento), l’estremismo e l’estetica terrorista hanno favorito una minimizzazione patologizzante (anche se lei aveva sempre rivendicato: «sono una rivoluzionaria, non una pazza»).
Solanas, bianca proletaria che derideva i sovversivi borghesi figli di papà, accattona non eterosessuale, “superfemminista” che praticava la prostituzione, era fuori da ogni regola, logica, gruppo. Non si conformava al discorso rispettabile della conquista dei diritti e della parità dei generi: la liberazione delle donne non sarebbe venuta dalla mediazione, ma dalla rivolta e dalla violenza. Insomma: un’imperdonabile. Saluto perciò con piacere la pubblicazione di Trilogia SCUM. Tutti gli scritti (Morellini editore / VandA epublishing). Le curatrici, Stefania Arcara e Deborah Ardilli, non solo offrono la traduzione integrale delle (pochissime) opere di Solanas, il Manifesto SCUM, la commedia In culo a te, e il racconto Come conquistare la classe agiata.
Prontuario per fanciulle (inediti in Italia), ma la corredano con due saggi ( Chi ha paura di Valerie Solanas e Effetto SCUM Valerie Solanas e il femminismo radicale)
fondamentali per inquadrare la vicenda della scrittrice e il suo (problematico) rapporto col pensiero femminista.
Il racconto, del 1966, è un bozzetto satirico, una brillante anticipazione delle opere successive. La commedia, Solanas la offrì a Andy Wharhol nel 1967, sperando che la Factory la producesse. Ma il turpiloquio, le teorie eversive della protagonista (la sboccata mendicante Bongi, maschera dell’autrice), l’oscenità di alcune sequenze (una ragazza organizza una cena in cui servirà in tavola un escremento), e l’infanticidio finale la rendevano non rappresentabile nemmeno nel clima libertario del teatro off-Broadway. Warhol tuttavia utilizzò alcune battute di Solanas e la inserì come comparsa nel suo film I, a man. Del 1967 è pure lo SCUM Manifesto, che Solanas diffuse smerciandone in strada le copie auto-stampate. «Per bene che ci vada, la vita in questa società è di una noia sconfinata» – è il fulminante inizio. «E poiché non esiste aspetto di questa società che abbia la minima rilevanza per le donne, alle femmine dotate di spirito civico, responsabili e avventurose, non resta che rovesciare il governo, eliminare il sistema monetario, istituire l’automazione completa e distruggere il sesso maschile». È violento come tutti i manifesti delle avanguardie, paradossale come i saggi pseudoscientifici sull’inferiorità mentale della donna, di cui è insieme una confutazione e una parodia. Ma è soprattutto un ritratto corrosivo ed esilarante degli uomini. «Il maschio è completamente egocentrico, intrappolato in se stesso, incapace di empatizzare con gli altri o di identificarsi con loro, incapace di amore, amicizia, affetto, tenerezza (…) Le sue reazioni sono interamente viscerali, non cerebrali; la sua intelligenza è un mero strumento al servizio dei suoi istinti e dei suoi bisogni (…) non è in grado di interessarsi a nulla, fuorché alle proprie sensazioni fisiche». L’Io del maschio in effetti consiste nel suo uccello. La tesi di fondo è che il maschio sia una femmina incompleta, che rivendica come proprie le caratteristiche femminili (forza, indipendenza emotiva, energia, dinamismo, coraggio, vitalità, etc.) per mascherare la propria angoscia, debolezza, invidia: poiché con la tecnologia non è più necessario nemmeno per la riproduzione, oltre che nocivo è diventato superfluo, e deve essere eliminato (oppure sottomesso). Non è la rabbia femminista ma l’“umorismo apocalittico” la cifra di Solanas, e il pregio della sua scrittura. Il Manifesto fu pubblicato da Girodias mentre lei era in carcere. Ma gli spari contro Andy Warhol ne imponevano una lettura letterale, sinistra. Mentre la forza di queste pagine è, ancora oggi, la loro allegra, scatenata utopia. Le femmine che Solanas sognava, «dominatrici, determinate, sicure di sé, cattive, violente, egoiste, indipendenti, orgogliose, avventurose, sciolte, insolenti», adatte a governare il mondo, però, faticano ancora a liberare se stesse.

il manifesto 8.2.18
Destra in piazza, sinistra a casa
Macerata, la manifestazione nazionale non si farà. Lo chiede il sindaco
Se la voce dell’odio diventa egemone nel Paese
Retromarcia. Anpi, Arci, Cgil e Libera revocano la convocazione antifascista indetta per sabato

qui

il manifesto 8.2.18
Se la voce dell’odio diventa egemone nel Paese
Macerata. In tutta questa vicenda, il ruolo della Lega è centrale. Dopo la svolta «nazionale» di Salvini, esiste di fatto una connivenza oggettiva tra estrema destra nazi-fascista e gli ex-padani
di Alessandro Dal Lago


Giorno dopo giorno, aggressione dopo aggressione, insulto dopo insulto, il discorso razzista sta diventando egemone in questo paese. Il raid di Macerata ha scoperchiato la pentola di un odio per gli stranieri che monta da anni, alimentato dalla propaganda leghista, dalle azioni di Casa Pound e Forza Nuova, dalle strumentalizzazioni di Berlusconi e dall’assenza di qualsiasi azione di governo contro il fascismo. In altri tempi, il sindaco di sinistra o centrosinistra di una città ferita come Macerata avrebbe chiamato i cittadini a mobilitarsi. Oggi, il sindaco Carancini chiede, in nome della «comunità», che si sospenda ogni manifestazione. Ma non è difficile prevedere che a gridare sarà solo la destra razzista.
E così la voce dell’odio è la sola che si sente davvero. Da sempre, nel dopoguerra, il fascismo ha trovato spazio, alimentato non solo da un ribellismo cialtrone, ma anche dalla connivenza di settori dell’apparato dello stato.
Oggi, tuttavia, sembra in grado di condizionare con i suoi messaggi «sociali» ampli strati di un’opinione pubblica disertata dalla cultura civile. Il problema non è soltanto il rispuntare del culto delle «buone opere» di Mussolini – che non manca nemmeno in qualche brillante mente di centrosinistra. È la creazione del disordine in nome della «legalità», la stigmatizzazione violenta delle minoranze a favore delle supposte maggioranze, lo sdoganamento del razzismo biologico e il menefreghismo con cui i «liberali» e i «democratici» accolgono le dichiarazioni razziste dei loro alleati,
Qualsiasi partito di centro o liberale francese, tedesco o inglese (nell’Europa dell’est è tutt’altra storia) non avrebbe sostenuto la candidatura di un Fontana, quello della «razza bianca». In Italia si ridacchia o si minimizza. In un paese civile, Calderoli, che diede dell’orango al ministro Kyenge, sarebbe stato cacciato dal parlamento. In Italia, è stato salvato dai voti dei senatori Pd. Dovunque, il fascista che uccise con un pugno un profugo nigeriano dopo aver urlato «scimmia africana» alla moglie sarebbe in galera. Da noi, ha fatto poco più di un anno di prigione. Dovunque, per farla breve, il raid razzista di Macerata, opera di un leghista, avrebbe profondamente scosso la società. Da noi, o lo si minimizza come gesto di un folle o lo si esalta sui social o sugli striscioni.
In tutta questa vicenda, il ruolo della Lega è centrale. Dopo la svolta «nazionale» di Salvini, esiste di fatto una connivenza oggettiva tra estrema destra nazi-fascista e gli ex-padani. I messaggi xenofobi di Salvini sono identici a quelli di Forza Nuova e Casa Pound. Ma non minore è la responsabilità di Berlusconi e dei suoi portaborse. Invocare l’espulsione di 600.000 stranieri – qualcosa di impossibile e impensabile – significa gettare benzina sull’ostilità dilagante per profughi e migranti. Alla fine, ci sarà sempre qualche miserabile giustiziere che prenderà attivamente le parti della «comunità».
La minimizzazione del raid di Macerata da parte del Pd, a parte qualche voce isolata, sembrerà astutissima a Renzi, che mira a governare con Forza Italia. Ma è un altro piccolo contributo all’avvelenamento dell’aria che si respira in Italia. Questo dovrebbe essere il momento della mobilitazione, dell’espulsione dei fascisti dalla scena politica, non del quietismo e del volemose bene in nome della tranquillità, come chiede il sindaco di Macerata.
Perché, come si vede facilmente girando per i social e come sa Laura Boldrini, altri vigliacchi sono pronti a colpire i deboli per difendere i forti.

Il Fatto 8.2.18
Macerata, Pd e Anpi mollano. E oggi arriva Forza Nuova
La manifestazione - Sinistra divisa, anche Cgil e Libera rinunciano a sfilare contro l’estrema destra. Ieri CasaPound in piazza con la scorta
Macerata, Pd e Anpi mollano. E oggi arriva Forza Nuova
di Pierfrancesco Curzi


Il magico mondo della sinistra italiana si è diviso sui fatti traumatici di Macerata. Il Pd, da Roma, ha spinto i suoi all’annullamento della grande manifestazione del popolo della sinistra, organizzata per sabato pomeriggio in citàà. A segno l’appello del sindaco di Macerata, Romano Carancini: “Ero fiducioso che le forze democratiche ed antifasciste – ha detto il primo cittadino Pd – avrebbero saputo ascoltare la voce della città. La sospensione dimostra la sensibilità verso una comunità che intende rialzarsi e tornare ad essere se stessa dopo le ferite subite. Fermarsi a respirare non significa rinunciare a combattere per i valori”.
Resta da capire di quale voce stia parlando Carancini, dietro al cui messaggio sembra esserci la regia di Matteo Renzi. Al sindaco l’ordinaria amministrazione, ai vertici, specie in una fase pre-elettorale, la strategia sul “caso Macerata”: il tiro al bersaglio con la pistola contro gli immigrati (sei feriti, uno più grave ma fuori pericolo) scatenato da un ex candidato leghista con tatuaggi neonazisti che voleva “vendicare” la 18enne Pamela Mastropietro, la cui morte è ancora un mistero mentre un pusher nigeriano resta in carcere per l’atroce vilipendio del suo cadavere, in mancanza di indizi precisi sull’omicidio.
La presa di posizione del Pd ha diviso il fronte della sinistra. Senza scalfire la controparte di destra, piuttosto estrema. Nessun divieto da parte della polizia. Ieri CasaPound, stasera Forza Nuova e la sua iniziativa: “Di immigrazione si muore”. Il Partito democratico si è portato dietro sigle, organizzazioni e movimenti, lasciando da sola la sinistra radicale e antagonista. Una spaccatura inattesa. La manifestazione di sabato resta in cartellone ma senza i vessilli di Pd, Cgil, Arci, Libera e soprattutto dell’Anpi, che martedì sera ospitava l’assemblea generale in vista di sabato. Liberi e uguali, dopo l’iniziale adesione, ne sta discutendo ma gli esponenti locali sono per rinunciare. Gli ambienti più a sinistra, tra anarchici, formazioni studentesche, autonomi e così via, la vedono così: “Eravamo stati chiari – dicono gli antagonisti –, niente vessilli di partito o di tendenza politica. Questa la spaccatura. Sembra che senza Pd, Cgil e associazioni collegate non si possa fare nulla, è l’esatto contrario. Loro non ci comandano, per questo abbiamo deciso di confermare la manifestazione, fissata per il primo pomeriggio a Macerata. Ci sono decine di pullman in arrivo dalle Marche e dal resto del Paese”.
All’assemblea dell’altra sera erano presenti i responsabili locali del Pd, tra cui il coordinatore regionale, Francesco Comi. Nella sede dell’Anpi anche i rappresentanti di Potere al Popolo: “Noi ci saremo sabato – precisa Maurizio Acerbo, leader di Rifondazione comunista e candidato del neonato movimento politico –. Dispiace apprendere che diverse sigle abbiamo deciso di non partecipare. Rinunciare significa darla vinta a chi vuole un clima di paura”.
Ieri, intanto, CasaPound ha svolto la sua iniziativa politica a Macerata, con tanto di corteo di un centinaio di persone blindato dalla polizia in assetto antisommossa, alla presenza del segretario nazionale, Simone Di Stefano: “Non sono a favore, ma di fronte a certi crimini efferati, come la morte di Pamela Mastropietro, la pena di morte potrebbe essere una liberazione”.
I fatti di Macerata suscitano reazioni diverse. Il vescovo della città, Nazzareno Marconi ha invitato tutti ad una preghiera, insieme alle comunità protestanti, ortodosse, islamiche ed ebraiche. A Roma invece, vicino al Colosseo, gli antagonisti hanno piazzato un manichino a testa in giù con una croce celtica e una scritta: “Minniti e fascisti la vostra strategia della tensione non passerà”. Ieri, forse anche per distinguersi dal Pd, il guardasigilli, Andrea Orlando, ha fatto visita ad alcuni degli africani feriti, uno dei quali, un ghanese ferito ad una gamba, è scappato dall’ospedale.

