lunedì 5 febbraio 2018

La Stampa 5.2.18
Il tricolore non appartiene ai razzisti
di Giovanni De Luna


Quello che è successo a Macerata era nell’aria da tempo. Ma nessuno avrebbe potuto immaginarne una portata simbolica così dirompente. Il saluto romano, il tatuaggio nazista, il monumento ai caduti, il tricolore: una scenografia studiata per rileggere tutta la nostra storia nazionale all’insegna del fascismo mussoliniano e indicare nel razzismo e nella violenza i valori di fondo della nostra comunità. Quel tricolore indossato come un mantello a coprire i risvolti più tremendi di un gesto disgustoso suona come una chiamata alle armi, quasi che su quella bandiera ci fosse ancora lo stemma sabaudo o il fascio di Salò.
Non è così. Però è inquietante che il nostro Paese veda riaffiorare quei simboli in un contesto di violenza dichiaratamente politica e proprio nel momento in cui la convivenza con i migranti sta diventando un nodo aggrovigliato.
Un nodo che Salvini e tutta una parte politica cercano di sciogliere proponendo agli italiani di rispecchiarsi in un’«autobiografia della nazione» segnata dall’odio xenofobo e dall’intolleranza razziale. Oggi ce ne accorgiamo: non eravamo pronti né culturalmente né politicamente a misurarci con religioni, tradizioni, abitudini diverse dalle nostre e che hanno investito in modo massiccio i luoghi della nostra quotidianità.
Come suggeriva Bobbio, già agli inizi degli Anni 90, se l’etnocentrismo è infatti una sorta di «predisposizione mentale e culturale», è solo dal «contatto materiale», dalla convivenza negli stessi spazi pubblici e privati che nasce la pulsione della xenofobia, il desiderio di cacciare l’«Altro» fuori da casa propria. Sulla constatazione puramente fattuale della diversità che esiste fra uomo e uomo, si sovrappone un giudizio di valore per cui uno è buono l’altro cattivo, uno è superiore l’altro inferiore, in un percorso che si sviluppa attraverso la segregazione, poi con il rifiuto di ogni forma di comunicazione o contatto, la discriminazione, per arrivare al dileggio verbale, all’aggressione e alla violenza. I fascisti di oggi prosperano sfruttando il pregiudizio (il «credere senza sapere»), che non solo provoca opinioni erronee, ma è difficilmente vincibile perché l’errore che esso determina deriva da una credenza falsa e non da un ragionamento errato o un dato falso che tali possono essere dimostrati empiricamente.
In questo senso, sul piano culturale l’unico antidoto appare la conoscenza, la capacità cioè, di restare ancorati alla prova dei fatti, di rifiutare le scorciatoie offerte dal pregiudizio e dal senso comune, di relazionarsi con un «Altro» che non sia inventato o virtuale.
Sul piano politico la strada è indicata invece proprio da quel tricolore vergognosamente indossato dall’attentatore. Quella è la bandiera della Repubblica nata dalla Resistenza. E’ il simbolo di una «religione civile» che propone un insieme di principi in grado di recintare uno spazio in cui gli interessi che tengono insieme un Paese si trasformano in diritti, in doveri civici, in valori consapevolmente accettati, nel nome dei quali gli italiani sono sollecitati ad abbandonare le nicchie individualistiche racchiuse nel terribile slogan «ognuno è padrone a casa propria». Questa religione civile trova il suo fondamento in una Costituzione che propone un’autobiografia della nazione radicalmente diversa da quella fascista. Lo spazio pubblico della cittadinanza che vi è disegnato suggerisce che nel diventare cives gli individui accettino dei vincoli e si riconoscano in uno Stato legittimato anche da un insieme di narrazioni storiche, figure esemplari, occasioni celebrative, riti di memoria, miti, simboli che riescono a radicare le istituzioni non solo nella società, ma anche nelle menti e nei cuori dei singoli cittadini. In queste narrazioni c’è il Risorgimento, c’è la Resistenza; non c’è il fascismo.

La Stampa 5.2.18
Perché nasce e cresce la paura xenofoba
di Ferdinando Camon


Accusare il giovane di Macerata di aver fatto una strage con finalità di razzismo si può, ma dire che Macerata è razzista è un’accusa immeritata a una nobile città, e dire che il razzismo sta crescendo in Italia è sbagliato.
Macerata non è una città razzista, l’Italia non è un Paese razzista, e il popolo italiano non è un popolo razzista. A ridosso di certi eventi di cronaca nera, rapine, furti, omicidi, che chiamano in causa immigrati (e la storia della giovane Pamela fatta a pezzi da uno spacciatore è particolarmente urtante) possono esserci reazioni anche violente, anche diffuse, ma questo non è razzismo, questa è xenofobia. Che è un’altra cosa, troppo spesso confusa col razzismo. La xenofobia è la paura dello straniero, degli stranieri. Perché il loro arrivo non è programmato, perché sono tanti, perché sono di difficile o impossibile integrazione, perché hanno bisogno di tutto, e noi facciamo già fatica a far fronte ai nostri bisogni. Perché la loro civiltà è troppo diversa dalla nostra, al limite dell’incompatibilità. In definitiva, perché sono un problema. Nessun governo, di destra o di sinistra, può trattare l’immigrazione se non come un problema, difficile non solo da risolvere, ma perfino da impostare.
La xenofobia obbedisce a un istinto di difesa, mentre il razzismo obbedisce a un istinto di offesa. E poi, francamente, il razzismo parte da un disprezzo delle razze altrui e da un orgoglio della propria razza, simboleggiato nelle insegne e nelle bandiere, il che per noi italiani non si verifica pressoché mai. Anche nei movimenti e nei gruppi più spinti, l’orgoglio per la propria storia vien sostituito dall’orgoglio per una storia altrui, che si vorrebbe fosse stata la nostra ma non lo fu. I gruppi e i movimenti che si proclamano razzisti si fregiano di svastiche e insegne naziste, perché sentono il nazismo come superiore e il fascismo come inferiore. Questo giovane di Macerata s’è avvolto nella bandiera italiana, e faceva il saluto fascista, ma sulla fronte s’era tatuato la «zanna di lupo», un simbolo proto-nazista. La fede è quella. E anche la cultura: in casa gli hanno trovato una copia del «Mein Kampf», ma su questo libro bisogna intendersi. Passa per essere il primo e assoluto proclama aggressivo e violento, in realtà è un perfetto testo fobico-ossessivo, pieno in ogni riga di paura degli altri: l’autore è spaventato dalla strapotenza di Francia e Inghilterra, uscite vittoriose dalla guerra, e predica contro di loro una guerra preventiva e difensiva. Non è raro trovare il «Mein Kampf» nelle case degli xenofobi.
Quando avviene qualche spedizione punitiva contro gli stranieri in casa nostra, come il raid armato di questo giovane attraverso Macerata, succede sempre che al raid seguano commenti entusiasti su Facebook e sui social. Anche stavolta è così. Il commento più benigno dice: «Non hai sbagliato niente, a parte la mira». Il tono di questi commenti ci fa temere, e dichiarare, che si tratti di commenti razzisti, e che dunque il razzismo sia in aumento. Non è così. Quella è l’area della xenofobia, sempre all’erta, che aspetta nell’ombra l’occasione per scatenarsi, ma va a rimorchio degli eventi, non li precede e non li fomenta, come invece fa il razzismo. Certo, dalla xenofobia, se dura a lungo e invece di calare cresce, può nascere il razzismo. Ma sarà un salto qualitativo. E non dipenderà dalla tattica di questo o quel partito di destra, nessuno ha interesse a fomentare il razzismo, ma dalla capacità dei governi di tenere basso il problema sociale dell’immigrazione.

Corriere 5.2.18
Cacciari: «Xenofobia e attentati, radici diverse»
di Daria Gorodisky

ROMA Professor Massimo Cacciari, ieri il presidente turco Recep Tayyp Erdogan, in merito a quanto avvenuto sabato a Macerata, ha detto che «non c’è differenza tra gli attacchi di un’organizzazione terroristica e attacchi razziali di questo genere».
«Invece sono questioni di natura completamente diversa, anche se quanto accaduto a Macerata è di una gravità estrema: è la punta dell’iceberg, ed è indice del fallimento in Italia di compiti fondamentali della politica come informare e educare. Se si va avanti così, si rischia una situazione simile a quella degli anni 20 in Germania».
Erdogan ha al suo attivo massacri di civili nel Sud-Est turco e repressione durissima dell’opposizione interna e della libertà di stampa; e in Siria sta sterminando i curdi che combattono l’Isis.
«Infatti è l’ultimo a poter parlare di diritti».
Verrà ricevuto dal presidente della Repubblica e dal presidente del Consiglio…
«È un capo di Stato e un membro della Nato. Ma certo i nostri rappresentanti dovranno dire delle cose. Il problema però è più ampio: che cosa ha fatto l’Unione Europea nei confronti di Erdogan mentre faceva, e fa quel che faceva e fa? L’Europa è completamente assente dalla questione mediorientale. La Turchia, con l’alleato Assad, compiono atti tremendi e l’Europa sta a guardare. E spesso benedice…».
L’Europa deve cambiare atteggiamento?
«È ora di cambiare la politica italiana e quella europea. L’Europa è impotente di fronte a qualsiasi tragedia avvenga sulla faccia della terra, non ha legittimità per contrastarla».
È impotente, o troppo attenta agli affari? Con l’Italia, ad esempio, Erdogan parla di scambi commerciali per circa 20 miliardi di dollari.
«Quando non c’è un’idea di Europa, né identità e politica, allora restano soltanto gli affari».
Erdogan ha sottolineato che, in quanto presidente di turno dell’Organizzazione della cooperazione islamica, oggi rappresenta un miliardo e 700 milioni di islamici. Questo può far paura?
«Ma non è vero. Erdogan sa benissimo che gli islamici sono divisi tra di loro. La sua affermazione fa parte della retorica e dell’ideologia politica fatta sui cadaveri».
Comunque ha aggiunto che il Papa (che lo riceverà) è il «numero uno» del cattolicesimo e quindi «questi due blocchi sono elementi decisivi» in Medio Oriente.
«Mi sembra che questo Papa, come Wojtyla prima di lui, parli in modo chiaro e sensato. Un Pontefice o rivendica una politica neoguelfa o che cosa può fare di più?»

Corriere 5.2.18
Terrore a Macerata, troppo facile passare dalle parole alle armi
di Guido Olimpio

La tentata strage di Macerata è forse un punto di inizio per l’Italia e il proseguimento di quanto visto prima negli Usa e quindi in Europa. Un sentiero marcato da alcuni segnali.
Primo. È un atto di terrorismo, inutile cercare altre definizioni. Un’esplosione di violenza in parte attesa, diretta conseguenza dell’epoca che viviamo e delle parole che girano. Dimostra quanto sia facile passare dalle parole alle armi. Basta avere una pistola ed esser pronti a usarla.
Secondo. È anche una forma di terrorismo «personale». Il gesto ha una base ideologica ben chiara — saranno i magistrati a chiarire quanto profonda — ma ci sono aspetti legati al profilo del protagonista. Vita complicata, molti lavori segnati da fallimenti, instabilità. Possibile che le seconde abbiano fatto da detonatore contingente. È avvenuto in molti casi di stragisti di massa statunitensi e simpatizzanti del Califfo. Prevengo le eventuali riserve di qualcuno: non intendo dare alcuna attenuante al «tiratore», solo cercare di inquadrare meglio la figura. Le generalizzazioni non aiutano a stoppare i criminali.
Terzo. L’Italia in pochi mesi ha già registrato due eventi drammatici. Oltre al raid a colpi di pistola di sabato contro i cittadini africani, c’è stato l’attacco a bordo di un mezzo contro un mercatino di Natale a Sondrio. Il responsabile era sotto l’effetto dell’alcol però era deciso a compiere un massacro copiando i metodi dello Stato Islamico. Per fortuna non c’è riuscito, ma ha confermato l’emulazione, favorita dal messaggio mediatico che passa attraverso i canali tradizionali e i social.
Quarto. L’Isis è una minaccia continua, ha fatto centinaia di vittime. Non va però sottovalutato il pericolo di neonazi e xenofobi. Hanno colpito facendo vittime una moschea in Canada e un’altra a Londra, è stata assassinata la deputata britannica Joe Cox, ci sono stati episodi gravi negli Stati Uniti. Temo non siano fatti isolati, bensì l’emergere di una tendenza che cavalca paure e alza la testa mentre prima se ne stava in angoli nascosti. Se esce allo scoperto è perché sa di poterlo fare trovando consensi.

