La Lettura del Corriere 4.2.18
Una scossa al cervello per essere collaborativi
di Edoardo Boncinelli
Sarà capitato anche a voi di vedere una simpatica vignetta raffigurante due somarelli che tendono ciascuno alla propria greppia per mangiare, ma sono legati con una fune l’uno all’altro. Se ognuno dei due tira per raggiungere il proprio cibo, nessuno dei due riesce a mangiare. Ma se fanno a turno — prima mangia uno, poi mangia l’altro — si rifocillano entrambi senza problemi. Questi sono, secondo l’autore della vignetta-apologo, i vantaggi della cooperazione contrapposta alla competizione . Almeno in teoria, noi uomini pensiamo che la cooperazione sia molto migliore della competizione e tutta la nostra civiltà è stata costruita fondandosi su tale convinzione. La vita degli animali diversi da noi mostra inclinazioni cooperative e inclinazioni competitive mischiate e compresenti.
La nostra predilezione per un atteggiamento cooperativo, che osserviamo abbastanza spesso ma non sempre, è quindi frutto di educazione, di autopersuasione e di persuasione. Molto di quello che abbiamo fatto collettivamente negli ultimi secoli e che fanno ogni giorno genitori ed educatori riguarda proprio la necessità e la convenienza di instaurare un modo di comportarci incline alla cooperazione piuttosto che alla competizione. L’impresa non è sempre facilissima e cambia da posto a posto, da epoca a epoca e anche da individuo a individuo. È legittimo quindi chiedersi da cosa dipenda il successo o l’insuccesso dello sforzo educativo e, in particolare, se tale successo è più funzione dell’efficacia dell’educazione o dipende di più dall’indole dei singoli individui.
Ora, un aiuto alla definizione di una risposta soddisfacente si può tentare attraverso una strategia sperimentale, usando ovviamente animali di laboratorio, anche se è ben chiaro che un topo o un ratto non sono esseri umani.
Per motivi che ci sfuggono, gli esempi di spirito collaborativo sono rarissimi in animali di laboratorio, e comunque incredibilmente meno numerosi che in animali che non vivono in cattività. Un team di ricercatori coreani ha usato ora i topi come materiale di studio e ha raggiunto risultati che a me paiono molto interessanti e abbastanza inattesi. Moltissimi animali di laboratorio, inclusi i topi impiegati nell’esperimento in questione, sono piuttosto refrattari a cooperare e passare così sopra alla prepotenza che un individuo dominante esercita sull’altro. Non è chiarissimo che cosa determini tale tipo di dominanza, anche se le dimensioni corporee certamente contano, ma è sempre comunque abbastanza evidente chi sia l’individuo dominante, anche se questo richiede occasionalmente una breve lotta. Sia che si tratti di gruppi di individui, sia che si tratti di solo due individui, come nel caso dell’esperimento descritto. A noi è chiaro che questa impostazione finisce per danneggiare entrambi gli individui, nell’immediato e ancora di più a lungo termine, ma a loro evidentemente no. Questa quindi è la situazione di partenza: il topo che si ritiene dominante cerca di imporsi all’altro, anche se a lungo andare la cosa non reca vantaggio a nessuno dei due. Si può ovviare a questo stato di cose? In altre parole, si possono «educare» i due topi a osservare un comportamento più paritario e «pacifico», che a lungo andare può divenire anche collaborativo? È ovvio che la risposta è sì, ma c’è una sorpresa.
L’educazione dei topini avviene attraverso un condizionamento, un premio viene cioè dato a chi si comporta come noi desideriamo, superando l’impulso verso un comportamento competitivo, che si mostrerà nel caso specifico come un’inclinazione dispotica alla prepotenza basata sulla gerarchia. Il premio può consistere in una razione di cibo o in una piccola stimolazione elettrica, somministrata senza fili, in una specifica regione del cervello — essenzialmente il talamo dorsomediale — nota per essere coinvolta nella scelta di strategie comportamentali implicanti cooperazione o competizione. Ebbene, la somministrazione di cibo, per quanto gradita, non riesce a far imparare a cambiare strategia ai topini, mentre la piccola stimolazione elettrica sì. L’esperimento è tutto qui. Come commentarlo?
Anche mangiare quando si ha fame mette in moto certe aree del cervello e, per così dire, le acquieta, ma l’azione è mediata da molti fattori. Viceversa, si possono stimolare direttamente le stesse aree con un impulso elettrico, ovviamente blando. La stazione finale è quindi la stessa, ma diversi sono il tragitto e le modalità di realizzazione: una è un’azione diretta e un’altra un’azione mediata da un complesso di eventi, sia esterni al corpo stesso che fisiologici. Poiché nelle condizioni dell’esperimento non è facile ottenere il risultato sperato, ovvero la soppressione dell’istinto di sopraffazione e di imposizione del proprio interesse egoistico, la stimolazione diretta delle aree cerebrali interessate ha più probabilità di successo. In un certo senso il ragionamento è scontato, ma che conseguenze ne possiamo trarre? Ognuno trarrà le sue, ma la mia lettura è semplice.