Repubblica 8.2.18
Macerata e il raid razzista
Allarme del sindaco l’Anpi annulla il corteo antifascista
Carancini ha chiesto di “farsi carico del dolore della città” e di non fare più la manifestazione di sabato. Ci sarà un evento nazionale in una data ancora da decidere
di Paolo G. Brera,


MACERATA Sentono aria di battaglia, ed eccoli qui a costringere decine di agenti in tenuta anti sommossa a presidiare una città emotivamente devastata, dopo la tragedia di Pamela e la follia nazista di Traini. Martedì i centri sociali, ieri CasaPound, oggi Forza Italia ( e forse Salvini, che sarà nelle Marche per un tour elettorale già organizzato). Sabato, ancora i centri sociali: hanno risposto picche all’appello accorato del sindaco Romano Carancini, che ha provato a chiedere un minimo di responsabilità.
Il sindaco si è rivolto a tutti con un messaggio su Facebook: «I prossimi giorni sono più delicati di quelli terribili passati. Chiedo a tutti di farsi carico del dolore e dello smarrimento della mia città. Si fermino tutte le manifestazioni, si azzeri il rischio di ritrovarsi dentro divisioni o possibili violenze. Mi appello alle donne e agli uomini, ai giovani, ai movimenti, alle associazioni, ai centri sociali, ai partiti, per sospendere spontaneamente ogni pur legittimo desiderio di far sentire la propria voce».
Il sindaco ha convinto Anpi e Arci, Cgil e Libera, che hanno rinunciato aderendo sia pur con qualche malumore « all’appello, seppur tardivo», ma «pretendendo che Macerata non diventi luogo di attiva presenza neofascista » e che si vietino «le iniziative annunciate da Fn, Casapound e da tutti i seminatori di razzismo ». Che non sia una resa ai neofascismi lo assicura il vice segretario Pd, Maurizio Martina: «Condividiamo l’idea di una manifestazione antifascista nazionale contro ogni intolleranza, violenza e xenofobia » . Ma la data non c’è ancora.
Per i centri sociali, invece, quella del sindaco è «una posizione irricevibile, che pone sullo stesso piano le iniziative neofasciste e la grande manifestazione di condanna di quanto accaduto » . Corteo confermato, dunque, e le adesioni, su Facebook, sono già più di tremila.
La vigilia è tutt’altro che serena. Ieri, gli agenti hanno dovuto presidiare il centro per la “ conferenza stampa” del leader di Casapound, Simone Di Stefano, preceduta martedì da un blitz dei centri sociali: per contestarne l’ospitalità in un bar hanno sfoderato fumogeni e sciarpe sul volto, dito medio e persino un « ti taglio la gola» a un commerciante.
Erano una trentina i ragazzi dei centri sociali, sconosciuti ai cronisti locali; e una trentina anche i militanti di Casapound. Di Stefano li omaggia con un « un saluto romano collettivo » e un comizio su pena di morte e espulsioni «in Libia», se hanno commesso reati «sperando trovino i carcerieri che meritano».
Oggi, invece, tocca a Fn abbeverarsi nella città insanguinata da Innocent, dai suoi complici e da Traini. E c’è l’incognita Salvini, che potrebbe approfittare del calendario elettorale favorevole per un’escursione a Macerata. Intanto, ieri il Guardasigilli Andrea Orlando ha visitato i feriti nel blitz biasimando «un pazzo fascista che disonora il nostro tricolore, la nostra bandiera infangata da una persona contraria ai valori della Costituzione». Pure il vescovo, Nazzareno Marconi, chiede di rinunciare « a fiaccolate, cortei e veglie: sapete il grande valore che do alla preghiera, e il rifiuto di strumentalizzarla » . Chi vuole dare un segno, «metta una candela sul davanzale».

Repubblica 8.2.18
La denuncia
Libertà e Giustizia: istituzioni troppo inerti così i feriti neri contano meno dei bianchi


Condanna per “l’atto di terrorismo fascista” di Macerata e critica all’atteggiamento delle più alte istituzioni. L’associazione Libertà e Giustizia in una nota punta il dito contro il leader leghista Salvini “che ha più volte invitato a ‘fare pulizia’ usando ‘maniere forti’”. Ma “deplora anche l’inerzia delle massime istituzioni della Repubblica, che hanno smorzato i toni sostenendo la presunta natura individuale del gesto di quello che è stato definito uno squilibrato. Il razzismo è l’attribuzione di pesi diversi alle persone in base all’appartenenza etnica: in Italia è evidente che non tutte le vite sono uguali. Non solo i migranti non sono più uguali davanti alla legge, dopo i provvedimenti dell’attuale ministro dell’Interno, ma anche l’importanza simbolica delle ferite dei loro corpi è, nel discorso pubblico, incomparabilmente minore di quelle delle ferite ai corpi bianchi”. Leg aggiunge: “Avremmo voluto vedere i vertici della Repubblica e dei partiti democratici al capezzale delle vittime, e non intenti a misurare le parole in vista della campagna elettorale. Il risultato è che si parla di invasione di migranti (che non esiste) e non si parla dell’invasione di fascisti (che è sotto gli occhi di tutti)”.

Repubblica 8.2.18
Intervista a Carla Nespolo
“Rinunciamo non per debolezza ma per senso di responsabilità verso la comunità”
di Matteo Pucciarelli


«Beh, sì, è un po’ assurdo…», ammette alla fine la pur mite e misurata presidente dell’Anpi, Carla Nespolo.
La decisione di rimandare la manifestazione antifascista, presa dall’associazione partigiani insieme ad Arci, Libera e Cgil, è stata sofferta, dice: «Ma siamo coerenti: per noi le istituzioni vanno rispettate sempre». Anche quando un sindaco come quello di Macerata, Romano Carancini, chiede uno stop. Una richiesta, appunto, considerata “assurda”.
Il sindaco propone di rimandare e voi avete accettato. Ma perché?
«La nostra valutazione è stata quella di rispettare le volontà della comunità, di cui il sindaco è espressione».
Scusi, era mai accaduto qualcosa del genere?
«No, è la prima volta».
Ed è dispiaciuta?
«Ovviamente. Però allo stesso tempo bisogna fare delle scelte apparentemente impopolari, come può essere questo rinvio.
Ripeto, se il primo cittadino ti dice che non ci sono le condizioni, ne prendiamo atto. La manifestazione la faremo comunque, presto, non fra mesi ma nel giro di poco tempo. E lì ci aspettiamo una grande adesione».
Rimane la questione: perché chiedere a degli antifascisti di non sfilare?
«Infatti è assurdo. Il sindaco poi è stato anche intempestivo, poteva sicuramente fare prima questo appello. Ci tengo molto che sia chiara una cosa, comunque: il nostro non è un atto di debolezza ma di responsabilità».
Di sicuro però il tutto è indicativo dell’aria che tira, non crede?
«Sì, ed è vero che c’è stato un cedimento e una sottovalutazione di quanto sta accadendo di una parte del mondo democratico rispetto all’antifascismo. Per noi occorre agire su due linee: quella istituzionale, facendo rispettare norme che già ci sono. Ad esempio, chiediamo che alla forze neofasciste sia vietato di partecipare alle elezioni. E bisogna lavorare dal punto di vista culturale, per ribadire e veicolare i valori della nostra Costituzione.
La quale ha bisogno di essere attuata, ancora oggi. Anzi, ancor di più oggi».
Dopo i fatti di Macerata Matteo Renzi ha detto che bisognava rispondere assumendo più carabinieri e poliziotti. Lei cosa ne pensa?
«Mah, insomma, lo trovo bizzarro come ragionamento, fatto peraltro da parte di una persona che ha governato questo Paese.
Aggiungo comunque un’altra cosa: confido che le forze dell’ordine di questo Paese siano lealmente antifasciste».

il manifesto 8.2.18
Paura, sospetto, odio: i giorni da incubo di una tranquilla provincia italiana
Reportage. A Macerata il vaso di Pandora è stato scoperchiato e sono venuti al pettine i nodi di trent'anni di scellerata politica nazionale
La fiaccolata martedì sera a Macerata per Pamela Mastropietro
di Luca Pakarov


MACERATA L’equilibrio è fragile e a ogni ora si temono altri inaspettati risvolti. Per le vie si cammina guardinghi, a ogni sirena della polizia un fremito, gli immigrati africani abbassano gli occhi e tengono i figli in casa. A tre giorni dalla tentata strage il clima di Macerata è tesissimo, con le forze dell’ordine a pattugliare giorno e notte l’ingresso della città, posti di blocco, elicotteri sulla testa e schiere di giornalisti in strada.
Ci si sente sotto una cappa irrespirabile, con gli occhi puntati addosso e dove nascono di continuo frizioni tra coloro che fino a ieri si frequentavano allo stadio o al bar. Sembra che questo laboratorio sociale chiamato provincia stia dando i suoi frutti, diventando un megafono di ogni umore del Paese. Qui vengono i fascisti a manifestare per la legalità e i politici a farsi foto, qui vorrebbero inviare più poliziotti malgrado il basso tasso di delinquenza, qui arriva il ministro degli Interni e quello della Giustizia, qui c’è chi vuole resistere e con tanta pazienza spiega e rispiega perché Pamela e Traini siano due storie diverse.
Da un giorno all’altro ci si sente costretti a scegliere da che parte schierarsi, senza un dibattito, un ragionamento. Chi martedì sera è andato alla fiaccolata per Pamela si sente diviso e non comprende chi sabato avrebbe voluto partecipare alla manifestazione antifascista. Chi oggi avrebbe voluto manifestare con Forza Nuova crede che i migranti, malgrado le statistiche reiterate da ogni dove, abbiano invaso la città, deturpandola e rendendola pericolosa.
Il sindaco ha di fatto sospeso ogni manifestazione. Sempre martedì alcuni hanno manifestato davanti al bar Venanzetti dove per ieri era stata indetta la conferenza stampa di Casa Pound. Qualcuno afferma che forse c’è un lato positivo, che finalmente le maschere di chi ci vive attorno sono cadute.
La provincialissima Italia, periferia d’Europa, e la provincia del Paese, appaiono ora accumunate da un unico destino incattivito. Il vaso di Pandora è stato scoperchiato. All’inizio si avvertiva soprattutto nella personalissima provincia di ognuno, quella dei social, con i propri gruppi, i 200 o 3mila contatti, dove affioravano posizioni sempre più radicali.
Ma l’odio che una volta sembrava costruito su sole chiacchiere, da quando si è materializzato è diventato un leviatano implacabile e oggi esprimersi anche sui social diventa complicato, perché in provincia poi ci si incontra, ci si conosce. E allora non guardi e non saluti più allo stesso modo chi ha scritto quello o detto questo. Non guardi più allo stesso modo chi, anche solo per sbruffonaggine e analfabetismo, ha solidarizzato con Traini. Da un lato si ha l’eccitazione, la necessità di esprimere la propria opinione, dall’altra si vorrebbe attenuare ogni input, tornare nell’oblio e frenare questa voragine che ci si sta aprendo sotto i piedi.
Stiamo pagando un prezzo elevatissimo. Gli ultimi trent’anni di scellerata politica italiana siano arrivati al pettine proprio qui, ora, nella placida provincia.Traini senza saperlo ha alzato il sipario su una spaccatura profonda, che non si potrà rinsaldare con una scheda elettorale. Ci si domanda perché nella sua prima foto in caserma gli è stato appoggiato sulle spalle il Tricolore? Perché ha potuto girare quasi due ore percorrendo la mappa dei luoghi che riteneva ostili, fino a che non ha deciso di costituirsi con un gesto tronfio di significati? Perché possedeva una Glock? Potrebbero sembrare inezie se non fosse che in questo momento ogni particolare è essenziale per orientarsi, per rispondere alle domande di domani o semplicemente a quelle del tuo collega che ritiene comprensibile che qualcuno si possa incazzare. E in questo mondo al contrario, la Lega guadagna punti di consenso invece di soffrirne e, attualmente ci si può scommettere, Traini candidato prenderebbe migliaia di voti.
Poi escono fuori belle storie, come quella accaduta nella scuola dove presto servizio. Sabato gli studenti di una quinta classe al ritorno da teatro, quando già era scattato l’allarme rosso, nel tratto dalla fermata dell’autobus all’ingresso della scuola, volontariamente si sono messi in gruppo intorno alla loro compagna afroitaliana facendole scudo, nascondendola, dopo averla coperta con sciarpa e cappello. In quel momento è passato Traini con il braccio teso fuori dal finestrino. Sono gesti che scaldano, che ti autorizzano a pensare che non tutto sia perduto.
Pare anche che quella mattina Traini abbia puntato la sua pistola contro un ragazzo nero che usciva dal supermercato. Però si conoscevano e ha abbassato l’arma, salutandolo. Ma nemmeno è possibile capire se quest’ultimo racconto sia reale perché ormai la narrazione del vero è andata a farsi benedire. Mille storie che si rincorrono e si trasformano e cambiano direzione con un soffio di vento. Senza esagerare, a volte si ha la sensazione di essere a Sarajevo negli anni in cui, da un giorno all’altro, i tuoi vicini, i tuoi amici, i padri dei compagni di gioco di tuo figlio, se ne vanno e dalle colline ti sparano addosso.