Repubblica 5.2.18
Il fantasma dell'uomo bianco
di Ezio Mauro


Ritagliando dentro l’umanità le razze, identificando nella molteplicità lo straniero da espellere, additando nella comunità il diverso da bandire, era prevedibile che si arrivasse fin qui, alla tipizzazione dell’indigeno italiano, trasformandolo in prototipo sociale, esperimento culturale, infine in soggetto politico.
L’uomo che in piena campagna elettorale spara contro gli immigrati è colui che invoca i muri contro gli altri, poi dentro quei muri si ritrova prigioniero, nell’egoismo di una storia nazionale mutilata soltanto per sé, di una tradizione privatizzata a proprio uso e consumo, di una cultura svilita a strumento esclusivo di selezione e di separazione. Siamo noi che lasciandoci rinchiudere nel guscio psicologico e ideologico delle nostre paure ci trasformiamo come dei mutanti, fino a regredire nell’identità primitiva biologica e corporea, che a Macerata risveglia l’ultimo spettro italiano, il fantasma dell’uomo bianco.
Era l’unico protagonista che ancora mancava, nel racconto del grande risentimento italiano. Costruito quasi in alambicco.
Prima con la separazione crescente tra rappresentanti e rappresentati, poi con il rifiuto della politica come strumento per garantire sicurezza nella democrazia, quindi con il venir meno dello scambio tra tutela e libertà, che era all’origine del patto tra il cittadino e lo Stato moderno. Infine, lo smarrimento di fronte alle emergenze dell’immigrazione, della crisi del lavoro, del terrorismo islamista, un’onda congiunta troppo alta per essere controllata dai governi nazionali, perfetta invece per allargare l’inquietudine, disperdere il sentimento repubblicano in tante solitudini isolate, trasformare il cittadino in individuo, dimenticato.
Su questa dispersione solitaria, agisce la predicazione della paura, che trasforma la crisi economica in una rapina delle élite, l’immigrato nel nuovo nemico di classe, arrivato per invaderci, per occupare le nostre città spezzando il filo di esperienze condivise, per contenderci il salario e per impoverirci il welfare, mentre Chiesa, democrazia e cultura sono i nuovi colpevoli di un destino di sottomissione già segnato. L’unico modo di reagire è armare la paura: ingigantendo i fenomeni a dispetto dei numeri, associando immigrazione a devianza, rinnegando l’integrazione e il multiculturalismo in nome di una politica della forza capace di fare da sé, con ruspe, affondamenti, muri, respingimenti, fili spinati. Finché qualcuno prende il fucile, com’era accaduto qualche anno fa a Rosarno contro i raccoglitori di pomodori e condensa tutto questo in una caccia al nero trasformato in bersaglio, radicalizzando in una prova estrema un clima sociale e politico che produce legittimazione, copertura e consenso.
Dicono i coltivatori dell’odio ( mentre i grillini tacciono, prigionieri di un’ambiguità politica costante e di una povertà culturale scandalosa) che tutto questo è frutto dell’esasperazione dei cittadini insicuri, e dunque di un’escalation che mescola impotenza e onnipotenza, fino alla caccia all’uomo fai-da-te. In realtà è esattamente il contrario. È il segno di una regressione evidente, che porta il cittadino a rinunciare a tutti gli strumenti d’intervento costruiti in decenni di democrazia e di storia nazionale della convivenza, per precipitare nel pozzo primordiale della pistola e dell’agguato, del gesto estremo dell’uomo contro l’uomo fuori da ogni cornice di legalità e da ogni tradizione di civiltà. Non è un gesto di follia, ma di terrorismo: che come tale stravolge la politica, inventata come mezzo di regolazione dei conflitti, svilita per anni in concimazione delle paure e infine ridotta a progetto omicida.
Un gesto isolato, fortunatamente. Ma che non nasce per caso e non viene dal nulla. Al contrario, può contare su un clima di legittimazione strisciante, su una banalizzazione quotidiana dei troppi episodi di intolleranza razziale, sul disprezzo dei principi costituzionali, sul dileggio di chi predica e pratica la tolleranza e la convivenza. Condanne a mezza bocca, giustificazioni subito pronte, la consapevolezza di un mainstream parallelo, che si muove dentro la forma democratica ma è sempre più estraneo ai valori dell’occidente europeo in cui viviamo, alle istituzioni repubblicane vilipese e disprezzate come pratica quotidiana, nel silenzio della cultura che assiste passiva.
È come se la cultura democratica fosse già finita in minoranza: se non nei numeri, certamente nella capacità di contare e di convincere, di credere in se stessa, e cioè di produrre egemonia. La mutazione in corso, infatti, è prima di tutto culturale. Perché il fantasma dell’uomo bianco evoca ciò che certamente noi siamo, ma che non ci è mai bastato per definirci, tanto che abbiamo aggiunto a questa identità primitiva e basica le sovrastrutture che nelle diverse vicende nascevano dalla storia, dalle relazioni, dagli scambi, dalla politica, dalla cornice della civiltà europea, dalla coscienza dei diritti nostri e altrui, dal divenire della nostra forma associata di vita.
Per questo l’apparizione dell’uomo bianco come soggetto sociale e politico è un ritorno al passato, una spoliazione. Come avviene in parallelo per il suo bersaglio, l’uomo inquadrato nel mirino della sua pistola, che perde non solo ogni diritto ma qualsiasi universalità, ridotto a pura espressione razziale, ingombro materiale, simbolo di diversità per i due elementi — anche qui primordiali — dell’odio razzista: il colore della pelle, e il peccato d’origine. A unire i due pregiudizi (quello su di sé, suprematista, e quello sullo straniero, come inferiore) è il ritorno alla sostanza primitiva, la pelle e il sangue, come negli anni peggiori della nostra vita.
Nella pelle bianca e nell’odio per la pelle nera si ritorna a cercare inconsciamente la conferma di una sopravvivenza, quell’immortalità mitologica che il culto del sangue assicura nel passaggio delle generazioni, portando l’elemento biologico fuori dal tempo, trasformandolo nella sostanza sacra e pagana di una comunità impaurita proprio mentre esercita la forza: spaventata dalla fragilità di quel principio germinale a cui è affidata l’identità simbolica, fuori dalle responsabilità della storia, della politica, della cultura.
È dunque la paura che fa prendere la pistola, anche se per sparare a un uomo, allo straniero, bisogna armarsi di un malinteso senso della supremazia, della gerarchia razziale, sociale, umana. Tutte cose che purtroppo abbiamo già visto. E che l’uomo bianco di Macerata ha radunato su di sé: la pistola, l’odio razziale, la bandiera per coprire il nuovo sovranismo, il saluto romano. Cosa resta da capire?

Repubblica 5.2.18
La nuova Lega meno Padana per vincere al Sud
Paga la linea xenofoba ed euroscettica di Salvini. Maroni piace al Nord
di Ilvo Diamanti


Sabato, a Macerata, nelle vie del centro, un trentenne ha sparato contro alcuni giovani di origine africana. In nome della “difesa della razza”. E della “nazione”. Come ha sottolineato, avvolgendosi nel tricolore. Si tratta di un estremista di destra, che in passato si era candidato, con scarsa fortuna, nelle liste della Lega. Matteo Salvini, da parte sua, ha condannato il gesto.
Accusando, al tempo stesso, “chi apre ai clandestini”. Ritenuto, implicitamente, mandante morale di questo atto di intolleranza criminale.
D’altronde, Attilio Fontana, candidato dal Centro-destra alla successione di Roberto Maroni, ritenuto un “leghista moderato”, due settimane fa aveva, a sua volta, sostenuto che “non possiamo accettare tutti gli immigrati”. Perché — aveva aggiunto — “dobbiamo decidere se la nostra etnia, la nostra razza bianca, debbono continuare ad esistere”. La Lega di Salvini sembra, dunque, avere imboccato la via nazional-populista, sulle orme di Marine Le Pen. Amica personale ed estimatrice del leader leghista. La Lega, come il Front National, ha fatto dell’immigrazione non “una” questione, ma “la” questione centrale della campagna elettorale. D’altra parte, si tratta di un argomento “popolare”.
Visto che (secondo il sondaggio dell’Atlante Politico di Demos, condotto alcune settimane fa) 4 italiani su 10 ritengono gli immigrati “un pericolo per l’ordine pubblico e per la sicurezza delle persone”. Una componente che fra gli elettori della Lega raddoppia: 81%. In questo modo, Salvini ha varcato, da tempo, i confini della “patria padana”, scendendo verso Sud.
Si tratta di una rottura, politica e “territoriale”, con il passato, consumata, anzitutto, “dentro” alla Lega. All’ultima “adunata” di Pontida, lo scorso settembre.
Quando Umberto Bossi, per la prima volta nella storia della manifestazione, non ha parlato.
Per volontà del (nuovo) “capo”.
Roberto Maroni, predecessore di Salvini, nell’occasione, aveva commentato seccamente: “Pontida è Bossi”. Ma da allora il vento (del Nord) è cambiato. Non solo Bossi, ma neppure Maroni, oggi, interpreta il sentimento della Lega. Infatti, nelle scorse settimane, ha annunciato l’intenzione di non ricandidarsi alla presidenza della Lombardia.
E Salvini ha notificato che questa decisione gli avrebbe precluso ogni altro incarico. Politico e istituzionale. Ricambiato dal governatore, con l’accusa di usare “metodi staliniani”. I rapporti di Salvini con i territori del Nord sembrano, dunque, complicati. In particolare, con i leader del Lombardo-Veneto.
Non solo Maroni, ma lo stesso Zaia, nello scorso ottobre, avevano celebrato, con successo, il rito del referendum indipendentista. Mentre oggi, nella formazione delle liste, si vedono ridimensionati. Così, potrebbe affacciarsi l’idea di una Lega “plurale” se non proprio divisa. Una Lega dai diversi volti.
Come diversi sono i “profili” delle simpatie suscitate dai due leader. Salvini e Maroni. Al di là del grado di consenso, molto più elevato verso Salvini (34%) rispetto a Maroni (27%).
Maroni, tuttavia, risulta maggiormente apprezzato presso gli elettori di Sinistra e di Centro-sinistra. Fra i quali supera Salvini, anche se di poco.
Si tratta, peraltro, dell’area politica dove i leader leghisti — e la Lega, nell’insieme — sono guardati con maggiore distacco.
Seppure entrambi provengano proprio da quell’esperienza.
Salvini, in particolare, alla fine degli anni Novanta, si proclamava leader dei “comunisti padani”. Ma oggi quella definizione non gli appartiene più. Al contrario, visto che è apprezzato dagli elettori di Destra: 68%. E, in misura più limitata, di Centro-destra. Mentre a Sinistra suscita solo diffidenza. Ma la diversità dell’immagine sociale dei due leader appare evidente soprattutto nella distribuzione territoriale dei consensi personali. La fiducia nei confronti di Maroni, infatti, si concentra nelle regioni del Nord. In particolare nel Nord-Est.
Unica zona dove il governatore (dimissionario) della Lombardia risulta altrettanto popolare di Salvini, fra gli elettori. Anche nelle regioni — un tempo “rosse” — del Centro Italia mantiene un grado di favori analogo al segretario federale. Ma quando si scende verso Sud la differenza diviene più marcata. Perché Maroni vede calare i propri consensi. Mentre da Nord a Sud, passando per il Centro, il livello di fiducia verso Salvini mostra poche variazioni. È il leader di una “Lega Nazionale”. Non per caso ne ha cambiato il nome, oltre all’identità. Ora è “Lega”.
Senza specificazioni. Un soggetto politico di Destra. Il più forte, in Italia. Euroscettico e xeno-fobo, in senso letterale.
Perché amplifica la paura dello “straniero”. Xenos. Un orientamento condiviso dagli elettori della Lega. Senza distinzioni. Con il rischio di attirare anche alcuni estremisti.
Come il terrorista di Macerata.
Pericolosi, non solo politicamente.
Nell’insieme, però, il gradimento per Salvini, nella base leghista, risulta pressoché unanime (83%). Il doppio, rispetto a Maroni. E molto più di ogni altro leader del partito. Perché la Lega, al pari di altri soggetti politici, è divenuta un “partito del Capo”. Per evocare la formula di Fabio Bordignon. D’altronde, nel Mezzogiorno, si definisce “Noi con Salvini”. Ma ormai non c’è differenza fra Nord, Centro e Sud. Perché, echeggiando Mauro Calise, è un “partito personale”.
Come Forza Italia. Come il PDR di Matteo Renzi. Così la Lega è divenuta LdS. La Lega di Salvini.

