La Stampa 5.2.18
Il tricolore non appartiene ai razzisti
di Giovanni De Luna
Quello
che è successo a Macerata era nell’aria da tempo. Ma nessuno avrebbe
potuto immaginarne una portata simbolica così dirompente. Il saluto
romano, il tatuaggio nazista, il monumento ai caduti, il tricolore: una
scenografia studiata per rileggere tutta la nostra storia nazionale
all’insegna del fascismo mussoliniano e indicare nel razzismo e nella
violenza i valori di fondo della nostra comunità. Quel tricolore
indossato come un mantello a coprire i risvolti più tremendi di un gesto
disgustoso suona come una chiamata alle armi, quasi che su quella
bandiera ci fosse ancora lo stemma sabaudo o il fascio di Salò.
Non
è così. Però è inquietante che il nostro Paese veda riaffiorare quei
simboli in un contesto di violenza dichiaratamente politica e proprio
nel momento in cui la convivenza con i migranti sta diventando un nodo
aggrovigliato.
Un nodo che Salvini e tutta una parte politica
cercano di sciogliere proponendo agli italiani di rispecchiarsi in
un’«autobiografia della nazione» segnata dall’odio xenofobo e
dall’intolleranza razziale. Oggi ce ne accorgiamo: non eravamo pronti né
culturalmente né politicamente a misurarci con religioni, tradizioni,
abitudini diverse dalle nostre e che hanno investito in modo massiccio i
luoghi della nostra quotidianità.
Come suggeriva Bobbio, già agli
inizi degli Anni 90, se l’etnocentrismo è infatti una sorta di
«predisposizione mentale e culturale», è solo dal «contatto materiale»,
dalla convivenza negli stessi spazi pubblici e privati che nasce la
pulsione della xenofobia, il desiderio di cacciare l’«Altro» fuori da
casa propria. Sulla constatazione puramente fattuale della diversità che
esiste fra uomo e uomo, si sovrappone un giudizio di valore per cui uno
è buono l’altro cattivo, uno è superiore l’altro inferiore, in un
percorso che si sviluppa attraverso la segregazione, poi con il rifiuto
di ogni forma di comunicazione o contatto, la discriminazione, per
arrivare al dileggio verbale, all’aggressione e alla violenza. I
fascisti di oggi prosperano sfruttando il pregiudizio (il «credere senza
sapere»), che non solo provoca opinioni erronee, ma è difficilmente
vincibile perché l’errore che esso determina deriva da una credenza
falsa e non da un ragionamento errato o un dato falso che tali possono
essere dimostrati empiricamente.
In questo senso, sul piano
culturale l’unico antidoto appare la conoscenza, la capacità cioè, di
restare ancorati alla prova dei fatti, di rifiutare le scorciatoie
offerte dal pregiudizio e dal senso comune, di relazionarsi con un
«Altro» che non sia inventato o virtuale.
Sul piano politico la
strada è indicata invece proprio da quel tricolore vergognosamente
indossato dall’attentatore. Quella è la bandiera della Repubblica nata
dalla Resistenza. E’ il simbolo di una «religione civile» che propone un
insieme di principi in grado di recintare uno spazio in cui gli
interessi che tengono insieme un Paese si trasformano in diritti, in
doveri civici, in valori consapevolmente accettati, nel nome dei quali
gli italiani sono sollecitati ad abbandonare le nicchie
individualistiche racchiuse nel terribile slogan «ognuno è padrone a
casa propria». Questa religione civile trova il suo fondamento in una
Costituzione che propone un’autobiografia della nazione radicalmente
diversa da quella fascista. Lo spazio pubblico della cittadinanza che vi
è disegnato suggerisce che nel diventare cives gli individui accettino
dei vincoli e si riconoscano in uno Stato legittimato anche da un
insieme di narrazioni storiche, figure esemplari, occasioni celebrative,
riti di memoria, miti, simboli che riescono a radicare le istituzioni
non solo nella società, ma anche nelle menti e nei cuori dei singoli
cittadini. In queste narrazioni c’è il Risorgimento, c’è la Resistenza;
non c’è il fascismo.