il manifesto 8.2.18
«Obbligati e amareggiati, non taceremo». Appuntamento a Roma il 24 febbraio
Il dietrofront. «Ha pesato la freddezza delle istituzioni», il silenzio della Regione e il trionfo della linea bassa renziana. La presidente dell'Anpi Carla Nespolo: «I toni li teniamo alti e ci rivolgiamo a Minniti. Deve rompere il silenzio e impedire tutte le iniziative dei neofasciti, sciogliere le loro organizzazioni»
La rete degli studenti medi di Macerata con l’Anpi, sotto la presidente Carla Nespolo
di Andrea Fabozzi


Fino a ieri mattina la manifestazione nazionale antifascista con Anpi, Arci, Cgil e Libera era confermata. Stabilito anche il percorso. Poche ore dopo le quattro grandi organizzazioni avevano deciso di fare retromarcia; in piazza sabato a Macerata ci saranno comunque i promotori con partiti e associazioni che hanno confermato la loro presenza. Venerdì i partigiani e le altre sigle lanceranno una nuova data e un nuovo appuntamento, dovrebbe essere a Roma il 24 febbraio. L’ultimo fine settimana prima del voto.
IERI MATTINA, incontrando gli organizzatori, il sindaco di Macerata Romano Carancini aveva manifestato una certa agitazione sul corteo. Per la prima volta. Scaricando la responsabilità sulla questura: «Se loro vi danno l’autorizzazione». Subito dopo in questura – l’autorizzazione ai cortei può essere solo negata e non deve essere «concessa» – non c’erano stati problemi. Si era concordato anche un itinerario e un orario di partenza. Poi il post del sindaco e l’immediata freddezza, a Macerata, del sindacato e dell’Arci. La decisione finale però è arrivata da Roma: fermare tutto.
«Siamo stati costretti a prendere una decisione che ci amareggia», ammette Carla Nespolo, la presidente nazionale dell’Associazione partigiani. «Rispettiamo le istituzioni», scrive su twitter Susanna Camusso, aggiungendo che la Cgil sabato sarà in diverse piazze d’Italia per una giornata di civile mobilitazione». Non a Macerata però. «Contesto al sindaco la sua richiesta tardiva, avevamo già organizzato i pullman», aggiunge Nespolo. «Fosse stata una richiesta di tipo poliziesco, motivata solo da preoccupazioni di ordine pubblico, io non l’avrei ritenuta accettabile. Ma quando il primo cittadino di una comunità ti chiede di non procurare disagio siamo praticamente obbligati ad ascoltarlo. E doppiamente motivati a fare una grande manifestazione nazionale antifascista».
Che però arriverà, nel caso, a settimane di distanza dall’attentato terrorista e razzista. In linea dunque con l’intenzione di Renzi, ribadita anche ieri, di «abbassare la febbre». Il sindaco di Macerata era sul palco a Roma con Renzi lunedì pomeriggio quando il segretario Pd ha ripetuto l’appello alla calma. Un silenzio non isolato, muti sono anche i 5 Stelle, nel fragore della rivendicazioni della destra forzaleghista. Persino il presidente della Repubblica non ha dedicato a Macerata un pensiero compiuto. Ma solo un passaggio allusivo durante una cerimonia, lunedì: «L’egoismo porta inevitabilmente alla diffidenza, all’ostilità, all’intolleranza e qualche volta alla violenza». Il coordinatore regionale dell’Anpi Marche Lorenzo Marconi dichiara: «Ha certamente pesato il fatto che le istituzioni, non solo il comune di Macerata ma anche la Regione, non abbiano aderito alla manifestazione». Il presidente della regione Ceriscioli, anche lui Pd, per la verità è riuscito a non dire una sola parola di condanna sull’episodio di Macerata. Ci sono voluti quattro giorni perché arrivassero i primi segnali di dissenso dal Pd. Il ministro Orlando ieri è stato a trovare i feriti. Il ministro Delrio ha detto in un’intervista a Repubblica che «la politica non può tacere davanti al nuovo fascismo». Ha definito poi «sacrosanta» la manifestazione dell’Anpi, annunciando l’intenzione di partecipare. Poco dopo il «suo» sindaco ha ottenuto il dietrofront.
ANPI, CGIL, ARCI E LIBERA, nel comunicare la loro rinuncia hanno chiesto al primo cittadino un impegno preciso: «Pretendiamo che Macerata non diventi un luogo di attiva presenza neofascista». Il sindaco ha risposto con un semplice auspicio: «Ho ancora speranza che tutte le altre annunciate manifestazioni in città possano essere spontaneamente annullate». Le manifestazioni neofasciste sono per il momento confermate, un’altra oggi. «A questo punto chiedo che sia il ministro dell’interno a rompere il silenzio», dice Carla Nespolo. «Dia seguito a questo impegno, tutte queste iniziative di CasaPound e di altri neofascisti non devono essere consentite». Ma non è proprio con la marcia indietro che si legittima l’invito ad abbassare i toni? «Noi non abbassiamo proprio niente. Tant’è vero che avevamo chiesto al Viminale che le liste neofasciste non fossero ammesse alle elezioni e insistiamo che certe organizzazioni vengano sciolte». Invece ci saranno. Nelle urne e, loro sì, anche in piazza.

Il Fatto 8.2.18
Macerata e i nostri famosi “valori”
di Daniela Ranieri


La cronaca nera ha regalato alla campagna elettorale un giocattolo pericoloso e conturbante. La duplice vicenda di Macerata, a un mese dal voto più rischiosamente anti-democratico della Storia repubblicana, assume l’aspetto di un mostro a due teste di potente carica allegorica. Una ragazza appena maggiorenne viene fatta a pezzi a Macerata presumibilmente da un nigeriano, che confessa di averla condotta da uno spacciatore per la sua ultima dose di eroina e poi in casa sua; un giovane marchigiano decide di “vendicarla” scaricando la sua pistola addosso a sei persone di pelle nera a caso.
Il linguaggio non è mai innocente. Per chi detiene o vuole assumere il potere sapendo di non poter contare sulla forza persuasiva dei dati razionali, l’evento è ghiotto. Mentre il cadavere della ragazza giace a pezzi sul tavolo autoptico, Salvini accusa la sinistra accogliente di avere “le mani sporche di sangue”, dimenticando che la cosiddetta sinistra si è guardata bene dal toccare la vigente Bossi-Fini, inasprita semmai con le misure anti-sbarchi, ma pro-galere libiche, di Minniti. In conseguenza del raid razzista, il nigeriano diventa il capro espiatorio della “bomba sociale dell’immigrazione”, come dice B., che sorpassa Salvini vaneggiando di deportazioni di massa, e di Renzi, che abbraccia l’assurda contro-deduzione imputandone però la responsabilità a B. (“Se in Italia arrivano i migranti è per colpa della guerra in Libia e il premier allora era lui”). Le sei vittime sono innocenti del reato ascrittogli da Traini, ma colpevoli di risiedere sul nostro sacro suolo, e per ciò stesso sono potenziali criminali.
Traini, al contrario, non è il rappresentante del razzismo neo-fascista reso familiare e glamour da stampa e Tv, ma “un delinquente” (Salvini), “uno squilibrato” (B.), “una persona squallida e folle” (Renzi). Il suo non è un atto politicamente connotato, ma il gesto isolato di una particella deviante della nostra sana democrazia. (Solo Pietro Grasso ha parlato di fascismo). Per Renzi, persino, è un “pistolero” che cercava di “portare giustizia” ma ha ecceduto, purtroppo. Si giustifica il raid nazifascista inquadrandolo dentro un pattern di vendetta etnica. La Lega, partito in cui milita Traini, acquista consensi perché parte dell’elettorato reputa più grave un presunto omicidio commesso da un nero in un contesto di cronaca nera che sei omicidi tentati da un bianco su base razziale.
La Verità, quotidiano di posizioni casapound-leghiste, si accanisce sul corpo della vittima: “Testa, seno e bacino fatti a pezzi”. E in un corsivo delizioso avanza i risultati di sue particolari indagini che inchiodano il nigeriano: “Per far sparire un cadavere e rendere difficile il suo ritrovamento, ci sono tecniche di comprovata affidabilità”, forse comprovata in redazione; ad esempio “scavare una buca e sotterrarlo, scioglierlo nell’acido, buttarlo in mare o in un fiume con un peso”, insomma come si faceva noi italiani alla vecchia maniera. Dalla scelta di non adottare nessuna delle tecniche che ci hanno resi famosi nel mondo, il giornale avanza “l’ipotesi di un macabro rituale”, di “magia nera, e in particolare lo juju, una forma religiosa tradizionale predominante nelle zone sud-occidentali della Nigeria”. Ma anche ai Parioli, dove mesi fa una donna è stata fatta a pezzi e gettata in un cassonetto dal fratello, a Teramo (Adele Mazza smembrata da Romano Bisceglia nel 2010), a Pisa (Oksana Auskelyte, 27 anni, uccisa da Andrea Falaschi e messa dentro una valigia nel 2008), solo alcuni toponimi della nostra tradizione di autarchici femminicidi.
Il Corriere (della Sera, non del Vino) informa che c’è un altro attore in questa storia. “E adesso chissà che peso grande ha sul cuore, questo 45enne con la tuta rossa da meccanico e i sandali da francescano”. È l’uomo che ha fatto salire Pamela sulla sua auto mentre fuggiva dalla comunità di recupero e ne ha abusato sessualmente in cambio di 50 euro. Ora è ritratto nel suo giardino “dove la mimosa è già in fiore”: “Penso sempre a lei”. Il set truculento della morte per mano dell’uomo nero si arricchisce di un brividino placido, rassicurante e provinciale. La dramatis personae, la lista dei ruoli in tragedia, offre una cronaca auto-assolutoria: i nigeriani assassini feroci, persino “cannibali” per La Verità, che insidiano “le nostre donne e i nostri valori” come da retorica centro-destrorsa; il paesano semplice, che paga “la bellezza” su un materasso in un garage, finito dentro un gioco tribale di uteri asportati e addomi recisi. “Adesso gli vengono mille pensieri, mille rimorsi e anche un po’ di vergogna”, povera stella. “Ora non resta che il dolore e nessun piacere”, dice il Corriere, quel piacere di abusare di una persona in grave difficoltà invece di offrirle aiuto. È nel destino di martire di questa giovane donna che emergono, come su una cartina di tornasole, le rimozioni della nostra cultura.

Il Fatto 8.2.18
L’uomo bianco che poteva salvare Pamela l’ha sfruttata
Il vero mostro - Un cittadino come tanti, non un immigrato, trova la ragazzina in cerca di droga: invece di aiutarla la paga per fare sesso
di Selvaggia Lucarelli