Reubblica 5.2.18
Liliana Segre
"C’è una politica che semina odio. Ora via la parola razza dalla Costituzione”
Intervista di Simonetta Fiori


Cosa prova un’italiana sopravvissuta ad Auschwitz davanti alle trenta pallottole contro gli immigrati neri? Cosa pensa di un paese fascioleghista che evoca la « razza bianca » , denuncia il complotto della « sostituzione etnica » , trova infine una giustificazione per la « caccia al negro » ? « Mi vengono i brividi » , dice Liliana Segre, ottantasettenne testimone dell’Olocausto, da quindici giorni senatrice a vita. « La violenza razzista è ormai un fiume senza argini, prodotto di una pazzia collettiva sapientemente alimentata dai seminatori d’odio » . Seppur diversi i contesti storici, restano identici i meccanismi che danno vita a capri espiatori e fantasmi sociali. « Mi sembra di rivivere cose orribili del passato » .
Esiste ancora un ventre molle del paese contaminato da fascismo e razzismo?
«E’ sempre esistito. Solo che nel dopoguerra ci si vergognava di tirarlo fuori. Il lutto e la disperazione provocati dai totalitarismi creavano una sorta di pudore intorno a certe tendenze, liquidate come oscene.
Il tempo ha cancellato la memoria delle tragedie. Ed ecco ora riaffacciarsi violentemente queste pulsioni razziste e xenofobe».
Colpiscono gli argomenti giustificazionisti della destra: ci sono troppi neri.
«Eh già, ci mancava che applaudissero agli spari. Che vergogna. Ci sono uomini politici che non hanno più timore di evocare la “razza bianca”, addirittura denunciano un complotto per “la sostituzione etnica”. Cosa ci si può aspettare da una politica dell’odio come questa?».
Il mito del complotto contagia neonazisti e leghisti.
Prima era una specificità dell’antisemitismo, che ricorre ai falsi Protocolli dei Savi di Sion per argomentare la pericolosità degli ebrei pronti a impadronirsi del mondo. I razzisti di oggi evocano dissennatamente un “piano Kalergi” per trasformare il popolo europeo in “una razza mista di africani e asiatici”.
Sono entrambi dei falsi inventati per colpire delle vittime.
«Anche io ho pensato a questa similitudine. E mi vengono i brividi. Spero di sbagliarmi. Spero di essere clamorosamente smentita dalla Storia».
Cosa le ha fatto pensare a un’analogia?
«Il meccanismo che dà vita al mito del complotto ha sempre gli stessi tratti: si sospetta che siano in atto terribili piani misteriosi rispetto ai quali la gente comune resta all’oscuro finché vincono gli artefici della macchinazione.
Quindi bisogna annichilire l’avversario finché si è in tempo».
I fantasmi sociali nascono sempre in un momento di crisi.
«Sì, certo. Ed è in momenti come questi che si inventano capri espiatori su cui sfogare risentimento e paura. La rabbia oggi si respira per strada. La si vede non solo negli episodi eclatanti come la “caccia al nero” di Macerata, ma anche nella quotidianità. Bastano un sorpasso azzardato o un parcheggio maldestro. Basta una finestra che sbatte e si accoltella il vicino. Su questo terreno intervengo i maestri della politica e del web assai abili nello spargere veleno e nel catturare l’attenzione. Anche perché la lezione dell’odio è molto più facile di quella dell’amore. Ha presa su platee più ampie».
È facile anche dare vita a un immaginario razzista. Lei l’ha subìto da ragazza sotto il regime fascista. Pur nella differenza tra quell’Italia e oggi, rintraccia delle analogie nei meccanismi che creano una propaganda fondata sulla discriminazione?
«E’ una questione che mi sono posta anche io. E purtroppo le somiglianze non mancano. La campagna antisemita non è nata da un giorno all’altro il 18 settembre del 1938, quando Mussolini annunciò a Trieste le leggi razziali. Prima c’erano state le barzellette, le boutade, le caricature con il naso adunco e le orecchie a sventola. Gli ebrei ridotti a macchietta grottesca.
Pian piano dalle vignette si è passati ai cartelli con la scritta: “Vietato l’ingresso ai cani e agli ebrei”. E poi si sa dove siamo arrivati».
Nella sua esperienza personale, in che modo ha sofferto l’esclusione?
«Io non ricordo l’atto violento – quello sarebbe arrivato dopo – ma lo sparire dallo sguardo delle persone. C’è un gioco che fanno i bambini senza capire quanto sia crudele. Si decide che uno di loro debba essere invisibile. E non c’è grido che li scuota. L’escluso reclama: ehi, ci sono, guardatemi! E gli altri niente, fanno finta di non vederlo e non sentirlo. Ecco, questo è ciò che ho patito.
L’invisibilità».
Qualcuna delle sue amichette le ha mai chiesto scusa in questi ottant’anni?
«No, non è mai successo. È anche per questo motivo che la nomina del presidente Mattarella ha rimesso a posto molte cose».
Rispetto alla Shoah, non abbiamo mai fatto i conti fino in fondo con le nostre responsabilità, attribuendo ogni colpa ai tedeschi. Deriva anche da questo la facilità con cui abbiamo sdoganato pulsioni xenofobe nella scena pubblica?
«Sicuramente. Da noi l’armadio della vergogna non è stato mai aperto. E l’esame di coscienza è completamente mancato. In questi anni abbiamo creduto di stare con gli occhi aperti e le orecchie vigili, ma evidentemente non è stato fatto abbastanza».
Lei oggi siede nel Senato della Repubblica. Quali atti intendere compiere per fermare il razzismo diffuso?
«Contro la xenofobia non credo tanto nell’efficacia delle leggi, ma nel potere dell’educazione.
Quello di cui mi farò carico sarà un progetto per la scuola. Classe per classe, testa per testa. I giovani devono conoscere quello che è realmente accaduto: è l’unico modo per porre un argine alla violenza presente e futura. Avverto questa urgenza da senatrice ma anche da nonna».
Nei giorni scorsi è stata sollevata nuovamente la questione dell’uso della parola razza nella Carta. Il presidente della Corte costituzionale, Paolo Grossi, ha ricordato che quella parola viene evocata proprio per condannare ogni discriminazione: si usciva allora dalla tragedia dell’Olocausto.
E ha aggiunto che oggi l’uso di quel termine non ha più senso.
Le piacerebbe se “razza” scomparisse dalla Costituzione?
«Sì, mi piacerebbe molto. Sono anche d’accordo con il presidente Grossi che ne ha contestualizzato l’uso. Ma vedrà che la parola razza verrà cancellata dalla Carta.

Repubblica 5.2.18
Il lessico della paura sulla pelle dei migranti
di Paolo Di Paolo


Se c’è una «bomba sociale pronta a esplodere» non è quella a cui si è riferito ieri, con questa espressione, Silvio Berlusconi. La vera «bomba sociale» non è fatta — come sostiene il leader di Forza Italia — da 600mila migranti che «vivono di espedienti e di reati». È fatta dalle parole che lui sceglie di utilizzare. Troppi esponenti del mondo politico e mediatico hanno continuato a esprimersi nel modo più incauto e più irresponsabile.
Hanno lasciato che frasi fatte, stereotipi brutali, slogan esasperati si scollassero progressivamente dalla realtà. Conta di più tuonare, con parole come «emergenza» e «invasione», che ragionare su dati concreti e soluzioni praticabili. Conta di più evocare la figura del «poliziotto di quartiere» che invitare, laddove necessario, a razionalizzare ansie concrete. Berlusconi avalla Salvini («L’odio viene istigato da chi ha riempito l’Italia di clandestini»); Di Maio aggiunge il suo («I politici ci hanno fatto i soldi con l’immigrazione»). Dire che fra questi ragionamenti tagliati con l’accetta della propaganda e le esplosioni di violenza xenofoba vi sia un nesso diretto, è azzardato. Ma dire che questi ragionamenti sono la peggiore e più penosa risposta politica a una situazione senza dubbio problematica, è necessario.
Dopo gli spari a Macerata, quali leader hanno cominciato i loro discorsi dai feriti? Chi ha evocato i cinque uomini e la donna colpiti dai proiettili? C’è qualcuno che — con la stessa enfasi spesa sul tema «sicurezza» — si è domandato di che cosa fossero colpevoli quelle persone? Il dibattito si è subito spostato sull’esasperazione dell’aggressore, sulla sua eventuale patente politica, sul suo disagio psicologico, sul tornaconto elettorale della vicenda. La saggista tedesca Carolin Emcke, in un importante saggio recente, Contro l’odio, scrive: «L’odio viene reso possibile e diffuso da coloro che non intervengono, che non agirebbero mai così ma tollerano, non odiano in prima persona ma permettono che si odi». Il paradosso cupo di questa stagione italiana è una classe politica che — quando non alimenta l’odio — gli fornisce anche a posteriori un lessico, una ragione; e comunque, non muove un dito per attenuarlo. Anziché provare a dialogare su un piano razionale con cittadini ed elettori legittimamente sfiduciati o spaventati, li invita a seguire la lezione peggiore, a essere più distruttivi, più rabbiosi.

Il Fatto 5.2.18
Anche i gesuiti di papa Francesco fanno il tifo per le larghe intese
La guida alle elezioni della “Civiltà Cattolica”: cinque criteri per scegliere contro il gentismo (populismo)
di Fabrizio d’Esposito


Per un gesuita, il discernimento è la regola principe, come insegna sant’Ignazio di Loyola. Anche se, al posto degli esercizi spirituali, si compila una guida analitica all’incertissimo voto politico italiano del 4 marzo, il discernimento è fondamentale. E così La Civiltà Cattolica, la prestigiosa rivista quindicinale della Compagnia di Gesù, indica ben cinque criteri e tre “illusioni ottiche” per orientarsi nella selva elettorale .
A firmare la guida è padre Francesco Occhetta, l’autorevole politologo della rivista diretta da padre Antonio Spadaro, tra gli “ideologi” del corso rivoluzionario di papa Francesco (senza dimenticare che le bozze della rivista vengono lette in via preventiva dalla Segreteria di Stato del Vaticano). Per padre Occhetta, l’elettore deve fare la sua scelta in base a cinque criteri.
Il primo: l’attenzione ai programmi, oltre gli slogan della propaganda, perché “i programmi non sono neutri rispetto ai valori”. Il secondo: lo spirito costituzionale dei candidati accantonando il loro storytelling e guardando invece l’affidabilità e la competenza, non solo l’onestà. Il terzo: la cultura costituzionale che deriva all’articolo 67, contro cioè il vincolo di mandato. Il quarto: valutare più le (possibili) coalizioni di governo che quelle elettorali. Il quinto e ultimo: discernere la complessità del voto, contro le semplificazioni del gentismo (populismo).
Se i cinque criteri non risparmiano critiche implicite alle liste ritenute populiste (M5s, Lega e Fratelli d’Italia), le tre “illusioni ottiche” investono tutti. Eccole: “La prima è credere che il centro-destra sia coalizzato e unito; la seconda è pensare che il M5s sia omogeneo e compatto; la terza è che la sinistra sia moderna dopo la frammentazione interna e la re-introduzione del sistema proporzionale”.
Una volta terminati questi esercizi civici per il voto non resterà che una sola opzione: “Una coalizione di coesione sociale sostenuta dall’area moderata di larghe intese, che garantirebbe anche una cultura istituzionale e più sovranità europea”. Una coalizione in cui i leader Renzi e Berlusconi sarebbero i garanti ma non i protagonisti. Ergo, per Palazzo Chigi non resta che un Gentiloni bis, più “largo” dell’attuale.