C’è una figura, nella brutta storia della morte di Pamela morta a 18 anni per ragioni poco chiare e “vendicata” dal fascistoide Luca Traini a colpi di pistola contro i “negri cattivi”, su cui tutti si sono soffermati poco. La figura di un uomo bianco di mezza età, un meccanico, un maceratese come tanti, nessun tatuaggio nazista sulla fronte, nessun precedente inquietante. Uno con un’utilitaria bianca e abitudini banali. Uno a cui nessuno ha sparato, che nessuno ha insultato su Facebook, perché sono i negri quelli cattivi.
Sui giornali, ieri, veniva descritto come un uomo con un peso sul cuore, uno che non si dà pace. Perché lui, il bianco buono, la sera in cui Pamela è scappata dalla comunità per tornare a bucarsi dopo tre mesi, è l’ultimo bianco buono ad averla vista viva. E anche l’ultimo che avrebbe potuto darle una mano, solo che l’ha scaricata alla stazione e dopo un po’ Pamela era a pezzi in una valigia. Non si dà pace, il pover’uomo. “È tutto così atroce”, dice. Il procuratore capo di Macerata aveva pure provato a coprirlo, a raccontare una storia diversa, perché non sia mai che l’uomo bianco non ne esca come la parte buona della vicenda.
Forse però è il caso di riavvolgere il nastro. Di pensare un attimo al cuore buono di questo concittadino che il 29 gennaio era sulla strada per Corridonia per andare a trovare la sorella. Mentre è in auto intravede sul ciglio della strada la sagoma di Pamela. La ragazzina cammina da sola trascinandosi il trolley con le sue poche cose portate via di fretta dalla comunità. Lui accosta e la carica sulla sua utilitaria. Se un uomo buono bianco vede una ragazzina per strada in difficoltà, le dà una mano. La ragazzina ha 18 anni. È bella e anche fragile, scopre lui. È in fuga da chi voleva salvarla dalla droga e ha un desiderio disperato di tornare a bucarsi. Per fortuna non ha i soldi per farlo. Per fortuna è sulla macchina dell’uomo bianco che può riconsegnarla alla madre o alla comunità o farle una lavata di testa o dirle che la droga fa male, quelle cose che un uomo di mezza età prova a dire a una ragazzina che si sta autodistruggendo. E invece qui la storia fa una bella virata e diventa altro.
Quello che i giornali non dicono a caratteri cubitali e non lo dicono nel momento storico in cui un tentativo di bacio diventa abuso fisico e psicologico oltre che una buona ragione per gogne pubbliche e licenziamenti.
Diventa una storia in cui l’uomo buono bianco decide che se la ragazzina fragile vuole i 50 euro per una dose da spararsi in vena, deve fare una cosa semplice: farsi scopare. Inutile edulcorare. Lo ripeto perché voglio che entri bene in testa a chi legge: farsi scopare. Tanto è debole, è disperata, è abbrutita dalla voglia di drogarsi. La ragazzina accetta. Se a 18 anni non hai paura di un ago che si conficca nelle vene, figuriamoci di un estraneo che ti entra dentro. Così lui la porta in un garage dove c’è un materasso squallido su cui poterla usare per quella mezz’ora di sesso al misero prezzo di una dose. Un affare, tutto sommato, per una diciottenne così bella.
Finito tutto, la ricarica in macchina, il gentiluomo bianco, e la porta dove lei voleva. In stazione, dai pusher di fiducia. Quelli negri, quelli cattivi. Mica come lui che non vende droga, ma al massimo, in cambio di sesso, ti dà i soldi per comprartela. La fine di Pamela (sebbene le cause della morte non siano ancora accertate) e quello che la sua fine si è portata dietro, tra sparatorie folli e dibattiti deliranti, è noto. “Credete forse che non pensi a Pamela? Non bestemmiate, per favore”, dice ora l’uomo bianco inseguito dai cronisti. Già. Come se il problema, qui, fosse solo il tragico epilogo.
Fai bene a non trovare pace, uomo bianco. Perché non hai avuto pietà e umanità. Perché ti sei approfittato della miseria, dell’abisso, della giovinezza. E mentre nell’epoca dei processi sommari agli uomini sul patibolo ci finiscono i nomi noti che piacciono ai giornali, quelli che “è abuso psicologico perché lui è il regista e lei l’aspirante attrice”, tu rischi pure di sfangarla. Invece no, non devi passarla liscia. Potevi fare molte cose quel pomeriggio e hai fatto la più schifosa. Hai abusato di una ragazzina drogata marcia, l’hai consegnata a chi le vendeva morte e ora piagnucoli perché tu ci pensi a lei, poverina, come facciamo a insinuare il contrario? Sì, io insinuo il contrario. Potevi pensarci quel pomeriggio, a Pamela. Potevi darle un passaggio e illuderla, per una manciata di minuti, che la vita, anche quando l’effetto dell’eroina svanisce, fosse il sorriso gentile di uno sconosciuto. Sarebbe morta lo stesso, forse, ma senza l’odore della miseria umana, del maschio rapace appiccicato addosso.

Repubblica 8.2.18
Istruzione
“Qui niente poveri né disabili” Le pubblicità classiste dei licei
E nelle presentazioni sul sito del Miur c’è chi parla di “difficile convivenza” tra ricchi e figli dei portinai
di Corrado Zunino


Roma La prosa con cui alcune scuole del Paese, spesso i licei più prestigiosi e selettivi, si sono offerte alle famiglie per attrarre l’iscrizione dei loro figli è da censura. Nell’ansia di far apparire un istituto privo di problemi, pronto a fornire la migliore didattica senza impacci con gli adolescenti stranieri o i ragazzi bisognosi di sostegno, i dirigenti scolastici hanno licenziato rapporti di autovalutazione classisti. È tutto visibile sul sito del ministero dell’Istruzione, “Scuola in chiaro”. Oltre ai numeri degli studenti presenti e alle informazioni sui percorsi di studio, ogni scuola ha offerto una valutazione di sé. Basata su parametri offerti dal ministero, ma restituita con una propria anima.
L’Ennio Quirino Visconti così si è raccontato: « L’essere il liceo classico più antico di Roma conferisce alla scuola fama e prestigio consolidati, molti personaggi illustri sono stati alunni » . L’illustrazione orgogliosa si addentra nei primi dettagli di censo: « Le famiglie che scelgono il liceo sono di estrazione medio- alto borghese, per lo più residenti in centro, ma anche provenienti da quartieri diversi, richiamati dalla fama del liceo». Fin qui, un dato di fatto. « Tutti, tranne un paio, gli studenti sono di nazionalità italiana e nessuno è diversamente abile » . La percentuale di alunni svantaggiati «per condizione familiare è pressoché inesistente » , mentre «si riscontra un leggero incremento dei casi di Dsa». Sono i Disturbi specifici di apprendimento. Il finale è una conclusione che spiazza: «Tutto ciò», e si intende la quasi assenza di stranieri e la totale assenza di poveri, « favorisce il processo di apprendimento » . Il buon apprendimento dei figli della buona borghesia di Roma Centro.
Al Visconti, « dove la maggior parte delle risorse economiche proviene dai privati, in primis le famiglie » , dove la presidente della Camera Laura Boldrini ha tenuto lezioni sulle fake news, la “ quota studenti con cittadinanza non italiana” è pari allo 0,75 per cento del totale. Lo dicono le tabelle. Solo che lo 0,75 per cento di 669 studenti non fa «un paio», ma cinque. E la quota di iscritti con «famiglie svantaggiate » è dello 0,8 per cento, un po’ più di «pressoché inesistente». Ecco, se si esce dalla pagina vetrina, quella che serve a far propaganda e richiamare iscrizioni, si scopre che i numeri del Visconti su stranieri e poveri sono più alti.
Anche l’intro dell’autovalutazione del liceo D’Oria di Genova, prestigioso e tradizionale classico, offre una presentazione di sé che accarezza l’idea per cui “ poveri e disagiati costituiscono un problema didattico”. Ecco cosa c’è scritto nel Rav: « Il contesto socio- economico e culturale complessivamente di medio- alto livello e l’assenza di gruppi di studenti con caratteristiche particolari dal punto di vista della provenienza culturale ( come, ad esempio, nomadi o studenti di zone particolarmente svantaggiate) costituiscono un background favorevole alla collaborazione e al dialogo tra scuola e famiglia, nonché all’analisi delle specifiche esigenze formative nell’ottica di una didattica davvero personalizzata » . Senza altre questioni da affrontare, sembra di capire, ci possiamo dedicare ai limitati e ricchi studenti indigeni. Infatti: «Il contributo economico delle famiglie sostiene adeguatamente l’ampliamento dell’offerta formativa».
Il Parini di Milano, altro classico storico, anche questo statale, illustra nella presentazione: « Gli studenti del liceo classico in genere hanno, per tradizione, una provenienza sociale più elevata rispetto alla media. Questo è particolarmente avvertito nella nostra scuola. A partire da tale situazione favorevole, la scuola ha il compito ( obbligo) di contribuire a elevare il livello culturale dei suoi allievi » . La dirigente scolastica del Parini, non a caso, ammette «qualche criticità nelle attività di inclusione».
È un classico parificato, però, ad utilizzare il linguaggio più esplicito sul tema. Il Giuliana Falconieri, Roma Parioli. Così la sua autovalutazione: « Gli studenti del nostro istituto appartengono prevalentemente alla medio-alta borghesia romana. La spiccata omogeneità socio- economica e territoriale dell’utenza facilita l’interazione sociale ». Ci si parla solo tra pari grado, e poi: «Non sono presenti né studenti nomadi né provenienti da zone particolarmente svantaggiate » . In questa scuola, tuttavia, c’è una questione particolare: « Negli anni sono stati iscritti figli di portieri e/o custodi di edifici del quartiere. Data la prevalenza quasi esclusiva di studenti provenienti da famiglie benestanti, la presenza seppur minima di alunni provenienti da famiglie di portieri o di custodi comporta difficoltà di convivenza dati gli stili di vita molto diversi».
Clara Rech, preside del Visconti di Roma, autrice di una delle autovalutazioni da censura, dice: «Il numero di battute a disposizione era limitato e pago un eccesso di sintesi. Rettificherò quel passaggio. Sono stata onesta nel rappresentare un dato oggettivo: al Visconti ci sono pochi studenti stranieri e non abbiamo disabili. Volevo dire che la didattica ordinaria, così, è più semplice: recuperare l’italiano di uno straniero chiede risorse e tempo. Credo che tutti gli studenti, ricchi e poveri, debbano crescere insieme e credo nella multiculturalità ».

Repubblica 8.2.18
Ma il solo modo per imparare è confrontarsi con la diversità
di Michela Marzano


Niente neri, niente handicappati, niente nomadi, la lista potrebbe essere lunga, lunghissima, e via via includere tra gli “scarti” chiunque, con la propria alterità, possa rimettere in discussione l’identità italiana. È più o meno così che alcuni licei del nostro Paese vantano i propri pregi e si fanno pubblicità. Quasi tutti gli studenti sono di «nazionalità italiana» e nessuno è «diversamente abile», recita la presentazione di un celebre liceo romano. Subito dopo aver ricordato la propria «fama» e il proprio «prestigio». Come se ci fosse un legame di causa-effetto tra il colore della pelle e la fama, il prestigio e l’assenza di handicap — che poi sarebbe interessante capire come viene valutato il livello di abilità: li si mette tutti in fila, questi alunni, e li si fa correre, leggere, parlare, mangiare? È più o meno abile una ragazzina anoressica o bulimica? Spesso sono le più brave della classe, ma stando al Dsm, il manuale diagnostico dei disturbi mentali, anche loro, in fondo, dovrebbero essere considerate diversamente abili, e non ammesse, quindi, in un liceo così prestigioso. Come se l’apprendimento fosse ostacolato dalle “differenze”, e la parola d’ordine della contemporaneità fosse l’esclusione di tutti coloro che potrebbero contaminare la purezza della stirpe.
Dev’essere lo spirito dei tempi, ormai malato di conformismo, ad aver ispirato presidi, insegnanti, direttori o chiunque abbia ideato questi spot per attirare genitori creduloni, e illuderli che il «processo di apprendimento» possa veramente essere favorito dal “tra di noi”. Anche se poi, in quel “tra di noi”, rischia di non esserci quasi nessuno, e chi immagina che il proprio pargolo sia esente da ogni sorta di handicap di strada da fare per capire l’esistenza ne ha ancora molta. Non solo, infatti, ognuno di noi è “diversamente abile” rispetto a chiunque altro: diverso, unico, speciale, sempre e comunque “altro” rispetto alle aspettative altrui, “altro” pure rispetto a quello che vorrebbe essere. Ma anche l’apprendimento è favorito dall’incontro con le differenze: per imparare veramente c’è bisogno di uscire dal “tra di noi” e aprirsi alle mille sfumature della vita; anche solo perché sono le differenze che ci insegnano a comporre il puzzle complesso della realtà, a superare gli ostacoli, a immaginare soluzioni alternative quando quelle più scontate falliscono.
Certo, molti genitori cercano oggi di rassicurarsi: preferiscono immaginare che i propri figli crescano al riparo dalle difficoltà e non si mescolino con gli “altri”. Ma apprendere significa confrontarsi con le cose vere della vita, e le cose vere della vita, come scriveva Oscar Wilde, si incontrano. A cominciare dalla scuola, appunto, quando si incontra un ragazzo nero o una ragazza in sedia a rotelle, un compagno sordo-cieco o una compagna con disturbi del comportamento alimentare, tanto nessuno ha tutto e nessuno è tutto. La scuola dell’inclusione forse non è più di moda. Peccato.
Inutile, però, stupirsi poi del successo popolare del killer di Macerata.

La Stampa 8.2.18
“Militari uccisi dall’uranio impoverito”
Il Parlamento contro le forze armate
di Nicola Pinna


È il lancio delle ultime bombe: la commissione parlamentare d’inchiesta sull'uranio impoverito conclude il suo lavoro e spara ad alzo zero sulle basi militari della Sardegna. Dove, secondo l’accusa contenuta nella relazione finale della commissione, «sono avvenuti fatti sconvolgenti e si sono seminati molti morti». Parole forti, contenute in quella specie di sentenza che conclude il lavoro durato alcuni anni, fatto di audizioni e sopralluoghi all’interno dei poligoni. Le accuse più forti sono tre: l’uso di armi all’uranio impoverito, la diffusione di amianto all’interno degli spazi militari e la grande presenza di discariche non controllate.
La relazione finale, passata con 10 voti a favore e 2 contro (quelli di Elio Vito e di Mauro Pili), è stata presentata ieri alla Camera dal presidente della Commissione, il deputato del Pd Gian Piero Scanu, che ha annunciato la trasmissione degli atti alla procura di Roma perché valute eventuali ipotesi di reato. Una decisione indispensabile, secondo Scanu, perché fino ad ora c’è stata «giurisdizione domestica: della sicurezza e salute dei militari sono gli stessi militari ad occuparsi». Dagli accertamenti fatti dalla Commissione, secondo il presidente, viene fuori chiaramente il «nesso di causalità tra l’esposizione all’uranio impoverito e le patologie denunciate dal personale in divisa».
Ma su questo c’è stata subito la reazione dello Stato maggiore della Difesa, che poco dopo la presentazione della relazione finale della Commissione ha divulgato un comunicato dai toni durissimi. «Respingiamo con fermezza queste inaccettabili accuse. Le forze armate, infatti, tutelano la salute del proprio personale adottando tutte le cautele e i controlli sanitari periodici. Questa attenzione è dedicata non solo al personale ma pure all’ambiente in cui esso opera tanto in Italia quanto all’estero». E sull’uranio impoverito i vertici militari sembrano netti: «Non abbiamo mai acquistato o impiegato “munizionamento” di quel genere». Ma a minacciare la salute dei nostri militari, secondo la Commissione, c’è anche l’amianto, presente in navi, aerei ed elicotteri. Tanto che la Commissione ha accertato che «solo nell’ambito della Marina Militare 1.101 persone hanno avuto patologie asbesto-correlate». Numerose criticità sono emerse in tutti i poligoni, ma in particolare in quello sardo di Capo Teulada.

Il Fatto 8.2.18
Caso Madia: gli economisti non copiano
Plagio - La presidente dell’Associazione Italiana del settore: la correttezza è un obbligo
di Annalisa Rosselli

Presidente Società Italiana degli Economisti

Caro Direttore, nell’articolo del 4 febbraio comparso sul Suo giornale “Madia, la perizia sulla tesi: ‘Violati gli standard accademici, molte fonti non sono citate’” viene riportata la frase, che sarebbe desunta dal rapporto commissionato dall’Imt di Lucca alla società Resis di Enrico Bucci, secondo la quale “il settore disciplinare all’interno del quale la tesi si situa tollera comportamenti che altrove sarebbero definiti inaccettabili”. Non entriamo nel merito del caso specifico, ma dal momento che il settore disciplinare a cui si fa riferimento è quello delle scienze economiche, voglio manifestare a nome della Società Italiana degli Economisti che attualmente presiedo la mia profonda indignazione per l’accusa di comportamenti contrari all’etica professionale e scientifica che viene mossa all’intera categoria degli economisti e che ora è diffusa – mi auguro involontariamente – dal suo giornale.
Non conoscendo il contenuto del rapporto a cui fa riferimento l’articolo, non è possibile desumere sulla base di quali fatti il dottor Bucci sia arrivato a questa sorprendente conclusione, visto che l’unico elemento portato a suo sostegno è il riferimento a un manifesto a carattere politico (non un articolo scientifico) che riporta brani di alcuni dei firmatari, cosa ben diversa da un plagio. Posso però rassicurare i suoi lettori che gli standard seguiti dagli economisti, italiani o stranieri, nella pubblicazione dei risultati delle loro ricerche non sono di certo inferiori a quelli di nessun’altra disciplina scientifica. Potrei argomentare in dettaglio, ma mi limito a riportare l’esplicita condizione per gli autori che vorrebbero pubblicare un loro articolo scientifico nella rivista ufficiale della nostra associazione, l’Italian Economic Journal e che riprendono linee guida internazionalmente adottate. Le traduco qua (l’originale è disponibile a http://www.springer.com/economics/journal/40797?detailsPage=pltci_2503578) : “Dati, testi o teorie prodotti da altri non devono essere presentati come se fossero propri (“plagio”). Adeguato riconoscimento deve essere dato ad altri lavori (compreso materiale che è riprodotto quasi alla lettera, riassunto e/o parafrasato), le virgolette devono essere utilizzate quando il materiale è riprodotto parola per parola e deve essere ottenuta l’autorizzazione per materiale coperto da copyright”.
Affermazioni simili sono presenti nel codice etico a cui devono aderire gli studenti di molti Atenei che presentano tesi magistrali o di dottorato in economia o in qualunque altra materia. Dato il ruolo che gli economisti rivestono nella nostra società, sono certa che vorrà rassicurare i suoi lettori sui loro standard scientifici e la correttezza dei loro comportamenti pubblicando questa lettera.

Corriere 8.2.18
«In un’Italia arrabbiata i cattolici rischiano di diventare irrilevanti»
Il cardinal Ruini: un bene il no al referendum costituzionale
di Massimo Franco


Ammette che l’Italia è meno cattolica di un tempo. Vede nel calo demografico il problema più grave, «perché distrugge le speranze». Archivia come «una triste deviazione» la legge sul fine vita e le unioni civili. Si dice «contento che la Costituzione non abbia subito le modifiche al referendum istituzionale». E in politica vede una «fase nuova in cui i cattolici rischiano l’irrilevanza». Il cardinale Camillo Ruini, presidente della Cei dal 1991 al 2007, analizza la sua Italia, sotto le foto di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI.
Quanto resta di cattolico nell’Italia del 2018, eminenza?
«Difficile fare valutazioni: solo Dio conosce i cuori. Umanamente parlando, di cattolico sembra ci sia meno che una decina di anni fa: in convinzione e in pratica della fede. Ma ci sono anche molti cristiani autentici, che chiamerei santi. Quindi, non è il caso di disperare».
Pochi figli, disoccupazione giovanile sul 40 per cento, e valori morali non proprio di moda. La Chiesa non ha una parte di responsabilità?
«Il calo demografico riguarda l’Italia da tempo. Lo ritengo il problema più grave, perché distrugge la speranza di futuro. Ma non mi sento di attribuire responsabilità alla Chiesa. Siamo stati i primi a lanciare l’allarme, inascoltati. Adesso se ne accorgono in tanti, sebbene non veda ancora decisioni adeguate. Forse, sulla disoccupazione la Chiesa dovrebbe avere idee più chiare e coraggiose. E dire che la certezza del lavoro è essenziale ma che è finita l’epoca del posto fisso».
E i valori morali? Non arrivano sempre buoni esempi anche da uomini di Chiesa.
«I valori morali appartengono alla sostanza della nostra fede. Ogni volta che un uomo di Chiesa dà scandalo, si rende responsabile di una inaccettabile contro-testimonianza. La Chiesa però, nel suo complesso, si impegna, e molto, per affermarli. Ma la sua opera è spesso soverchiata da forze che spingono in senso contrario».
Il sì alle unioni civili e al fine vita ha archiviato l’idea di un’Italia «eccezione» in un’Europa secolarizzata. È opinione generale che sia un passo avanti. Per lei no?
«Come posso ritenerlo un passo avanti? È una triste deviazione. La sacralità della vita e il matrimonio sono alle fondamenta della nostra civiltà: non per nulla sono stati a lungo un patrimonio condiviso. Ha poco senso lamentarsi del decadimento morale dell’Italia e poi approvare leggi del genere».
Sul fine vita, i sostenitori citano le parole del Papa contro l’accanimento terapeutico. Non hanno qualche ragione?
«Direi proprio di no. Il Papa ha ripetutamente escluso l’eutanasia. E invece la legge le apre le porte, pur senza nominarla».
Quale Chiesa sta prevalendo? Quella che resiste alla modernità o quella che la asseconda?
«Fatico a riconoscermi in questa alternativa anche se la comprendo. Secondo me non basta né resistere alla modernità, né assecondarla. Il primo atteggiamento porta il cristianesimo fuori dalla storia, il secondo lo svuota della sua sostanza. Non è facile, ma occorre stare dentro alla modernità per orientarla in senso cristiano, senza subirla passivamente. È la lezione del Concilio Vaticano II».
Le leggi che critica sono passate con un governo che aveva esponenti cattolici in prima fila. Non deve farvi riflettere?
«Sicuramente. E la principale conclusione da ricavare è che la fede stenta a tradursi in cultura, in capacità di valutazione e di giudizio. Questo è probabilmente uno dei limiti maggiori della formazione che diamo nelle parrocchie e nelle associazioni».
Anche lei come il Papa vede un’Europa nonna sterile?
«Almeno per un aspetto è difficile contestare questa affermazione: quasi tutta l’Europa è in crisi demografica, abitata da persone anziane. E noi anziani raramente siamo intraprendenti e creativi. L’unità europea è un bene essenziale, particolarmente per l’Italia. Ma deve concentrarsi sui grandi temi dell’economia, della politica estera, della difesa, non pretendere di livellare stili di vita diversi, altrimenti l’Europa diventa invisa ai popoli».
Il modo in cui la Chiesa tratta l’immigrazione è compreso e condiviso, secondo lei? Non teme che per paradosso possa alimentare la xenofobia?
«Mi rendo conto che il comportamento della Chiesa incontra critiche e opposizioni. Purtroppo si interpretano come pericoloso buonismo le esigenze della carità cristiana. Così diventa possibile perfino il paradosso che la Chiesa alimenti la xenofobia, alla quale invece la Chiesa è forse il maggior freno. Questo non esclude che uomini di Chiesa sottovalutino i gravami che un’immigrazione troppo massiccia e poco regolata impone alle fasce più umili della popolazione».
Che cosa la colpisce in questa campagna elettorale?
«L’Italia sta emergendo da un periodo difficile, con poche certezze. Perciò molti italiani sono, comprensibilmente, arrabbiati. I partiti colgono questo stato d’animo e cercano di volgerlo a proprio vantaggio. Vedo polemiche più che proposte, ma dopo le elezioni le acque dovrebbero calmarsi. Il vero pericolo è che gli eccessi polemici alimentino l’astensionismo: confidiamo nella maturità degli italiani».
Finito il collateralismo con la Dc e poi, negli Anni Novanta, col centrodestra, quale può essere il rapporto tra la politica e il mondo cattolico?
«Ho vissuto le due fasi che lei chiama collateralismo. Con la Dc parlerei di sostegno critico, un sostegno che nel primo dopoguerra è stato decisivo per il bene dell’Italia. Col centrodestra il rapporto è stato diverso: finita l’unità politica dei cattolici, la Chiesa non ha più indicato partiti da sostenere, ma ha sottolineato contenuti e valori. Con essi i diversi schieramenti hanno rivendicato la propria consonanza, della quale però restavano giudici gli elettori. In questo, il centrodestra ha avuto probabilmente più successo del centrosinistra».
E oggi?
«C’è una fase nuova, nella quale i cattolici rischiano di essere sempre meno rilevanti, nonostante il loro grande contributo alla vita sociale. Per evitare questo esito, è indispensabile potenziare le capacità di tradurre la fede in cultura e in azione politica».
È contento che la Costituzione sia uscita indenne dal referendum del 4 dicembre 2016?
«Farei meglio a non rispondere: la domanda ha un taglio troppo politico. Ma voglio essere sincero, sperando di non essere equivocato. Sono contento che la Costituzione non abbia subito le modifiche sottoposte a referendum, anche per il contesto nel quale venivano a collocarsi. Ciò non significa che la Costituzione non necessiti di aggiornamenti».
Come si spiega la vittoria dei «no»?
«Forse il fattore più rilevante è stato il rifiuto della prospettiva di un uomo solo al comando».