Il Fatto 5.2.18
La Madia copiò, ma (ri)annuncia querele
Di nuovo - La ministra dice che farà causa perché abbiamo rivelato come ha scritto la sua tesi di dottorato
di Stefano Feltri


Il ministro della Funzione pubblica Marianna Madia (Pd) annuncia, per la seconda volta in un anno, una “azione legale di risarcimento danni” perché Il Fatto “insiste” nonostante “Imt di Lucca e Cambridge Journal of Economics abbiamo accertato la totale regolarità formale e sostanziale della tesi e degli articoli scientifici”.
Sì, Il Fatto insiste: a marzo 2017 Laura Margottini ha rivelato che, dall’analisi condotta con software anti-plagio e validata da esperti internazionali, oltre 4000 parole della tesi di dottorato del 2008 sulla flexicurity
dell’allora deputata Pd Marianna Madia risultavano prese da lavori di altri senza adeguate citazioni. Poi abbiamo scoperto che dell’esperimento di economia comportamentale al centro della ricerca non esiste traccia: l’università olandese di Tilburg dove la Madia dice di averlo condotto non l’ha mai vista.
Dopo gli articoli del Fatto, l’Imt di Lucca dove la Madia ha conseguito il dottorato ha avviato un’indagine interna. Poiché nessun professore era in grado di valutare la tesi (bizzarro per una scuola di “alti studi”), l’Imt si è affidato a una società esterna, Resis. La società aveva appena avuto un appalto da 40.000 euro senza gara dall’Imt per corsi e attività sul tema dell’etica scientifica, ma pure la perizia indulgente firmata da Enrico Bucci (un biologo digiuno di economia) rivelata ieri dal Fatto riconosce che la Madia riporta lavori di altri senza citare e omette che un terzo della tesi lo ha scritto con una sua collega. Resis glissa completamente sull’esperimento fantasma – il punto più imbarazzante – e assolve la Madia con una motivazione che dovrebbe far indignare i veri economisti che finora sono stati, con rare eccezioni, pavidi e omertosi sul caso: “Sebbene questo risulti sorprendente anche per chi scrive, a valle della presente analisi è evidente che il settore disciplinare all’interno del quale la tesi si situa tollera comportamenti che altrove sarebbero inaccettabili senza che questo costituisca un particolare problema”. Questi i fatti.
Se al Cambridge Journal, dove è apparso il capitolo 2 della tesi (con la firma della co-autrice prima rimossa) va bene pubblicare articoli scientifici di questo livello è affar suo, ognuno fa ciò che crede della propria credibilità. E se l’Imt di Lucca protegge la sua allieva più illustre con argomenti che dovrebbero far scappare qualunque studente con un minimo di amor proprio è scelta discutibile ma legittima. Ma è bene che gli elettori cui la Madia chiede la rielezione, nel collegio di Roma2 e nelle liste del Pd al proporzionale, abbiano chiaro il quadro. Un ministro ha ottenuto un dottorato che le permette di avere una carriera accademica in questo modo. E quando un giornale lo scopre, anche grazie alla “legge Madia” sull’accesso agli atti, invece che dimettersi come fanno i ministri nei Paesi in cui ai politici è richiesta un’integrità almeno analoga a quella del cittadino medio, minaccia azioni legali per intimidire.
E voi economisti, se tacete perché davvero “così fan tutti”, non osate mai più farci prediche dalle colonne dei grandi giornali sulla meritocrazia e la competenza che i politici devono dimostrare per essere degni del loro incarico.

Il Fatto 5.2.18
L’ascensore sociale è bloccato perchè non abbiamo fiducia
La Banca d’Italia ha dimostrato che a Firenze redditi e patrimoni sono ancora distribuiti come nel 1427. Federico Fubini ha indagato le cause dell’immobilismo: nelle zone più arretrate nessuno si fida degli altri
di Stefano Feltri

   
Altro che “populismo”. La parola che spiega la politica di questi anni è “elefante”. Nel senso del grafico che prima o poi frutterà il Nobel all’economista Branko Milanovic: una curva che indica quali individui hanno beneficiato della crescita tra il 1988 e il 2008. È andato tutto ai già ricchi, il top 1 per cento, e alla nascente classe media asiatica. Zero alla classe media occidentale, quella che oggi vota Donald Trump, Lega, Cinque Stelle, o si astiene. Si è ridotta la disuguaglianza tra Paesi, è aumentata quella all’interno di ciascun Stato.
Molti economisti hanno analizzato questo fenomeno, pochi hanno spiegato quali sono le conseguenze e perché dobbiamo preoccuparci di vivere in quello che l’economista Thomas Piketty definisce un “capitalismo patrimoniale”, dove a fare la differenza sono le ricchezze ereditate più che le competenze. Federico Fubini, vice direttore del Corriere della Sera, ha scritto un singolare libro, La maestra e la camorrista (Mondadori), per indagare la persistenza della disuguaglianza e le sue conseguenze, con esperimenti di economia comportamentale e inchieste sul campo per spiegare “perché in Italia resti quello che nasci”. Le conclusioni a cui arriva offrono una griglia utile a valutare le proposte dei partiti in queste settimane.
Fubini parte da un lavoro di Guglielmo Barone e Sauro Mocetti per la Banca d’Italia: i due economisti hanno trovato i dati per confrontare i redditi dei fiorentini del 2011 con i loro antenati del 1427 che avevano comunicato molte informazioni in un censimento, incrociando i cognomi. La letteratura accademica sul tema prevede che vantaggi e svantaggi derivanti dalla famiglia di appartenenza svaniscono nel giro di qualche generazione. I ricercatori della Banca d’Italia scoprono invece che a Firenze resistono per sei secoli e che un “pavimento di cristallo” impedisce a chi discende da famiglie benestanti del Quattrocento di cadere troppo in basso, mentre chi era artigiano nel 1427 ha generato una dinastia di artigiani. Fubini scova un certo Fabio Mannucci, restauratore, che pare discendere da Manno Mannucci, artigiano del legno: entrambi, a 600 anni di distanza, stanno nel quarantottesimo percentile, nella parte bassa del ceto medio.
Capire le cause e gli effetti di questa palude sociale è complesso. Fubini offre una sua chiave di interpretazione: quello che differisce tra chi sta sopra e chi sta sotto è la fiducia, la disponibilità alla cooperazione. Fubini sottopone dei questionari a studenti tra i 16 e i 18 anni di Mondragone, a Caserta, il Comune con più omicidi di mafia. Chiede di rispondere alle stesse domande a studenti d’eccellenza del collegio Ghisleri di Pavia e ai soci junior dell’Aspen Institute. I giovani campani danno un punteggio di 8,1 al principio “non fidarsi mai degli altri”. Al Ghisleri 4,3, idem all’Aspen. Le differenze si vedono anche nelle aspettative: i ragazzi di Mondragone pensano di essere “più forti degli altri” in percentuali maggiori dei loro coetanei d’élite, ma hanno meno fiducia nelle loro possibilità di realizzare le proprie ambizioni. Questa diffidenza si sviluppa quasi subito: Fubini la riscontra anche in bambini piccoli, sotto i cinque anni. Chi ha famiglie ai margini dell’illegalità o viene da contesti criminali non riesce a fidarsi, di fronte al dilemma se avere oggi cinque carte dei Pokemon da un altro bambino o dieci domani preferisce sempre l’uovo alla gallina. E di fronte a un ovetto Kinder non riesce a trattenersi dall’aprirlo anche se gliene sono stati promessi due se resiste per 15 minuti. Chi non si fida non rischia tempo, energie e denaro su investimenti di cui dovrebbe incassare il risultato dal resto della comunità negli anni a venire. Perché prendere una laurea se tanto il destino già segnato? Se pensi che l’ascensore sociale sia fuori servizio, neppure premi il bottone di chiamata.
Il risultato di questa inchiesta può spingere aa rassegnarsi alle conclusioni di Piketty: la disuguaglianza si auto-alimenta per le dinamiche strutturali del capitalismo, si è ridotta solo grazie a eventi traumatici come la seconda guerra mondiale, grande livella. Fubini suggerisce alcuni rimedi meno sanguinosi: investire molto sull’istruzione, soprattutto nelle politiche che riguardano chi è ai margini: alzare l’obbligo scolastico da 16 a 18 anni, portare (come ha fatto lo stesso Fubini) persone con storie di emancipazione e successo a raccontare le proprie vite agli studenti di aree disagiate, dare borse di studio per l’università. Rimettere una vera imposta di successione e cancellare il valore del titolo di studio per togliere illusioni pericolose (e successive frustrazioni) sul valore intrinseco del “pezzo di carta”.
Invece che dare una risposta a queste questioni, un po’ tutti i partiti chiedono il voto con una logica novecentesca: più spesa pubblica per quasi tutti (Pd, M5S, Liberi e Uguali) o meno tasse per tutti ma soprattutto per i ricchi (centrodestra). Il tratto comune tra i programmi è che tendono ad aspettarsi da tutti gli italiani le stesse reazioni di fronte ai medesimi stimoli: dai più soldi o più servizi all’elettore e quello starà meglio. L’inchiesta di Fubini dimostra che non è così semplice. E che distribuire risorse, anche con le migliori intenzioni, senza considerare le radici profonde dei problemi che si vogliono affrontare rischia di essere soltanto una pericolosa forma di spreco.