Repubblica 8.2.18
Le proteste a Tel Aviv
Israele prepara la grande espulsione
Il piano del governo per i profughi illegali: detenzione oppure 800 euro e un biglietto per Ruanda o Uganda
di Vincenzo Nigro


Dal primo febbraio il governo israeliano ha iniziato a consegnare dei fogli di espulsione ai primi fra i quarantamila migranti illegali che vorrebbe far partire dal Paese. Sono quasi tutti migranti eritrei e sudanesi, che riceverebbero 3.500 shekel (poco più 800 euro) per spostarsi in Ruanda o Uganda.
Ieri migliaia di migranti hanno manifestato a Tel Aviv contro le espulsioni: “Preferiamo rimanere in Israele, anche in prigione”. Secondo un sondaggio il 66 per cento degli israeliani è favorevole alle espulsioni ordinate dal governo.
« Non me ne andrò mai via da Israele, non darò mai il mio accordo a farmi trasferire in Africa: preferisco vivere in carcere qui, tutta la vita » . Abda Ishmael è un eritreo di 28 anni: nel 2011 era riuscito a sfuggire al tiranno del suo paese, è arrivato in Israele. Da qualche giorno il governo di Gerusalemme ha deciso di passare alla “fase 1” di una procedura di espulsione di alcune migliaia di migranti illegali ( potrebbero essere fino a 40 mila): il premier Bibi Netanyahu è riuscito a trovare un accordo con 2 governi africani, Ruanda e Uganda, perché accolgano rifugiati che non hanno nessuna intenzione di tornare nei loro paesi, come gli eritrei che verrebbero incarcerati a vita dal loro regime.
«Ma noi non ce ne andremo, vivremo tutta la vita in prigione qui, ma non partiremo mai per un paese africano che non è il nostro », dicono con Abda i suoi compagni nel centro di transito del Negev. Il campo verrà chiuso il primo aprile: chi deciderà di partire riceverà 3.500 shekel (poco più di 800 euro) e il biglietto di viaggio, gli altri dovrebbero finire in carcere, o comunque in campi di detenzione.
Ieri alcune migliaia di migranti illegalia hanno protestato davanti all’ambasciata del Ruanda, a Tel Aviv. È solo l’ultimo sit- in dopo proteste che da giorni si stanno inseguendo in tutta Israele, e che iniziano ad avere un impatto sull’opinione pubblica del paese.
Un sondaggio dice che il 60% degli israeliani si sente minacciato da questi migranti, preferisce che vengano espulsi dal paese. Ma nell’altro 40 per cento del paese ci sono molti che ricordano una cosa molto semplice e molto vera: «Noi israeliani, noi ebrei siamo un popolo di migranti, questo paese, è vivo grazie all’immigrazione, non possiamo trattare così questi uomini » , dice Reuven Abergil, un vecchio leader della sinistra “ extraparlamentare” degli Anni Settanta.
All’inizio di febbraio sono stati consegnati i primi fogli di via ai migranti senza famiglia: dovrebbero essere i primi a partire, oppure a essere trasferiti in un centro di detenzione che a questo punto però dovrebbe contenerne alcune migliaia.
Il primo ministro Netanyahu parla di loro come “ gli infiltrati”: forse perché buona parte dei migranti sudanesi ed eritrei sono entrati in Israele passando dal deserto egiziano, lungo il confine del Sinai. Adesso nel deserto è stato costruito un muro elettronico, gli arrivi di fatto si sono interrotti e il paese di prepara alla grande espulsione.
Netanyahu nel frattempo si prepara alla fase finale di una battaglia pericolosissima per la sua sopravvivenza politica: da mesi è nel mirino della polizia in 3 inchieste per sospetta corruzione, il “ caso 1000”, “ caso 2000” e “ caso 3000”. Ieri sera c’è stata una riunione di coordinamento finale degli investigatori dell’Unità anti- corruzione con il capo della polizia: si preparano a fare le loro richieste al procuratore generale. Per il leader di Israele la questione- migranti potrebbe passare in secondo piano.

il manifesto 8.2.18
La destra israeliana invoca misure eccezionali contro i «terroristi»
Territori occupati. Dopo l'uccisione di due coloni, media e rappresentanti della politica chiedono di combattere con provvedimenti ancora duri quella che descrivono come una ripresa della "Intifada dei coltelli". E qualcuno propone di buttare in mare i corpi dei "terroristi".
di Michele Giorgio


L’accoltellamento e il ferimento leggero ieri di una guardia di sicurezza dell’insediamento coloniale israeliano di Karmei Tzur, ad alcuni chilometri da Hebron, da parte del palestinese Hamzeh Zamaareh, ucciso subito da un altro vigilante, ha spinto molti in Israele a parlare di ripresa dell'”Intifada dei coltelli”. È così che gli israeliani definiscono gli attacchi all’arma bianca, di cui si resero protagonisti decine di adolescenti e giovani palestinesi (in buona parte uccisi sul posto dopo il loro gesto), che caratterizzarono la fine del 2015 e la prima metà del 2016. I media e diversi rappresentanti della politica fanno a gara nell’invocare pesanti misure di ritorsione, definendole di “deterrenza”, mentre l’esercito è impegnato a cercare Abdel al Hakim Assi il 19enne palestinese, con passaporto israeliano, responsabile dell’uccisione lunedì di un colono, Itamar Ben Gal, che ha pugnalato a morte nell’insediamento di Ariel prima di far perdere le tracce. In reazione a quell’attacco, reparti israeliani martedì sono penetrati nella città di Nablus – in apparenza per cercare Assi – innescando scontri con centinaia di palestinesi poi sfociati nel lancio da parte dei dimostranti di pietre, bottiglie molotov e, sostiene l’Esercito, anche in colpi esplosi dal campo profughi di Balata, e da parte israeliana in un fuoco con proiettili veri che hanno ucciso Khaled al Tayeh, uno studente 22enne, e ferito decine di altri palestinesi (cinque sono gravi). Sempre due giorni fa unità speciale israeliana aveva ucciso a Yamoun (Jenin) Ahmad Jarrar, il palestinese accusato dell’uccisione lo scorso 9 gennaio di un altro colono, Raziel Shevach, sempre nella zona di Nablus. Un’esecuzione di fatto condannata anche da Fatah, il partito del presidente palestinese Abu Mazen.
Di fronte a questa presunta ripresa della “Intifada dei coltelli” che i palestinesi, in ogni caso, spiegano come una logica conseguenza delle tensioni e della rabbia provocate dal riconoscimento unilaterale (condannato dall’Onu) di Gerusalemme come capitale d’Israele fatto da Donald Trump due mesi fa – sono almeno 15 i dimostranti palestinesi uccisi da quel giorno –, la destra israeliana è tornata ad invocare misure eccezionali. Ieri si è svolto un dibattito tempestoso sul ritorno dei corpi di “terroristi” nella commissione per gli affari interni della Knesset. Herzl e Meirav Hajaj, genitori della soldatessa Shir Hajaj, uccisa circa un anno fa assieme ad altri tre militari ad Armon Hanatziv, una colonia nel settore Est occupato di Gerusalemme, hanno chiesto allo Stato di mettere fine al suo «fallimento». «Il corpo dell’animale che ha ucciso nostra figlia è nelle mani dello Stato di Israele», hanno fatto notare «invece di discutere se tenere un corpo o meno, c’è una soluzione: lasciarlo definitivamente in Israele o gettarlo in mare». «Tutto ciò, insieme a un ulteriore progresso verso l’approvazione della legge sulla pena di morte per i terroristi, la distruzione delle case dei terroristi e l’espulsione di terroristi, sarà in grado di prevenire il prossimo omicidio. La non restituzione dei corpi (alle famiglie) deve essere parte delle opzioni di deterrenza».
Immediato l’intervento a sostegno di Matan Peleg, presidente di Im Tirzu, una organizzazione di destra impegnata a prendere di mira Ong e associazioni per la tutela dei diritti umani e personalità della sinistra israeliana. «Lo Stato deve promuovere un significativo pacchetto deterrente contro il terrorismo» ha detto Peleg «è necessario cambiare le regole del gioco e irrigidire ogni risposta, deve esserci un drammatico aumento della deterrenza. Il sangue israeliano non è in vendita». Anche Peleg ha esortato ministri e parlamentari ad accelerare l’iter per la reintroduzione della pena di morte per i «terroristi».

Repubblica 8.2.18
Quattro giorni di raid
Cento morti a Est di Damasco “Siria inferno per i bambini”
Ghuta e Idlib sott’assedio delle truppe di Assad Appelli di Save The Children e Unicef Parigi: “Armi chimiche”
di Pietro Del Re


HAMZA AL- AJWEH/ AFP Da quattro giorni le regioni in mano ai ribelli siriani sono sotto una pioggia di bombe che i caccia del regime sganciano con la stessa ferocia con cui un anno fa distrussero Aleppo. Solo nelle ultime 24 ore, e soltanto nell’aerea della Ghuta, alla periferia est della capitale, il bilancio dei raid aerei governativi è salito a oltre 100 morti. Tra questi, secondo l’Osservatorio nazionale per i diritti umani in Siria, fonte attendibile perché da anni si avvale di una fitta rete di ricercatori e attivisti locali, si registrano 19 bambini e 20 donne. Per fiaccare il morale degli oppositori, il regime di Damasco continua ad accanirsi contro i civili, colpendo scuole, ospedali e mercati, assolutamente indisturbato poiché nessuno è in grado di contrastare il suo dominio dei cieli. L’agenzia governativa Sana ha aggiornato a 5 il numero dei civili uccisi nelle ultime ore a Damasco a seguito di lanci di mortai da parte di gruppi armati della Ghuta, in risposta al massacro compiuto dai caccia di Bashar el Assad. Assieme alla regione di Idlib, nel nord- est, è proprio la Ghuta quella più bersagliata. In quest’area controllata da gruppi armati delle opposizioni e assediata dalle truppe lealiste sostenute dai pasdaran iraniani e dai Sukhoi russi, s’è creata da mesi una grave emergenza umanitaria che non fa che peggiorare. Lo stesso accade a Idlib, dove secondo Save the Children migliaia di bambini sono in pericolo a causa dell’intensificarsi dei bombardamenti e del lancio di missili in aree dove vivono i civili. «Oltre 250mila persone hanno abbandonato le loro case nelle ultime settimane e ogni giorno ve ne sono altre che muoiono o scappano», dice Sonia Khush, direttrice dell’ong in Siria. Secondo l’Unicef, invece, durante il primo mese di quest’anno circa 60 bambini sono stati uccisi nella Ghuta orientale, a Damasco, Idlib e Afrin, e molti altri sono stati feriti: «Gennaio è stato un mese terribile per i bambini in Siria, in particolare, nei giorni scorsi, a causa delle violenze sempre più intense nei villaggi vicino a Idlib. Il 4 febbraio, gli attacchi aerei su di un ospedale supportato dall’Unicef a Ma’arrat al- Nu’man hanno messo fuori servizio il centro sanitario». E a poco è servita, ieri, la visita nell’area di una delegazione militare turca nell’ambito degli sforzi congiunti di Ankara, Mosca e Teheran per creare zone di “de-escalation” nella Siria occidentale. Infatti, se lo scorso 20 gennaio, dopo la conquista da parte delle forze siriane e russe dell’aeroporto militare di Abu Dhuhur, a sud- est di Idlib, la Turchia ha intensificato la presenza di suoi osservatori nell’area, lo stesso giorno, con il tacito consenso di Russia e Iran, lanciava l’offensiva contro la confinante enclave curdo-siriana di Afrin, essendo nel contempo belligerante e paciere.
Quanto all’uso di armi chimiche negli ultimi giorni da parte dei caccia di Damasco, è giunta ieri una pesante accusa da parte del ministro degli Esteri francese, Jean-Yves Le Drian, il quale intervistato dal canale BfmTv ha dichiarato: «Tutto indica che in questo momento le autorità siriane stiano usando cloro in attacchi chimici » . Intanto, a nord di Damasco, nella località di Jamraya, la notte scorsa un raid israeliano ha preso di mira convogli o depositi di armi destinate alle milizie libanesi sciite di Hezbollah, alleate della Siria e dell’Iran. Secondo le forze armate siriane, « la maggior parte dei missili sono stati distrutti prima che potessero raggiungere gli obiettivi » e non sono segnalati danni ingenti o vittime.

il manifesto 8.2.18
Cina, Xi Jinping mette la mafia nel mirino
Cina. Dopo la durissima campagna anti corruzione adesso è il turno delle triadi. Il presidente cinese così promette di «schiacciare le mosche» che ostacolano la lotta contro la povertà

di Alessandra Colarizi

Dalla corruzione al crimine organizzato. La campagna lanciata cinque anni fa da Xi Jinping per ripulire il Partito comunista dagli elementi dissoluti estende il proprio raggio d’azione arrivando «a scavare in profondità» nelle viscere del malaffare. Il virgolettato è mutuato dal documento rilasciato dal Comitato centrale del Pcc e dal Consiglio di Stato a fine gennaio: «Notifica sulla lotta speciale condotta per spazzare via le gang criminali e debellare il male».
AVVIATA PERSONALMENTE dal presidente cinese, la nuova campagna antimafia coinvolgerà 30 organi statali e di Partito con lo scopo conclamato di rafforzare la legittimità della leadership e ravvivare la fiducia del popolo nei confronti dei vertici del potere. Partendo dal basso, però. Secondo il comunicato, infatti, la lotta contro le triadi –  le organizzazioni criminali cinesi di stampo mafioso – aiuterà a «schiacciare le mosche», i funzionari di rango inferiore che operano a livello di contea e villaggio.
Quelli tradizionalmente meno inclini ad allinearsi alle politiche del governo centrale e con cui i cittadini si trovano a trattare quasi quotidianamente, mentre «le tigri» (gli alti papaveri) rimangono celebrità da notiziari della Cctv. Facile intuire l’esistenza di un nesso con la lotta alla povertà, l’altro cavallo di battaglia con cui Xi punta a conquistare legittimità agli occhi del popolo.
NEGLI ULTIMI ANNI, 970 persone sono state arrestate per aver utilizzato in maniera impropria parte dei 30 miliardi di dollari stanziati per liberare 70 milioni di cinese dallo stato di povertà entro il 2020. Non a caso la missione della campagna anticrimine è duplice: «assicurare la stabilità del paese» e «chiarire chi è a favore o contrario» al Pcc (che oltre la Muraglia si sovrappone allo Stato) nel consolidamento del potere politico grass-root. Si capisce come il miglioramento della qualità della vita sia un fattore collegato al mantenimento della stabilità sociale.
SECONDO QUANTO RIFERITO a stretto giro da Guo Shengkun, segretario della Commissione per gli Affari politici e legali, a finire nel mirino saranno soprattutto il gioco d’azzardo, la pornografia, il contrabbando di stupefacenti, il traffico di esseri umani, e le vendite piramidali. Tutte quelle attività che, come spiega l’agenzia statale Xinhua, si avvalgono dei vuoti normativi per sfruttare i settori della logistica e dei trasporti attraverso società di comodo regolarmente registrate. Nessuna pietà nemmeno per le aziende che concedono prestiti con interessi usurai, piaga sociale nell’era della finanza online Un altro elemento di instabilità agli occhi del Partito.
COME SPIEGA il People’s Daily, in realtà il giro di vite nei confronti della criminalità era partito nel gennaio 2016, quando la Procura suprema aveva ordinato di sconfiggere le triadi nei villaggi. Da allora, solo nella provincia del Guangxi 1.200 persone sono state perseguite penalmente per il loro coinvolgimento nella mafia locale, mentre a Xiongan – la nuova zona economica dello Hebei voluta da Xi come contraltare settentrionale a Shanghai – un bizzarro piano richiede ad ogni contea di gestire almeno un caso criminale al mese.
«GLI UFFICI di pubblica sicurezza locali devono rendere noti i loro numeri di cellulare al pubblico in modo che i residenti possano denunciare i crimini», spiega il China Daily mettendo in evidenza l’altro elemento cardine: la partecipazione popolare che in Cina vanta un lungo trascorso di delazioni più o meno spontanee, dai baojia di epoca Song (sistema comune di applicazione delle leggi e controllo civile su base famigliare) alle denunce della Rivoluzione Culturale fino alle soffiate delle migliaia di volontari che tutt’oggi vigilano su Pechino con una fascia rossa al braccio.
A FRUGARE BENE tra le pieghe della storia recente di yanda («colpire duro») si torna a parlare fin dagli anni ’80, quando Deng Xiaoping varando le prime riforme economiche mise bene in chiaro che nessuno, per quanto di nobili natali, sarebbe più stato al di sopra della legge. A farne le spese fu il figlio del generale Zhu De – un «principino» comunista – mandato al patibolo per teppismo all’età di 25 anni. Seguirono le campagne nazionali del 1996, 2001 e 2010, annus horribilis contraddistinto da una lunga scia di omicidi ai danni di bambini, anziani e disabili. Ma è nella defilata megalopoli del sud-ovest, Chongqing, che nel 2009 si è assistito alla più clamorosa «caccia alle streghe», fruttata 5,000 arresti e la confisca di beni per oltre 473 milioni di dollari in soli dieci mesi.
È PROPRIO CON LO SLOGAN «spazzare via il nero» che l’allora capo del Partito locale Bo Xilai conquistò l’approvazione della pancia del paese. E poco importa se le incarcerazioni furono il frutto di torture e confessioni forzate indirizzate contro avversari politici. Dal 2013 Bo si trova dietro le sbarre – ufficialmente – con l’accusa di corruzione, appropriazione indebita e abuso di potere. Ma il suo modello, a base di populismo rosso e anticrimine, vive anche in alcune iniziative autografate da Xi. Ci si chiede se questo valga anche per le modalità spietate e la natura politica delle operazioni anticorruzione, da tempo descritte sulla stampa internazionale come un regolamento di conti declinato al rafforzamento dello strapotere nelle mani di Xi, l’unico leader dai tempi di Mao ad aver visto il proprio nome comparire nella costituzione del Partito mentre è ancora in vita.
SEBBENE IL RECENTE comunicato vieti i metodi coercitivi nelle indagini e anteponga la presenza di prove schiaccianti alla risoluzione dei casi, la traiettoria altalenante con cui procede la riforma del sistema giudiziario annunciata durante il IV Plenum giustifica le molte alzate di sopracciglio.
A preoccupare è l’imminente istituzione di una Commissione nazionale per la supervisione incaricata non più soltanto di valutare l’operato dei 90 milioni di iscritti al Partito  – come l’attuale commissione disciplinare – ma anche tutti i dipendenti pubblici. Quindi funzionari governativi ma anche medici, insegnanti e impiegati nelle aziende statali. Stando alla bozza della legge che ne regolerà il funzionamento, la nuova agenzia non solo opererà al di sopra della Corte Suprema e della Procura Suprema del popolo, ma non sarà nemmeno soggetta al controllo del Consiglio di Stato.
Un aspetto che per il Nikkei ridimensionerà la figura del premier Li Keqiang, già svuotata con la creazione di team dal taglio economico alla cui guida siede proprio Xi. La notizia cattiva è che se la Commissione svolgerà un ruolo attivo nella nuova campagna antimafia difficilmente si procederà verso una maggiore trasparenza dei processi decisionali.
QUELLA BUONA è che forse l’assolutismo del lider maximo faciliterà la rimozione delle sacche di resistenza a cui viene attribuito il rallentamento delle riforme. Se poi a cadere nella rete sono pretendenti al «Trono di Spade» tanto meglio. D’altronde, era ancora il 2015 quando la rivista Caijing metteva a nudo i legami tossici tra le triadi e il governo dello Shanxi, una provincia ricca di carbone nonché feudo politico di Ling Jihua, una delle «tigri» corrotte ingabbiate da Xi.

Repubblica 8.2.18
Usa-Cina, il deficit incendia la guerra dei commerci
Nel 2017 sbilancio record di 566 miliardi Trump attacca, Pechino pronta a ritorsioni
di Federico Rampini


NEW YORK La tensione commerciale Usa-Cina probabilmente è solo agli inizi. Di certo non aiuta a placarla l’ultimo dato sugli scambi bilaterali. Il deficit commerciale americano con la Repubblica Popolare è aumentato del 12% l’anno scorso raggiungendo i 566 miliardi di dollari. Un dato così elevato non si vedeva dal 2008, anno in cui la crisi non si era ancora tradotta in una riduzione degli scambi internazionali. Il deficit bilaterale con la Cina rappresenta da solo quasi la metà di tutto il disavanzo commerciale degli Stati Uniti verso il resto del mondo. Il dato del 2017 non può che rafforzare la determinazione di Donald Trump ad assumere nuovi provvedimenti contro quella che lui denuncia da sempre come la “concorrenza sleale” dei cinesi. Il 2018 si è aperto all’insegna di questi provvedimenti: un mese fa la Casa Bianca annunciava dei dazi contro l’importazione di pannelli solari cinesi (e lavatrici sudcoreane). Fin qui si tratta di misure molto limitate, ma altre sono in arrivo.
Un terzo del deficit commerciale Usa-Cina è nelle tecnologie avanzate: computer, smartphone e altri prodotti elettronici. Questo da una parte conferma quanto la Cina si sia spostata su produzioni a più alto valore aggiunto, allontandosi dalle origini. D’altra parte l’avanzata della Cina nell’elettronica e informatica rende ancora più visibile il tema del furto di proprietà intellettuale, altro cavallo di battaglia di Trump. Le normative di Pechino che impongono agli imprenditori occidentali di creare joint venture con partner cinesi e di trasferire know how ai soci locali, equivalgono a un massiccio trasferimento di conoscenze tecnologiche.
Tra le ragioni per cui il deficit Usa-Cina si è ulteriormente allargato nel 2017, alcune sono “virtuose”. La crescita dell’economia americana ha avuto un’accelerazione, e quando la domanda tira una parte si riversa su prodotti stranieri. The Wall Street Journal, giornale tradizionalmente conservatore ma contrario al protezionismo, sostiene che lo stesso Trump in parte ha contribuito al boom di importazioni dall’estero: le sue minacce di dazi avrebbero spinto alcune industrie americane a fare incetta di acciaio e alluminio dalla Cina, per immagazzinare scorte prima che scattino nuove misure anti-dumping. Nell’insieme comunque l’intero commercio estero degli Stati Uniti continua a soffrire di uno squilibrio evidente: nel 2017 le esportazioni di prodotti made in Usa sono cresciute del 5,5%, ma le importazioni dall’estero sono aumentate del 6,7%. Intanto Pechino ha annunciato le prime contromisure, in risposta ai dazi sui pannelli solari made in China.
E’ interessante osservare sia il contenuto che il metodo prescelto dal governo cinese. Da una parte, la Cina ha seguito la via “legalistica”: ha avviato un regolare ricorso contro i dazi americani seguendo le procedure della World Trade Organization, che è il tribunale supremo per questo genere di controversie.
L’iter prevede anzitutto un dialogo fra le due parti alla ricerca di un accordo amichevole; in capo a 30 giorni se l’accordo non c’è la questione passa al tribunale del Wto; nel frattempo Pechino può annunciare le sue ritorsioni, ma deve aspettare tre anni prima di applicarle.
Un’altra mossa cinese è stata l’annuncio che il governo di Pechino apre un’indagine sulle importazioni di sorgo dagli Stati Uniti, sospettando che questo cereale sia venduto sottocosto (quindi in dumping) grazie ad aiuti di Stato. Questa mossa è doppiamente interessante.
Anzitutto mette nel mirino uno di quei settori dell’economia americana – relativamente pochi, in confronto alla Cina – dove gli aiuti di Stato vengono praticati da sempre e in misura sostanziale.
L’agricoltura americana pur essendo tra le più produttive del mondo gode anche di una pletora di sovvenzioni. In secondo luogo la mossa cinese ha una valenza politica: la lobby degli agricoltori americani, benché rappresenti una piccola quota della popolazione, è politicamente influente e spesso vota repubblicano nel “granaio” del Midwest. Uno Stato agricolo come l’Iowa è il primo nel calendario delle primarie per la nomination dei candidati presidenziali. Gli agricoltori dell’Iowa votano compatti, molti di loro sono protestanti evangelici, formano uno zoccolo duro del partito repubblicano. Per adesso la Cina reagisce con prudenza ma vuol far capire all’Amministrazione Trump che le sue reazioni potrebbero essere calibrate per infliggere il massimo danno.

il manifesto 8.2.18
L’incredibile storia della riscoperta di Delfi sotto le case del villaggio di Castri
di Tiziano Fratus


Le radici di quel pensiero europeo rivolto alla Grecia come ad un paese arretrato e sostanzialmente inabile a occuparsi del proprio passato risalgono a ben prima degli “aiuti” della Troika. Quantomeno al Sette e Ottocento, quando facoltosi privati con la passione per la cultura antica finanziarono di tasca propria scavi archeologici, sostenendo tesi quali, ad esempio: «L’antichità è un giardino che appartiene a coloro che ne coltivano i frutti».
La “mania” da antica civiltà – una vera e propria predazione coloniale – portò al trasferimento a Londra di parte dei marmi del Partenone o dell’obelisco di Luxor a Parigi. Capitava che nei paesi che erano stati scenario di civiltà gloriose si aprissero occhi fulgidi, come quando nel Cinquecento a Roma era stato ritrovato il complesso scultoreo del Laocoonte, oppure quando nel 1738 e nel 1748 si riscoprirono Ercolano e Pompei.
Le guerre napoleoniche resero poco invitante l’Italia, così la passione crescente di esploratori inglesi, tedeschi e francesi, seguiti poi dalla seconda metà dell’Ottocento dagli americani, si rivolse alla Grecia. Atene fu il punto iniziale, ma seguirono la città di Olimpia, Delo, Creta e così via. Un a caso a sé fu quello di Delfi, centro religioso e cuore dell’antico culto al dio Apollo, il sovrano del sole, della fertilità, della vita.
Ne ricostruisce la storia Michael Scott, docente all’università di Warwick, in un saggio che recentemente Laterza ha ripubblicato in una bella edizione economica. Titolo: Delfi. Il centro del mondo antico. La tradizione racconta di un pastore che portava le bestie a pascolare su un pianoro, alle pendici del monte Parnaso, nei pressi di un crepaccio notava che esse si inebriavano. Ben presto altre persone capirono che qualcosa pulsava dentro la terra e venne costruito un luogo di culto alla dea Gea (VIII sec. a. C.), in seguito sostituita dal santuario al dio Apollo, laddove vaticinava una sacerdotessa, la Pizia. Attorno a questo si costruì una vera e propria città nella quale si celebravano grandi giochi. Altre località della Grecia che avevano avuto fortuna economica o commerciale pagavano tributi per costruire tempietti che andavano sotto il nome di «tesoro», omaggi alla benevolenza del dio e dell’oracolo. Bere le acque della fonte Castalia, dedicate alle Muse, faceva diventare poeti.
L’abolizione dei culti pagani imposta da Roma nelle province dell’impero a partire dalla fine del Trecento portarono alfine ad un lungo abbandono. Dal XV secolo i visitatori che raggiungevano il Parnaso vi trovavano pochi resti desolanti: il muro di cinta dell’aria sacra e le case di alcune centinaia di abitanti, pastori e piccoli artigiani, che nel corso dei secoli avevano costruito un villaggio, Castri. Quando ci si rese conto che lì sotto probabilmente riposavano i resti di statue, aurighe e colonnati, archeologi e appassionati europei iniziarono un’estenuante trattativa cogli abitanti e con lo stato greco, in formazione dopo l’indipendenza dalla Turchia e un ingresso stegosaurico nella modernità. Grazie ad un sostegno astronomico assicurato dal governo francese, nel 1889 iniziarono gli scavi che restituirono alcuni segni della magnificenza di quell’antico sito che oggi possiamo andare ad ammirare.