Repubblica 5.2.18
L’arsenale
Le piccole atomiche del Pentagono preoccupano l’Italia
di Stefania Maurizi


Di che cosa stiamo parlando
Due giorni fa il Pentagono ha pubblicato il documento di “Revisione della Posizione Nucleare”: si tratta della prima riforma della dottrina nucleare degli Usa dal 2010. Nel documento sono illustrate le strategie americane per fronteggiare le minacce nucleari nei prossimi decenni.
Cuore del progetto è lo sviluppo di armi atomiche di misura ridotta, che avrebbero un maggior effetto di deterrenza sulla Russia e sulla Corea del Nord perché di più rapido impiego. Il cambio di strategia può riguardare anche gli armamenti statunitensi che si trovano in Europa e in Italia.
La Nuclear Posture Review, con cui l’Amministrazione Trump ha definito la sua politica in materia di armi nucleari, suscita reazioni e preoccupazioni tra gli esperti. L’Italia è il Paese europeo che ha il maggior numero di atomiche Usa sul proprio territorio e l’unico ad avere due basi nucleari: Aviano e Ghedi. Con la nuova dottrina Trump e con l’acquisto degli F35 con capacità nucleare, come cambiano le cose? A spiegare a Repubblica che cosa accadrà è l’americano Hans Kristensen, autorità
in materia di armi nucleari americane in Europa e direttore del
Nuclear Information Project della Federation of American Scientists.
« Al momento, le mie stime mi portano a valutare che il numero di ordigni sul territorio italiano sia sceso intorno a 50 atomiche: 20 a Ghedi e 25- 30 ad Aviano » , analizza Kristensen, spiegando che « la Nuclear Posture Review non cambierà questi numeri, ma si parla di incrementare, quando ce ne sarà bisogno, la loro prontezza, efficacia e capacità di resistere sul campo » . Fino a quattro anni fa, Kristensen stimava che in Italia fossero stoccate 70 atomiche di due tipi: la B61- 3, che ha una potenza tra 0,3 e 170 kiloton - l’atomica di Hiroshima, che fece circa 200mila morti, aveva una potenza intorno ai 15 kiloton - e la B61-4, con potenza tra 0,30 e 50 kiloton. Si tratta, dunque, di due ordigni nucleari che possono avere un “ low- yield”, ovvero quella bassa potenza che tanto fa discutere gli esperti: la dottrina Trump punta alla costruzione di atomiche “piccole”, che però rischiano di essere più pericolose delle grandi. Può sembrare paradossale, ma per questi armamenti vale il principio “ less is more”: più le atomiche hanno una distruttività limitata più c’è il rischio che siano usate in combattimento, abbattendo per la prima volta il tabù nucleare, una regola che ha fatto sì che, dopo Hiroshima e Nagasaki, l’atomica non fosse mai più usata nei conflitti, ma fosse impiegata solo come deterrente.
Le B61- 3 e B61- 4 che oggi si trovano ad Aviano e Ghedi saranno rimpiazzate con la nuova bomba B61-12, che entrerà in produzione nel 2020 e sarà stoccata nelle basi europee intorno al 2024. Si tratta di un’arma con una potenza che può variare da 0,3 fino a 50 kiloton e che può essere disponibile in una versione “ piccola”. Gli esperti nucleari non capiscono quale possa essere la logica dell’Amministrazione Trump nel puntare a costruire nuovi ordigni di potenza limitata, dal momento che negli immensi arsenali Usa ce ne sono già mille esemplari disponibili. « La Nuclear Posture Review chiede un massiccio investimento nel ricostruire l’arsenale nucleare americano al prezzo di 1.200 miliardi di dollari», scrive la prestigiosa rivista di controllo degli armamenti Bulletin of the Atomic Scientists.
Kristensen crede che il fatto che Trump «proponga di sviluppare un missile nucleare Cruise lanciato dal mare suggerisce che gli Usa non vedano le bombe atomiche presenti in Europa come molto utili».
Quanto al passaggio dell’Italia ai nuovi caccia F35 capaci di lanciare ordigni atomici, Hans Kristensen fa notare che questa scelta non comporterà alcun cambiamento: «L’Italia passerà dai Tornado agli F35, per le missioni nucleari, ma questo era noto da tempo».

Repubblica 5.2.18
Italia e Ue
Il primo passo per riunire la sinistra
di Roberto Esposito


Una cosa è certa: qualunque sia l’esito del confronto elettorale in atto, a partire dal 5 marzo occorrerà riaprire un cantiere per riaggregare i pezzi, adesso divisi, della sinistra italiana. L’alternativa è la sua eclissi definitiva, con la parte maggioritaria confluita in una galassia centrista senza anima né progetto e l’altra, minoritaria, condannata all’irrilevanza. Se poi, nell’impossibilità di formare un governo, si andasse a nuove elezioni, con questa o un’altra legge elettorale, le cose non cambierebbero. L’unica chance di ritornare in gioco per il centrosinistra passa per la ricostituzione di un campo politico unitario. Ma come? Come ricomporre il puzzle di un mosaico oggi scomposto in frammenti che sembrano respingersi? Da dove partire per contrastare una diaspora che può portare a una sconfitta storica?
Certo, si può stringere un’alleanza temporanea su singoli temi. Ma dubito che sarebbe sufficiente a superare una stagione di scontri frontali e fratture personali profonde. L’unica possibilità di lasciarsele alle spalle è un cambio di passo che dia il senso di una svolta.
Non solo di programma, ma anche di progetto. Si tratta di collocarsi nell’unico orizzonte in cui si giocheranno in futuro le battaglie che contano: quello europeo.
L’ambito europeo è il solo terreno su cui i due tronconi della sinistra possono tornare a parlarsi, perché non è prerogativa di nessuno. È l’unico spazio neutrale in cui possono, almeno sulla carta, confrontarsi. Un’iniziativa è già in atto e sarà resa pubblica il 14 marzo. Il Movimento europeo, presieduto per la sezione italiana da Pier Virgilio Dastoli, già assistente di Altiero Spinelli, ha proposto di sottoscrivere un Patto dell’Italia nell’Ue già firmato da intellettuali e candidati dei partiti della sinistra (+Europa, Insieme, Pd e Leu). Si tratta del primo passo verso una ricomposizione, che può nello stesso tempo stimolarla e prepararla. Delinea il quadro di una convergenza oggi impossibile, ma necessaria tra un mese.
Ciò su cui chiede di impegnarsi, a prescindere dall’attuale collocazione partitica, è il profilo di un’Europa politica, accentrato su tre questioni dirimenti. In primo luogo i diritti dei cittadini europei e di coloro che possono legittimamente diventare tali, con la conseguente sanzione per i Paesi che si sottraggono al dovere di un’accoglienza ordinata e condivisa.
Naturalmente in un quadro di sicurezza garantito da una progressiva integrazione delle forze militari e del sistema penale dei vari Stati.
In secondo luogo la creazione di un vero Welfare europeo, in grado di ridurre le disuguaglianze tra e nei Paesi dell’Unione. Ciò è possibile adottando un bilancio pluriannuale che preveda prestiti e mutui per investimenti di lunga durata. In terzo luogo la creazione di una cittadinanza europea, attraverso l’introduzione di liste transnazionali per l’elezione nel prossimo Parlamento europeo e l’avvio di una fase costituente.
A questo fine si propone di eleggere nella primavera del 2019 un Congresso con il mandato di redigere la Legge fondamentale della futura Comunità federale, da approvare attraverso un referendum paneuropeo. Mi pare ci sia di che superare gli eterni litigi della sinistra italiana.
Roberto Esposito, filosofo, insegna Filosofia teoretica alla Scuola Normale Superiore di Pisa. Il suo ultimo libro è “Da fuori. Una filosofia per l’Europa” (Einaudi, 2016)

Repubblica 5.2.18
Nuclear Posture Review
La Cina reagisce alla dottrina Trump: mentalità da Guerra fredda
di Anna Lombardi


New York «Washington dovrebbe smetterla di perseverare in una mentalità da Guerra fredda». La risposta cinese alla nuova dottrina nucleare di Trump non si è fatta attendere e permette al Dragone di ergersi a difensore della pace affermando che Pechino « in nessuna circostanza userà o minaccerà l’uso di armi nucleari contro paesi non nucleari o liberi da armi nucleari » . La Cina contesta l’Npr, dunque, sigla che sta per Nuclear Posture Review, il documento che annuncia l’intenzione di sviluppare testate a basso potenziale, devastanti ma non catastrofiche, per un approccio «flessibile e su misura».
Il documento indica, assieme alla Russia, l’amico- nemico cinese come potenziale avversario degli interessi americani in Asia. Sì, perché in realtà President Trump e Xi Jinping, malgrado le minacce di The Donald in campagna elettorale , non si erano mai scontrati apertamente. La volontà di coinvolgere Pechino nel contenimento di Kim Jong- un aveva avuto finora la meglio. Ad aprile scorso si erano incontrati in Florida per poi rivedersi a Pechino a novembre.
Qualche scintilla, a dire il vero, si era vista anche allora, ma mai si era arrivati a discutere apertamente di questi temi. « Le nostre attività atomiche sono solo difensive» lamenta ora il portavoce del ministero degli Esteri Ren Guoqiang, che ha invitato gli Usa ad abbandonare la «mentalità da Guerra fredda».

La Stampa 5.2.18
Abu Mazen all’Onu
“Riconoscete la Palestina”
di Giordano Stabile


I palestinesi puntano a tagliare ogni rapporto con Israele, anche sulla sicurezza e le finanze, e a farsi riconoscere come Stato indipendente dal Consiglio di sicurezza dell’Onu. Anche se al Palazzo di Vetro sono destinati a scontrarsi con il veto degli Stati Uniti, il documento emerso nella notte fra sabato e domenica, in una riunione tesa e interminabile del Comitato esecutivo dell’Olp, mostra la volontà di «bruciarsi i vascelli alle spalle» e tentare il tutto per tutto.
Il patto di Oslo del 1993 è stato svuotato dopo la crisi seguita al riconoscimento da parte del presidente americano Donald Trump di Gerusalemme come capitale dello Stato ebraico. La dirigenza palestinese è esausta dopo un quarto di secolo di colloqui senza risultati, indebolita dalla corruzione e gli scandali interni, e dalla lotta contro il movimento islamista di Hamas. Vede nella rottura dello status quo di Oslo l’unica strada per sopravvivere e tenere viva la speranza di arrivare all’indipendenza «all’interno dei confini del 1967», quindi con Gerusalemme Est inclusa.
Dopo aver congelato il riconoscimento di Israele, l’Olp ora si prepara al ritiro anche dal Protocollo di Parigi del 1994, che regola le finanze e la gestione della sicurezza nei Territori passati sotto controllo parziale o totale dei palestinesi. In base al protocollo è Israele a raccogliere tasse e dazi doganali per poi girarli ogni mese all’Autorità nazionale palestinese. Il controllo del territorio è gestito invece, nelle aree A e B, in stretta coordinazione con le forze di sicurezza israeliane, compresa quella fra i servizi segreti. È questo ultimo punto a esercitare la maggiore pressione sullo Stato ebraico, perché senza la collaborazione dei servizi palestinesi la lotta ai gruppi islamisti che si sono infiltrati nei Territori sarà molto più difficile.
Ma è all’Onu che sarà la vera battaglia. Abu Mazen ha chiesto un mese fa l’appoggio dell’Unione europea nella sua visita a Bruxelles. L’Ue si è discostata dalla linea americana, su Gerusalemme, ma in un voto al Consiglio di Sicurezza i palestinesi sono comunque destinati a perdere. La volontà sembra soprattutto quella di innescare un cambio nell’opinione pubblica e nella politica israeliana. Un piccolo segnale l’hanno ottenuto da parte del nuovo leader dei laburisti, Avi Gabbay, che ha parlato per la prima volta di un possibile «ritiro unilaterale» di Israele dai Territori se la situazione dovesse diventare ingestibile.