La Stampa 8.2.18
Il grande teatro da rivedere
Ogni venerdì con La Stampa quaranta opere fondamentali filmate e conservate nelle Teche Rai
di Michela Tamburrino


Benvenuti a Teatro, dove tutto è finto ma niente e falso. Sarà per questo che resiste e resisterà sempre, generando vita come un ventre accogliente e come un divino anacronismo.
Un teatro di cui si perderebbe traccia, nella sua storia, se non si avessero le riprese televisive Rai in grado di fermare quel movimento scenico altrimenti fuggevole. In quaranta proposte il succo drammaturgico di varie stagioni e, attraverso le differenti produzioni, un viaggio alla scoperta dei cambiamenti, in scena e nella società, epoche storiche distanti raccontate dalla recitazione e dalla messa in scena.
Un viaggio che piace a Filippo Fonsatti, direttore del Teatro Stabile di Torino, Teatro Nazionale e, presidente della Fondazione P.l.a.tea, (organismo di rappresentanza dei Teatri Nazionali e dei Teatri di Rilevante Interesse Culturale). Quale destinatario migliore se non un pubblico curioso e anche nostalgico? «Questa iniziativa meritevole sarà gradita ai giovani che si riavvicinano ai classici e ai collezionisti appassionati. Scorrendo l’elenco si vedono nomi di grandi attori che non ci sono più, perfetti in interpretazioni che vanno conservate. Più di un film e più di un libro, il teatro è un’arte effimera dalla caducità elevata. Riprendere dalle Teche dei capolavori che altrimenti non si vedrebbero più, è necessario. In Inghilterra grandi canali di distribuzione puntano proprio su questo, vedere il teatro non live è diffuso e non c’è conflittualità». Ma come ovviare alla mancanza della funzione precipua del teatro che è appunto basata sul rapporto dal vivo spettacolo-spettatore?
«Bisogna cambiare ottica e goderne come di un’esperienza diversa. È un documento storico che ti restituisce quanto non potrai mai più fruire dal vivo. Ecco un diverso punto di vista, alternativo e integrativo, memoria e documentazione. Nella ricchezza dei titoli proposti vedo cinque capisaldi della cultura italiana del secondo Novecento, Filumena Marturano con Eduardo De Filippo, un saggio della cultura capocomicale, L’Orlando Furioso di Luca Ronconi, operazione intellettuale, il Macbeth del mattatore Carmelo Bene. Nelle seconde venti proposte, Arlecchino Servitore di due padroni di Strehler, prima vera riproduzione goldoniana contemporanea. Teatro dell’arte, fortemente legato al suo presente che per noi, oggi, è storia. E ancora, Il Mistero Buffo di Dario Fo. Architravi imprescindibili su cui poggiano gli altri titoli nella diversificazione di scuola, genere e stile».
Un’iniziativa che può rappresentare per molti un primo approccio con il fatto teatrale. «Il mio è stato questo. In tv, bianco e nero. Vidi l’Orlando Furioso e ne rimasi folgorato». E da collezionare anche i Martone-Cecchi di Finale di partita e Servillo con Sabato, domenica e lunedì.
Un peccato pensare che poco resterà della produzione contemporanea, considerando la scarsità di riprese dedicate oggi al teatro. Un’iniziativa, perciò ancora più meritevole in quanto può servire da stimolo e da memento. Il teatro è nutrimento dell’anima, ha una funzione politica e sociale che non andrebbe mai sottovalutata.
In regalo con l’uscita di domani, (la prima delle quaranta che accompagneranno il lettore ogni venerdì), un libretto con la storia del teatro che ci arriva grazie allo straordinario patrimonio custodito nelle Teche Rai.

Corriere 8.2.18
Maestri
Cinquant’anni fa moriva il direttore de «Il Mondo». La vocazione atlantica e le battaglie laiche
Mario Pannunzio aveva un sogno L’Italia Paese moderno e liberale
di Giuseppe Galasso


Il nome di Mario Pannunzio (nato a Lucca nel 1910 e morto a Roma cinquant’anni fa) è strettamente legato al settimanale, «Il Mondo», che diresse dall’inizio, nel febbraio 1949. La sua era, già allora, una personalità nota per vari aspetti. E, tuttavia, la direzione de «Il Mondo» fu quasi una rivelazione per la svolta che egli subito sembrò dare al dibattito delle idee, alla polemica politica, allo stile giornalistico.
Già operava in tal senso la molto studiata veste grafica del giornale, di un’assoluta ed elegante «pulizia» nel suo essenziale bianco e nero, di un calcolato e rigoroso equilibrio nella sua impaginazione e nello snodarsi delle sue pagine in articoli e rubriche o servizi, e sempre di un gusto impeccabile e di una efficace pertinenza nella sua ampia, ma non ridondante, illustrazione fotografica. Un giornale di classica perfezione grafica, benché l’ormai imperante tecnica della stampa in rotocalco ne attutisse fatalmente il nitore tipografico.
A loro volta, le sue idee e le sue battaglie ne determinarono ben presto una suggestione e un’influenza superiori alle prime attese. Il sentimento e il pensiero liberali del direttore vi si riflessero appieno. Era, il suo, un liberalismo che nella sua sostanza etico-politica si rifaceva appieno a Benedetto Croce, ma si traduceva poi in battaglie civili e culturali per le quali il liberismo di Luigi Einaudi, il radicalismo moralista e concretista di Gaetano Salvemini, la crociata antimonopolista di Ernesto Rossi e molte altre alte ispirazioni coeve convergevano nell’agitare i più vari problemi di apertura, modernizzazione, liberalizzazione, equilibrio, avanzamento morale e materiale della società italiana.
Vi si univano le più salde convinzioni in materia di scelta occidentale ed europeista, di opposizione a ogni compromesso o equivoco con le idee e il mondo comunista, di garanzia dell’equilibrio e della sicurezza democratica quali il centrismo degasperiano aveva impostato. Ancora più forte, se possibile, era lo slancio nella promozione e difesa della causa laica, sia per ogni verso sul piano generale della cultura moderna e della tradizione italiana, sia, più specificamente, come difesa della laicità dello Stato, e innanzitutto delle sue scuole. E l’occhio era rivolto al Risorgimento, con capofila Cavour, e ai valori «risorgimentali», visti come la realistica preconizzazione dell’«Italia civile», ossia modernamente europea, a cui si mirava.
La stella polare di questo orientamento era sempre nel criterio degli «interessi generali» del Paese. Un criterio concettualmente arduo, ma reso concreto dal principio liberale, che lo ispirava, della «libertà liberatrice». E, cioè, la libertà quale valore supremo e non negoziabile, forza innovatrice ed elevatrice se tradotta in una prassi assidua, ininterrotta, anche insoddisfacente e discutibile, perché l’esercizio costante è il primo motore del suo progresso e di una sua stabilizzazione a più alti livelli, e perché la libertà nasce e vive nella storia, e non è un’idea che venga prima e stia sopra la storia.
Questa concezione storicizzante della libertà era una grande forza del giornale nelle sue tante battaglie, ma non toglieva che Pannunzio incontrasse difficoltà a seguire gli sviluppi della politica italiana fra gli anni Cinquanta e Sessanta. Egli pensava, inoltre, che il suo potesse essere non solo un grande organo di opinione, bensì anche il nucleo generatore di una nuova e più forte presenza politica liberale in Italia, insinuando una «terza forza» nel duello fra «rossi» e «neri», che paralizzava l’Italia. Perciò assecondò prima lo sviluppo degli Amici del «Mondo», con convegni, fra il 1955 e il 1959, di forte richiamo su vari problemi italiani; poi la formazione di un nuovo partito, quello radicale, che fu però, in quella fase, un insuccesso.
Avversari e critici vi videro la prova di una sua errata lettura della realtà italiana, ma, nella nuova Italia della fine degli anni Cinquanta, avviata al centrosinistra, Pannunzio stesso cominciò a capirlo più che non sembrasse o dicesse. Per effetto naturale di questo mutare, «Il Mondo», da giornale di avanguardia liberale in un’Italia in cerca di guide e di orientamento, quale fu nei suoi primi anni, divenne davvero sempre più quel giornale di ristrette élites che ad esso si imputò sempre di essere. Appariva meno proiettato verso il futuro e il nuovo, e più volto a specchiarsi nel proprio patrimonio di idee, a sognare il suo sogno dell’«Italia della ragione». Con gli anni il gruppo numeroso dei maggiori intellettuali e giornalisti italiani, e di quelli da lui stesso allevati, raccoltisi intorno a lui (il giornale, si diceva, aveva più firme che lettori) si era frammentato. Pannunzio non era uomo da non capirlo, mentre dimezzavano pure i lettori. Poi, ad appena due anni dalla chiusura del giornale nel marzo 1966, anch’egli il 10 febbraio 1968 si spense. Quasi l’allegoria di un destino annunciato. Ma anche memoria di un sogno che varrebbe ancora la pena di sognare .

Corriere 8.2.18
Rosmersholm
Il protestantesimo di Ibsen nelle ambiguità di coppia
di Franco Cordelli


Rosmersholm di Ibsen nella versione di Luca Micheletti, prodotto dal teatro Franco Parenti è una sorpresa per una quantità di motivi. Prima sorpresa, Micheletti in quanto giovane regista e attore. Seconda, il suo aver messo in scena non il testo di Ibsen ma la versione che ne fece Massimo Castri nella stagione 1979-80 (con Piera Degli Esposti e Tino Schirinzi). Terza, l’aver spostato la linea della regia di Castri da un piano essenzialmente metateatrale a un piano psicanalitico. Quarta, lo spettacolo in sé, di conseguita, plausibile credibilità.
L’ultima osservazione riguarda il senso di lieve repugnanza (e incredulità) che viene dal testo di Ibsen. Osservavo qualche settimana fa, discutendo lo spettacolo da Cesare Lievi dedicato a Martin Lutero, come egli non prendesse posizione di fronte al protagonista — di cui aveva tracciato la figura. Lievi sembrava lontano tanto dalle sue radici quanto da ciò che sarebbe diventato il protestantesimo, in alcune conseguenze estreme.
Quelle conseguenze in Rosmersholm sono evidenti in specie rispetto al rapporto uomo-donna. Nell’analisi del testo Freud ebbe buon gioco: svelò senza esitazioni, o reticenze, la prima natura di colpa della protagonista Rebekka nel suo passato incestuoso. L’incesto si ripete quando Rebekka entra in casa Rosmer, dove in stato di coscienza poco più che larvale prende il posto della moglie di Rosmer, Beate: una entrata in scena che condurrà Beate al suicidio e Rebekka a prenderne il posto, a metà strada tra la condizione di governante, di amica e di figlia (a causa della differenza d’età).
Il rapporto che poco a poco, sottilmente, inconsapevolmente, si è sviluppato tra Rosmer e Rebekka è di doppia natura: quella sessuale o amorosa; quella ideale, idealizzante. Si incontrano due mondi diversi: antico quello di Rosmer, liberale se non spavaldo quello di Rebekka. I due mondi si impregnano l’uno dell’altro, l’uomo e la donna non solo si amano ma si desiderano e l’uno diventa l’altra, è come se si scambiassero i ruoli o si trasformassero in una sola persona. Il bello, ma anche lo sgradevole di Ibsen è che la sua ambiguità non si capisce fino a che punto sia ambiguità dell’arte o complicità con un mondo oscuro che mai cessa di ammantare la realtà di reticenza e irraggiungibili ideali.
A questo punto interviene Castri. Sfoltisce il dramma, lo depura, restano in scena solo i due protagonisti. Sono già morti suicidi, rievocano a sprazzi e frammenti la loro vicenda. Nello spettacolo di Micheletti li troviamo (lei è una drammatica, lacerante Federica Fracassi) distesi su un tavolo. Sono non più in un manicomio, come in Castri, ma in una camera mortuaria: candele, lampade e lumini li lasciano intravvedere nel loro gioco al massacro. Arriveranno nei sussurri, nelle rotte voci, non solo a unirsi di nuovo, come nel nodo freudiano, ma a di nuovo dissolversi come nella gora del fiume dove si erano lasciati annegare.