Corriere 5.2.18
Diffido dell’istruzione
di Alessandro D’Avenia


«Caro professore, sono un sopravvissuto di un campo di concentramento. Ho visto ciò che nessuno dovrebbe vedere: camere a gas costruite da ingegneri istruiti, bambini avvelenati da medici ben formati, lattanti uccisi da infermiere provette, donne e bambini uccisi e bruciati da diplomati e laureati. Diffido – quindi – dell’istruzione. Aiutate i vostri allievi a diventare esseri umani. I vostri sforzi non devono mai produrre dei mostri formati, degli psicopatici qualificati, degli Eichmann istruiti. La lettura, la scrittura, l’aritmetica non sono importanti se non servono a rendere i nostri figli più umani». Fu il compianto dirigente della mia scuola, qualche anno fa, a condividere questa lettera apparsa su Le Monde in un pezzo della scrittrice Annick Cojean. L’occasione era il Giorno della Memoria, ricorrenza sterile se non ricorda un fatto che il XX secolo ha inciso nella storia a caratteri di sangue: non basta essere istruiti per essere umani.
Il divorzio tra istruzione ed educazione è uno dei mali peggiori della scuola, frutto del luogo comune secondo cui esisterebbe un’istruzione neutra. Invece sempre si educa mentre si istruisce, perché la prima comunicazione è quella dell’essere, e solo dopo arrivano le parole, altrimenti non sarebbe necessaria la relazione viva con i ragazzi, ma basterebbe caricare le lezioni sulla rete. In senso stretto non esiste insegnamento in differita , ma solo in diretta .
Insegnare è una branca della drammaturgia. È l’essere dell’insegnante che genera la conoscenza, perché apre la via al desiderio dello studente, che scorge nel docente una vita più viva e libera grazie alla cultura e al lavoro ben fatto, e la vuole anche per sé. Lo ricordava con precisione il Nobel Canetti nella sua autobiografia: «Ogni cosa che ho imparato dalla viva voce dei miei insegnanti ha conservato la fisionomia di colui che me l’ha spiegata e nel ricordo è rimasta legata alla sua immagine . È questa la prima vera scuola di conoscenza dell’uomo». Le nozioni più raffinate da sole non rendono umani, tutto dipende da come gli insegnanti si relazionano tra loro e con i ragazzi, perché, prima delle nozioni, sono le relazioni a essere generative dell’io e del sapere. È nella relazione che si impara a sentire il valore del sé come destinatario del dono del sapere. Quali insegnanti siete tornati a ringraziare e per cosa? Per la lezione sulle leggi della termodinamica e su Leopardi, o per come vivevano e offrivano la termodinamica e Leopardi proprio a voi?
Qualche tempo fa mi scriveva uno studente: «Le racconto due esperienze. La prima: la faccia polverosa della scuola. Un professore, che aveva esordito in prima liceo con “siete troppi: vi ridurremo”, pochi giorni fa ha condensato l’amore per il suo lavoro in questa frase: “Un insegnante non deve avere cuore, deve avere un cuore di pietra... altrimenti farà preferenze”. Uno scherzo, pensavamo. Un mio compagno ribatte: “Ma no, prof! Un insegnante deve avere un cuore talmente grande da non fare nessuna preferenza!”. “No, no: un cuore di pietra”. Parlava seriamente. La seconda: la faccia luminosa della scuola. Quest’anno ho scoperto la poesia grazie al gesto straordinario di un ordinario professore di filosofia, che un giorno ci ha parlato della sua giovinezza e di come la poesia ai tempi occupasse la sua vita e impegnasse la sua fantasia. Interessato anche io dal momento che non avevo letto nessun grande poeta ho chiesto un consiglio. Il giorno seguente lo vedo estrarre dalla sua ventiquattrore un libricino invecchiato. Viene verso di me. “Questo è per te”. Mi ha regalato una delle sue copie di Elegie duinesi , di R.M. Rilke, il suo libro di poesia preferito. Il libro della sua giovinezza!».
La differenza tra le due impostazioni è proprio quella che corre tra chi si illude si possano separare istruzione ed educazione e chi invece le tiene naturalmente unite. Nel primo caso si pensa che il docente sia un distributore di nozioni, nel secondo la didattica è conseguenza della relazione. Il primo professore educa all’insensibilità di cuore, a non sentire l’unicità del tu, il secondo rende Rilke interessante prima di averne letta una riga. Il nesso che tiene unite istruzione ed educazione è nella realtà, e nessuna presa di posizione teorica le può nei fatti separare. L’elemento che fa sì che educazione e istruzione siano in efficace armonia è l’amore. Niente di sentimentale: l’amore è una presa di posizione nei confronti della realtà e ne permette la conoscenza, perché ne coglie il valore ancora potenziale da portare a compimento con l’impegno personale. Non si può aumentare la conoscenza di qualcosa senza che prima aumenti l’interesse nei confronti del soggetto in questione (vale per l’amicizia come per la chimica). L’amore genera conoscenza e la conoscenza ampliata rinnova l’amore: se il docente non «erotizza» la materia, la materia per quanto ben conosciuta resta inerte, come spiega Massimo Recalcati. Non esistono cose poco «interessanti», ma uomini e donne poco «interessati», perché le emozioni (la neurobiologia qui ci conforta) sono le guide che aprono la strada allo sviluppo cognitivo. Solo così gli studenti diventano soggetti di possibilità e non oggetti al peggio da ridurre o al meglio da riempire. È questa la rivoluzione copernicana chiesta a ogni docente: non sono gli alunni a ruotare attorno a lui ma il contrario. Un professore — il letto da rifare oggi lo suggerisce lo studente della lettera — è chiamato ad avere un cuore tale da non far preferenze perché preferisce tutti e ciascuno diversamente: sfida difficilissima (quanti errori, quante gioie...) ma decisiva.
È la stessa sfida narrata da Ovidio, nelle sue Metamorfosi , a proposito del mito di Pigmalione. Uno scultore che, deluso da tutte le donne, si innamora della donna ideale che ha scolpito nel marmo. Il suo trasporto è tale che gli dei trasformano la statua in una donna in carne e ossa. Il mito viene usato per descrivere lo sguardo educativo, il cosiddetto effetto-Pigmalione, per il quale se un docente (ma vale per ogni educatore) guarda un alunno convinto che farà bene, genererà in lui una fiducia in sé tale che, nella quasi totalità dei casi, anche a fronte di un’inadeguata disposizione iniziale, otterrà risultati positivi. L’effetto vale anche in negativo: se sono convinto che non vali, l’effetto sui risultati sarà coerente, anche a fronte di buone capacità. Lo sguardo educante non è mai neutro ma sempre profetico, nel bene e nel male. Ne abbiamo conferma quotidiana nel bambino che, appena caduto, si volge verso i genitori: se si mostrano allarmati ne provocano il pianto, se sorridenti il sorriso, quasi che il dolore, pur oggettivo, venga trasformato nello e dallo sguardo.
I ragazzi non hanno bisogno di insegnanti amiconi né aguzzini, ma di uomini e donne capaci di guardarli come amabili soggetti di inedite possibilità a cui non fare sconti. E non è questione di missione o di poteri magici, ma di professionalità. Per questo l’appello è il momento chiave della giornata scolastica: segna il tono della relazione e fa sì che ognuno senta su di sé lo sguardo profetico che spinge a far bene come conseguenza dell’ esser bene . Il contrario del «siete troppi, vi ridurremo», sterile autoritarismo, è il fecondo «sei unico, ti aumenterò». La parola autorità viene da augeo (aumentare): la esercita non chi ha il cuore molle o sprezzante, ma chi si impegna ad aumentare la vita che ha di fronte, per quanto fragile, difficile, resistente possa sembrare. Questa è l’istruzione di cui non diffido, perché ispirata da un umanesimo maturo, l’umanesimo dell’altro uomo, come lo chiama il filosofo Lévinas, che fa del tu il cuore dell’etica e smaschera il falso umanesimo dell’istruito incapace di sentire il tu, tanto da distruggerlo proprio attraverso l’istruzione.
Non è facile però essere educatore in un sistema scolastico che asfissia di burocrazia e svilisce la dignità sociale ed economica, e in un contesto culturale che spesso attacca dall’alto (genitori) e dal basso (studenti). Ma questi elementi possono anche diventare scuse per non fare ciò che è alla portata di un uomo libero: prendersi cura di chi gli viene affidato. Soltanto così diventiamo pigmalioni di ragazzi dal cuore caldo e la testa fredda, a fronte del dilagare, tra gli adulti prima che tra i giovani, di teste calde e cuori freddi.

Corriere 5.2.18
Berlino archivia i giorni del Muro
di Paolo Valentino


A mezzanotte di oggi saranno passati 10.315 giorni dal 9 novembre 1989, quando Berlino tornò a essere una città unita. A partire da domani saranno di più i giorni trascorsi senza il Muro.
«Quanto Muro avete ancora nella testa?», chiedeva ieri a tutta pagina la BZ. È un giorno speciale, questo 5 febbraio, per la capitale tedesca. A mezzanotte di oggi saranno passati 10315 giorni da quel 9 novembre 1989, quando una semplice parola, unverzueglich , immediatamente, di Guenther Schabowski, portavoce del governo della Ddr, aprì come una formula magica lungamente attesa i varchi del Muro di Berlino, innescandone il crollo. Ma quei 28 anni, 2 mesi e 26 giorni sono lo stesso, identico periodo in cui la barriera della vergogna era rimasta in piedi. Detto altrimenti, a partire da domani la città che visse due volte avrà trascorso più tempo senza il Muro che all’ombra di esso.
È il Zirkeltags , celebrato con mostre e rassegne, ricordato da tutti i media con commenti e testimonianze, occasione per riflettere su due momenti della recente storia tedesca, che in modo opposto hanno avuto il loro comune riferimento in quella divisione artificiale, che fu potente simbolo del suo tempo, la polarizzazione del mondo dopo la Seconda Guerra Mondiale.
Come sono cambiate Berlino e la Germania dalla notte in cui i fratelli separati varcarono il Check Point Charlie a bordo delle loro Trabant o attraversarono a piedi il passaggio della Bornholmerstrasse, accolti dagli applausi dei berlinesi dell’Ovest? Si è avverata la profezia di Willy Brandt, secondo il quale «ora può crescere insieme ciò che si appartiene insieme»?
È una risposta complessa, ricca di luci e ombre. Mentre nella trattativa sulla Grosse Koalition, Cdu-Csu e Spd discutono l’ipotesi di eliminare in parte la «Solidaritaetzuschlag», la tassa sui contribuenti dell’Ovest che è servita a finanziare la riunificazione, come se il problema della rinascita dell’Est fosse stato risolto, nuovi studi e ricerche rivelano che la strada è ancora lunga: «Sia nei patrimoni, nel tasso di disoccupazione, nello sviluppo della popolazione o nella religione, i vecchi confini tra la Repubblica Federale e la Ddr sono ancora evidenti: ci vorrà ancora una generazione perché Est e Ovest crescano veramente insieme», dice Reiner Klingholz, direttore dell’Istituto per la popolazione e lo sviluppo.
E non è solo il reddito medio lordo mensile, intorno ai 3600 euro nei Land occidentali e a circa 2700 in quelli dell’Est. O i pensionati dell’Ovest, che hanno in media il 30% in più di pensione dei loro pari età dell’Est. O ancora la disoccupazione, appena poco sopra il 5% a Ovest e quasi all’8% a Est.
Qualcosa di più profondo separa ancora le due metà della Germania, nonostante i passi da gigante compiuti in questi 28 anni. Il calcio, per esempio, passione totale dei tedeschi e pilastro dell’identità post-bellica, che nei trionfi della nazionale ritrovò orgoglio e fiducia: tre decenni dopo la caduta del Muro, solo una squadra dell’Est, il Lipsia, milita nella Bundesliga, la serie A tedesca.
Certo non è più il tempo del Muro nelle camere da letto, che nel 1999 vedeva appena 348 degli oltre 15 mila matrimoni celebrati al Comune di Berlino, contratti tra una persona dell’Est e una dell’Ovest. Oggi questa statistica non esiste più, ma secondo lo studio di Klingholz solo 1 matrimonio su 10 è, diciamo così, una unione Est-Ovest. Un livello piuttosto basso di «integrazione sentimentale», aggravato tra l’altro da un’alta percentuale di divorzi registrata in questo tipo di coppie.
«Quando la sera esco, so subito chi viene dall’Ovest e chi dall’Est», racconta Nancy Petermann, 26 anni, nata nel quartiere orientale di Koepenick due anni dopo la caduta del Muro. «I Wessi sono più sfacciati e vestono sempre con brand costosi. Gli Ossi sono più timidi e non badano molto all’apparenza». Basta andare a un concerto di musica classica in una delle sale della parte orientale per rendersene conto di persona.
Le percezioni reciproche raccontano molto. Il 34% dei tedeschi dell’Est considera quelli dell’Ovest arroganti e presuntuosi. Mentre la metà degli orientali pensa che ci siano profonde differenze di mentalità con i loro connazionali dell’Ovest. Pensiero ricambiato dal 53% dei tedeschi occidentali.
Significativo è che la transumanza sia stata a senso unico o quasi. Ben 2 milioni di persone hanno lasciato i Land della ex Ddr dal 1989 per andare a Ovest. In senso opposto si registrano poche decine di migliaia di casi.
Anche nella scelta delle vacanze, non c’è unità in Germania. Sono i Wessi infatti a privilegiare soprattutto l’estero, Italia e Spagna in primis. Ma quasi la metà degli Ossi preferisce rilassarsi in Germania, meglio se sul Mare del Nord.
Eppure l’ottimismo è di rigore. Nella città senza ombre che sembra non volersi fermare mai, il 62% degli abitanti è sicuro che le differenze di mentalità tra Est e Ovest sono destinate prima o poi a sparire. Proprio come il Muro.

Corriere 5.2.18
Montale dal vero, l’incontro felice
Amici in redazione, ma Giulio Nascimbeni raccontò il poeta dandogli del «lei»
di Marzio Breda


C’è anche lui nella casa milanese di Eugenio Montale, al terzo piano di via Bigli 15, quando l’ambasciatore di Svezia telefona per annunciare al poeta che gli è stato assegnato il Nobel. Nel suo racconto c’è tutto, di quel 23 ottobre 1975. Lo scambio di frasi imbarazzate con il diplomatico, « Oui, monsieur… merci… je suis très heureux …», e la confusione dei cronisti già alla porta. Il pallore e lo sgomento del premiato che chiede alla governante, la Gina, il tempo di una sigaretta — e mentre l’accende le dita gli tremano — prima di sedersi a tavola per un piatto di riso all’olio e polpette con l’insalata. E la sua impazienza davanti ai continui trilli telefonici, con richieste di dichiarazioni. Per cui sbuffa: «Dovrei dire cose solenni, immagino, ma come si fa a dire cose non banali? Mi viene un dubbio: nella vita trionfano gli imbecilli. Lo sono anch’io?». Infine arriva un telegramma di Riccardo Bacchelli, che era stato anch’egli più volte candidato dall’accademia svedese: «Mi hai fregato!», legge a voce alta, con un sorriso sfuggente.
Solo una persona con le qualità di Giulio Nascimbeni poteva ricostruire con frammenti così rivelatori la giornata più memorabile di Montale. Solo un giornalista con il suo equilibrio, la sua acuta sensibilità e finezza intellettuale era in grado di rompere, senza invadenze, la riservatezza di un uomo chiuso e pieno di fisime e idiosincrasie come l’autore degli Ossi di seppia e delle Occasioni .
Quello, del resto, fu un momento indimenticabile anche per lui. Perché avrebbe dovuto rimettere mano alla biografia del poeta che aveva già pubblicato nel 1969, il che significava nuovi e lunghi colloqui. «Una fortuna», spiegava. Chissà se, dicendo questo, aveva in mente la dedizione e le facoltà critiche con cui Johann-Peter Eckermann si era accostato a Goethe per delle «conversazioni» che, fin dal 1836, si sarebbero imposte come un modello letterario. «Il miglior libro tedesco che sia mai stato scritto», si spinse a definirlo Nietzsche.
Senza azzardare analoghe iperboli, è un fatto che Gianfranco Contini, sempre avaro di lodi, si fosse dichiarato entusiasta del ritratto montaliano composto da Nascimbeni. Ed è una curiosa casualità che, a dieci anni dalla scomparsa dell’amatissimo capo della Terza Pagina del «Corriere della Sera» (che con lui fu una scuola di morale professionale) e a 70 anni dall’ingresso del poeta in via Solferino come «redattore», il volume sia oggi riproposto in una nuova edizione.
Scelta opportuna, perché tutto si tiene nel doppio anniversario. Basta scorrerne i capitoli per ritrovarvi lo smalto e la forza evocativa di quando apparve la prima volta, aprendo squarci di luce sulla storia intima di una figura che aveva segnato la nostra cultura del Novecento, fino a diventarne un’icona.
L’amicizia tra i due era nata al giornale e si era consolidata e approfondita in infiniti incontri. Anche a livello familiare, con scambi di visite tra la Toscana e il Veneto. Nascimbeni, che non riuscì mai a dare del tu a «Eusebio» (come Montale era chiamato al giornale) sentendosene sempre intimidito, ebbe il privilegio di «attingere alla testimonianza diretta del personaggio», alla sua biblioteca, alle carte e lettere. Fu così che mise insieme la parabola di una vita incrociandola con una stagione di idee e con l’analisi di com’erano nati certi processi creativi. Un unico vincolo si impose, al momento della stesura: non enfatizzare nulla. In ciò tenendosi fedele al proprio stile e alla richiesta in versi che sembrava concepita apposta per lui dal padrone di casa di via Bigli: «Vissi al 5 per cento, non aumentate/ la dose…».
Altri ricordi, altri segreti sul «secondo mestiere» di Eugenio Montale, che fu il primo di Giulio Nascimbeni: quello di giornalista. Un lavoro nel quale entrambi restano ancora adesso un esempio di rigore, disciplina e umiltà generosa. Il poeta scrive il suo primo articolo sul «Corriere» di Mario Borsa nel 1946, ma è un esordio quasi casuale, una collaborazione che pare senza futuro. Gli è stata offerta la critica teatrale al posto di Renato Simoni, epurato perché cooptato grazie al fascismo fra gli accademici d’Italia. Solo che, con il rapido reintegro di Simoni, quella proposta cade e, tranne qualche recensione, l’attesa di entrare in via Solferino si trascina fino al 30 gennaio 1948. Nel frattempo il direttore è cambiato. C’è Guglielmo Emanuel quando Montale passa per Milano e decide di fargli visita. Lo scopre nervoso e preoccupato. Soprattutto poco empatico e cordiale, anche se Montale è già celebre e circondato da grande prestigio.
Ed ecco il flashback di Nascimbeni. «Sul tavolo del direttore c’era la strisciolina di carta di un flash d’agenzia con la notizia dell’assassinio di Gandhi. “A chi lo facciamo scrivere il pezzo?”, chiese Emanuel a Michele Mottola, il redattore capo. Entrambi si voltarono verso Montale. Il poeta era come rattrappito in un angolo della stanza semibuia. Capiva di essere arrivato al giornale in uno di quei momenti in cui non c’è tempo per i convenevoli, e se ne sentiva in colpa. Emanuel disse: “Me le scriverebbe lei quattro o cinque cartelle su Gandhi?”. Dopo qualche minuto Montale si trovò solo in una stanza davanti a una macchina da scrivere. Era un lentissimo dattilografo: batteva i tasti soltanto con l’indice della mano destra. Ma in due ore l’articolo fu pronto e uscì sul Corriere del 31 gennaio, come apertura della prima pagina. Era intitolato Missione interrotta e non recava né firma né sigla».
Il giorno dopo Montale fu chiamato a firmare il contratto. Coincidenza di rispecchiamenti tra i due: sia lui che Nascimbeni, arrivato in via Solferino 12 anni più tardi, furono scelti con l’esame di un solo «pezzo».

Corriere 5.2.18
Ticket, rimborsi Ma quanto costa una risonanza?
di Milena Gabanellie Simona Ravizza


La spesa sanitaria incide per oltre il 70% sul bilancio delle Regioni, ma siccome la domanda aumenta, la politica del risparmio taglia le prestazioni e aumenta il costo ticket a carico dei pazienti. Ma è possibile che una clinica privata, per una risonanza magnetica, applichi una tariffa 3 volte inferiore a quella che rimborsa la Regione a una clinica convenzionata con il servizio sanitario nazionale, e ci guadagni pure? È possibile.
A conti fatti, mentre gli ospedali pubblici si stanno via via impoverendo, per una struttura sanitaria incassare una convenzione equivale a garantirsi una gallina dalle uova d’oro.
Partiamo dall’inizio: gli italiani fanno oltre 55 milioni di esami l’anno, e la metà delle prestazioni vengono eseguite fuori dagli ospedali e dagli ambulatori pubblici. Il motivo è che il nostro sistema sanitario pubblico, pur essendo uno dei migliori al mondo, da solo non ce la fa, e per abbattere le liste d’attesa e colmare le inefficienze, si appoggia agli imprenditori privati convenzionati — ossia rimborsati con soldi pubblici.
Vediamo quanto esborsa lo Stato, tramite le Regioni, per gli esami più diffusi (risonanze magnetiche muscoloscheletriche, tac del torace, ecografie all’addome completo) e quanto chiedono invece ai cittadini che pagano di tasca propria, i migliori centri privati «non convenzionati». Paragonando questi prezzi si scopre che il risparmio potrebbe arrivare a 100 milioni di euro. Il confronto è a parità di qualità delle attrezzature diagnostiche, di professionalità di personale medico, e di inquadramento contrattuale.
I risparmi possibili
Al Sant’Agostino di Milano, che non lavora con il servizio sanitario, una risonanza magnetica senza contrasto al ginocchio, spalla, mano, anca, piede, costa al cittadino che ha fretta 90 euro. Qual è il rimborso che la Lombardia garantisce ai suoi centri privati convenzionati? 169,97 euro. L’89% in più. Il numero delle prestazioni eseguite in un anno sono 168.514, quindi si potrebbero risparmiare quasi 13.5 milioni. Alla CasaSalute di Genova il costo è di 45 euro, contro i 133,28 pagati dalla Regione Liguria (196,18% in più). La Regione potrebbe quindi spendere 716.850 euro contro 2.1 milioni. Alla Mediclinic di Padova si paga 59 euro contro 188,45 (219,40% in più). Il Veneto potrebbe quindi spendere 6,6 milioni invece di 21,3. Lo stesso discorso vale per le ecografie all’addome completo. Potrebbero essere spesi 38,4 milioni, invece ne vengono sborsati 46,7. Idem per Tac al torace senza contrasto: solo in Liguria e Veneto il risparmio potrebbe essere di 596.532 euro.
Il totale di risparmio possibile, solo per i tre esami, e solo in queste tre Regioni, è di 38,4 milioni. Una cifra che, proiettata su scala nazionale, in base alla popolazione e all’incidenza dei centri privati convenzionati con il servizio sanitario, supera i 100 milioni. Se poi calcoliamo che gli esami ambulatoriali sono di duemila tipi, che per gli esami di laboratorio il costo di produzione oggi è il 50% inferiore a quello che viene rimborsato (perché la tecnologia ha fatto passi avanti, ma le tariffe sono ancora quelle di 15 anni fa), quanto si potrebbe risparmiare dei 4,6 miliardi di euro l’anno che lo Stato rimborsa ai privati convenzionati? Il conto non è semplice, ma forse si può stimare una cifra attorno ai 2 miliardi.
Spreco di soldi pubblici
Insomma: ci sono imprenditori privati puri, che riescono a garantire ai cittadini esami di qualità a un certo prezzo e a guadagnarci. Ma allora perché lo Stato, tramite le Regioni, per quelle stesse prestazioni dà molti più soldi agli altri imprenditori privati convenzionati? Il risultato è una valanga di risorse che potrebbe essere utilizzata per assumere più medici negli ospedali pubblici, e accorciare le liste d’attesa. Un problema legato all’inefficienza, alla mancanza di personale e al fatto che i medici ospedalieri esercitano contemporaneamente la libera professione negli ambulatori privati. Allora pagateli meglio, e fate lavorare le macchine 12 ore al giorno, come fanno nelle strutture private! Ce ne sarebbe anche per fare più prevenzione: attività poco remunerativa, che di fatto il privato in convenzione non fa; mentre il pubblico, sempre più spolpato, sta pian piano dismettendo. Ma come funziona il meccanismo dei rimborsi?
Le ultime tariffe sono state fissate dal decreto ministeriale del 18 ottobre 2012 del governo Monti. Le cifre riportate, però, sono solo indicative: ciascuna Regione le può ritoccare (di solito al rialzo) a suo piacimento in base al titolo V della Costituzione che sancisce l’autonomia regionale in materia sanitaria. Il principio è che gli imprenditori privati convenzionati ricevano lo stesso rimborso di un ospedale pubblico. Il che ci può stare per gli ospedali privati convenzionati che hanno il servizio di Pronto soccorso o curano i tumori. Ovvero quelle strutture che devono erogare un mix di prestazioni non sempre economicamente vantaggiose, e devono possedere requisiti organizzativi equiparati al pubblico. Il problema è che lo stesso principio vale anche per le piccole cliniche e una miriade di centri ambulatoriali convenzionati che fanno risonanze, tac e ecografie, esami del sangue, dalla mattina alla sera, senza offrire nessun altro servizio.
Chi decide sui profitti?
Un meccanismo che non consente di acquistare sul mercato le prestazioni a un prezzo equo e conveniente, ma garantisce enormi profitti a imprenditori privati accreditati, senza gara, con il servizio sanitario. Profitti che poi vengono investiti in attività finanziarie, immobiliari, Spa e Resort. Ma chi ha deciso che la clinica o l’ambulatorio privato accreditato debba incassare quanto un ospedale pubblico? Dentro quali pareti si riuniscono i tavoli tecnici per stabilire «quanto» deve essere rimborsata una prestazione, e in base a quali calcoli? Da chi sono formate queste commissioni, quanti ne capiscono di sanità e chi da le carte?
Gli interessi in gioco sono alti, e rivedere le tariffe, non aggiornate da anni, può soltanto essere una decisione politica. E la politica dovrebbe anche sapere che il grosso, quello che sta determinando una lievitazione della spesa complessiva, e che si può definire «furto legalizzato alle casse pubbliche» senza portare alcun vantaggio ai cittadini, è il doppio binario dei ricoveri. Quali sono gli interventi chirurgici che negli ospedali pubblici si fanno solo nel 15% dei casi, perché valutati inutili se non dannosi, e in quelli privati convenzionati arrivano fino al 99%? A quanto ammontano questi rimborsi? Ampia documentazione nella prossima inchiesta.

Repubblica 5.2.18
Intervista a Cesare Sinatti
“Ragazzi, credetemi i miti aiutano a vivere”
di Raffaella De Santis


ROMA Che siano Zeus o il furioso dio nordico Odino, Afrodite o la fertile dea germanica Eofre, da un po’ di tempo gli dèi pagani imperversano ovunque.
Romanzi, serie tv, saghe fantasy gareggiano in nuove narrazioni dei miti antichi. Gli appassionati seguono su Amazon American Gods, trasposizione dell’omonimo fantasy di Neil Gaiman, dove gli dèi non si risparmiano scazzottate, orgasmi, inganni o sparatorie. In campo editoriale invece, ha sedotto i lettori anglosassoni l’ultimo libro di Stephen Fry, di oltre 400 pagine, con una copertina bianca su cui spicca il titolone rosso Mythos. Intrighi, amoreggiamenti, vendette delle divinità piacciono perché avvicinano il cielo agli uomini invece di allontanarlo. Come diceva Gore Vidal, è vero che «in cielo c’è la stessa varietà che esiste tra gli uomini».
La mitologia omerica è al centro di un romanzo appena uscito per Feltrinelli, La splendente, scritto da Cesare Sinatti, un esordiente di 26 anni, vincitore del Premio Calvino, il più noto e serio riconoscimento per aspiranti scrittori. Sinatti è uno studente di filosofia antica, al momento impegnato in un dottorato in Inghilterra, all’università di Durham. Una cascata di ricci, occhialetti da studioso, aria rinascimentale da direttore d’orchestra. Sembra un Giovanni Allevi più chiaro e luminoso. Per la sua prima intervista ha preso un treno da Fano, la sua città d’origine, dove era andato a trovare la sua famiglia. «È iniziato tutto mandando il libro al Calvino. Non pensavo di vincere, quando ho inviato il manoscritto della Splendente avevo 24 anni».
E invece debutta con Feltrinelli. Come ha trovato il tempo per un romanzo tra tesi e concorsi?
«L’ho scritto durante il mio anno di studi a Chicago, tra novembre 2014 e giugno 2015, lavorando tutti i giorni, a volte scrivendo la mattina, altre la sera. Credo che la scrittura abbia bisogno di metodicità e dedizione, come le arti marziali».
Da dove nasce la sua passione per i miti?
«È iniziata ai tempi del liceo, poi si è intensificata durante l’università. L’idea di scrivere qualcosa sull’Iliade mi è venuta frequentando un corso su Erodoto. Ero affascinato da quelle lezioni, ricche di storie e aneddoti, così come dall’insegnamento sulla filosofia antica. Così ho pensato di mettermi alla prova vedendo se riuscivo a creare psicologie intorno ai personaggi mitologici che più mi piacevano. In quel periodo stavo leggendo Gli dèi e gli eroi della Grecia di Károly Kerényi, in cui sono presentate una serie di versioni alternative dei miti, diverse da quelle classiche. Ho usato Omero, Apollodoro, Ovidio e altri mitografi».
Che ne pensa dei fantasy mitologici?
«Dovendo scegliere, forse il mio preferito è Il cavaliere malfatto di T. H. White, il più letterario e potente dei quattro romanzi del ciclo arturiano Re in eterno. Non sono però un appassionato del genere fantasy, né delle serie tv. Non ho tempo per guardarle e a parte Breaking Bad e Gomorra ho visto poco altro. In realtà mentre scrivevo questo romanzo avevo in mente altri modelli: Meridiano di sangue di Cormac McCarthy, l’idea del male assoluto, il deserto, la violenza che sembra non avere senso».
Qual è l’originalità del suo racconto?
«Elena, la splendente, è una sorta di fantasma, come nella versione di Euripide. Tanto che aleggia nel romanzo il sospetto che non sia mai stata portata davvero a Troia.
Odisseo in genere è l’uomo che ama viaggiare, per me è invece il guerriero che vuole tornare a casa.
Così il mio Achille non è tanto il prototipo dell’eroe perfetto ma il ragazzo che ha paura di morire».
Perché queste storie ancora ci seducono?
«Nel Saggio su Pan James Hillman dice che esiste una Grecia da studiosi e da filologi e una Grecia dell’immaginario. Quest’ultima è quella che continua a parlarci a livello psicologico, quella che permette associazioni tra i nostri comportamenti e i comportamenti del mito. Continuiamo a frequentarlo per scovarci significati nuovi. Non funziona come l’allegoria che ha un’interpretazione semplicemente razionale, ma permette associazioni illimitate».
Preferisce narrare la fragilità degli eroi?
«Mi piace l’idea omerica dell’individuo che si mette in discussione, la cui grandezza è nel mettersi alla prova».
Nel nostro tempo c’è ancora posto per gli eroi?
«Nel senso che ho appena detto, certo. Considero eroici i ragazzi che piantano tutto e vanno all’estero per studiare o cercare un lavoro».
Non starà esagerando?
( Sorride). «È vero, da giovani partire può essere un’avventura. In verità sai già che non tornerai più indietro, che dovrai trasferirti a vivere lontano da casa per sempre. Io ho appena cominciato, ho scelto di andarmene, ma dopo questi tre anni di dottorato in Inghilterra vorrei tornare in Italia. È il mio paese e vorrei stare qui, anche se tutti mi ripetono che non sarà possibile».
Un libro di mitologia che consiglia?
«Le Metamorfosi di Ovidio, senza dubbio il più divertente. Tra le mie storie preferite c’è quella di Ceni, una giovane donna trasformata in un uomo invulnerabile dopo aver subito uno stupro da parte di Poseidone. Alla fine Ceni viene sepolta viva ma non riesce a morire. L’idea dell’immortale sotterrato mi piace molto: significa che una cosa bella non può essere soffocata».

Repubblica 5.2.18
Morte in Europa, rinascita in Israele storie degli orfani di una rivoluzione
Il libro. I bambini di Moshe Gli orfani della Shoah e la nascita di Israele di Sergio Luzzatto
di Wlodek Goldkorn


La parte più drammatica — forse la sineddoche non solo del libro ma di tutta la storia e vicenda degli ebrei in Europa tra la fine dell’Ottocento e il 1948 (data di nascita dello Stato d’Israele) — del fondamentale testo di Sergio Luzzatto I bambini di Moshe. Gli orfani ella Shoah e la nascita di Israele si trova alle pagine 37 e 38. E, forse non a caso, riguarda soprattutto alcune donne. La prima, Recha Freier, è la fondatrice dell’organizzazione Jugend Aliyah, che si occupa dell’immigrazione in Palestina di giovani ebrei. L’altra è Hannah Arendt, trentenne esule a Parigi responsabile del locale ufficio della stessa organizzazione. Hitler è da pochissimi anni al potere.
Freier capisce che occorre portare quanti più giovani possibile fuori dalla Germania. E li prepara per la vita in Palestina, perché per andare a vivere nella Terra Promessa occorre saper fare gli agricoltori, lavorare con le mani, usare le armi. Arendt percepisce la portata e la potenza della rivoluzione sionista; la ribellione dei giovani contro le tradizioni e l’inadeguatezza degli adulti. Tutto questo, mentre i nazisti vorrebbero collaborare con i sionisti nell’opera di trasferimento degli ebrei fuori dalla Germania. E siamo così nel cuore dei paradossi, delle antinomie, della tragedia, con cui l’Europa ancora non ha fatto i conti.
Ma procediamo con ordine. In apparenza, il libro di Luzzatto, storico all’Università di Torino, spesso controverso, ha per protagonista Moshe Zeiri, un giovane sionista socialista, nato nella Galizia austroungarica poi diventata polacca, emigrato in Palestina, arruolatosi nell’esercito britannico per combattere i nazisti e arrivato, da liberatore, in Italia. Qui, a Selvino, mette in piedi una colonia per bambini ebrei da tutta l’Europa, orfani dei genitori assassinati dai tedeschi. I ragazzi di Moshe finiscono in Israele, partecipano alla guerra del 1948, cominciano una nuova vita. Ecco, questa storia può essere raccontata come una favola, drammatica ma bella, a lieto fine.
Dalla morte (dell’ebraismo europeo) verso la rinascita (in Israele). Qualcuno ha provato a leggerla così.
E invece Luzzatto ha avuto il coraggio di sovvertire la categorie e il modo di scrivere degli storici.
In una narrazione in prima persona, seppur costruita su fonti e testimonianze verificate, l’autore mette in piedi una struttura narrativa da grande romanzo ottocentesco. Con molti protagonisti, con una trama estesa nel tempo e nello spazio e con forti dosi di emozioni. Ma soprattutto, con la piena consapevolezza della tragicità delle utopie, dovuta non alla cattiveria delle utopie, ma alla tragicità della storia e della nostra condizione umana. Si parte dunque dalla Polonia e dai sogni degli ebrei. Documentati nelle foto di Alter Kacyzne che Luzzatto cita e evoca. Kacyzne era un militante della sinistra ebraica, scrittore, giornalista, agitatore culturale in yiddish, allievo del padre del romanzo moderno yiddish Itzhak Peretz. Sognava il riscatto degli ebrei lontano dall’utopia sionista, vicino a quella sovietica. Finì massacrato dai collaborazionisti ucraini dei nazisti. Quelle foto, scattate per il giornale americano Forverts dove scrivevano i fratelli Singer restano un documento sulla vita prima della catastrofe.
Luzzatto narra pure altri sogni.
Parla dei giovani sionisti che vogliono vedere nascere un ebreo nuovo, rigenerato, alieno alle miserie della Diaspora, immune agli attacchi degli antisemiti. Sono ragazzi influenzati da Tolstoj e da Nietzsche. Sono figli della volontà di potenza dell’Ottocento.
Organizzano kibbutz, diventano davvero agricoltori e soldati.
Poi arrivano i ghetti e le camere a gas e non si sogna più. Bisogna cercare di sopravvivere e le utopie sono poco utili. Contano la fortuna e la geografia (ci si salva là dove non ci sono i nazisti). E per chi si è salvato arriva la prospettiva della vita in Palestina e la guerra del 1948. Israele vince e conquista l’indipendenza. Molti dei sopravvissuti profughi rendono profughi i palestinesi: esemplare la vicenda della città di Lydda, oggi Lod. Le storie umane intrecciate alla grande Storia sono sempre più affascinanti dell’invenzione. Ma raramente sono consolatorie.