L’educazione, che altro non è che l’elaborazione di un complesso ordinato di condizionamenti, talvolta può non funzionare a dovere o addirittura per niente. Per questo a volte si rimane profondamente frustrati e si parla di una nostra impotenza e di un senso di finitudine. Intervenire direttamente sul cervello, magari con un farmaco, può avere un altro effetto, magari più tangibile. Occorre quindi sempre valutare l’efficacia del metodo di educazione ed eventualmente cambiarlo. E comunque, perché un qualsiasi effetto educativo o psicologico duri, occorre raggiungere in qualche maniera il cervello stesso. Ogni forma di progresso sociale esterno deve per forza passare da dentro, attraverso un processo che qualcuno chiama interiorizzazione.
Il Fatto 4.2.18
Fidelito, una vita depressa all’ombra del papà
Fidel Ángel Castro - Si è suicidato a 68 anni il primogenito del lìder maximo. Funerali privati
di Diego López
Nuovo lutto per la famiglia Castro. Fidel Ángel Castro Díaz-Balart , primogenito dello scomparso Fidel Castro, si è suicidato giovedì all’età di 68 anni. La notizia è stata diffusa dai media cubani i quali, del tutto insolitamente – mai è stata resa nota la causa della morte di Fidel – hanno specificato che Angel Castro “negli ultimi mesi era sotto cura da parte di un gruppo di medici a causa di un profondo stato depressivo”.
Fidelito, come veniva comunemente chiamato per la sua forte somiglianza col padre, era l’unico figlio che il defunto lìder maximo aveva avuto dalla sua prima moglie Mirta Díaz-Balart, conosciuta ai tempi dell’Università all’Avana, e dalla quale aveva divorziato nel 1955 mentre era in Messico a preparare il suo rientro nell’isola con un gruppo di guerriglieri. Fidelito aveva 5 fratellastri figli della seconda moglie di Fidel, la maestra Dalia Soto, e una sorellastra frutto della relazione con Natalia Revuelta. Per parte di madre era imparentato con due dei massimi esponenti dell’anticastrismo della Florida, i deputati repubblicani Lincoln e Mario Díaz-Balart.
Fidel Ángel si era laureato in fisica atomica nel prestigioso istituto Kurchatov dell’Unione sovietica, dove per ragioni di sicurezza aveva studiato col falso nome di José Raúl Fernández.
Al suo ritorno in patria il padre, che aveva l’ambizione di costruire una centrale nucleare a Juraguá, nella provincia di Cienfuegos, lo mise alla testa della Commissione per l’Energia nucleare. Nel 1992 però lo stesso lider maximo lo aveva deposto “per inefficienza nel disimpegno delle proprie funzioni”, dopo una serie di accuse di corruzione. Fidelito era ricomparso nella vita pubblica cubana nel 1999 , ma senza alcuna carica politica. Era sposato con la russa Olga Smirnova – dalla quale aveva avuto tre figli – era consigliere scientifico del Consiglio di Stato e vicepresidente dell’Accademia delle scienze. Cariche che occupava senza quasi apparire in pubblico. Per questo suscitarono scalpore le immagini di un selfie con Paris Hilton ad una festa durante la Fiera internazionale del sigaro cubano nel 2015. L’ultima sua apparizione in pubblico – con occhiali scuri e una bandiera cubana – fu nel dicembre 2016, al funerale del padre.
I rapporti con il genitore non erano mai stati facili. Nel 1959 dopo la vittoria della Rivoluzione, Fidelito aveva partecipato a un programma televisivo a New York, dove Fidel aveva offerto una rara immagine di padre di famiglia e dove il figlio rispondeva alle domande in un inglese – secondo le cronache dell’epoca – “migliore di Fidel Castro”. Lo stesso Fidel Ángel in un’intervista alla tv Russia Today aveva detto che “negli anni della mia prima giovinezza a Cuba vi era una situazione assai complessa e lui (il padre Fidel) come gli altri principali leaders avevano pochi contatti con la famiglia”.
Non vi saranno cerimonie pubbliche: la tv statale ha informato che i funerali di Fidel Ángel saranno riservati ai parenti. Ma nonostante il basso profilo che la famiglia e il governo vogliono tenere, il suicidio del primogenito del lider maximo assume rilevanza in una fase politica delicata per Cuba. In aprile infatti verrà eletta la nuova Assemblea nazionale del Poder popular (il parlamento unicamerale) che a sua volta nominerà il nuovo presidente della Repubblica, perché Raúl Castro ha confermato il suo ritiro. Dopo sessant’anni dunque non vi sarà un membro della famiglia Castro alla testa del governo.
La Lettura del Corriere 4.2.18
Emilio Gentie, Mussolini contro Lenin, Laterza
Quel misterioso incontro tra Mussolini e Lenin
Di sicuro il capo del fascismo fu attento alla tragedia russa e sfruttò la paura del comunismo per raggiungere il potere
di Marcello Flores
Benito Mussolini e Vladimir Uljanov, noto come Lenin, avrebbero potuto incontrarsi a Ginevra nel 1904. Forse l’incontro ebbe luogo, probabilmente no. Ma la possibilità fu reale, visto che rivoluzionari italiani (come allora era Mussolini) e russi (come Lenin), appartenenti tutti alla variegata famiglia del socialismo, si ritrovavano spesso nello stesso Café Landolt. Parte dalla ricostruzione di questo possibile incontro — attraverso memorie discordanti e documenti contraddittori — il libro di Emilio Gentile Mussolini contro Lenin (Laterza), che racconta la polemica dell’italiano contro il russo, soprattutto nel corso della Prima guerra mondiale e subito dopo, che termina sostanzialmente con la conquista del potere da parte del primo e la morte del secondo, cui fa da corollario il ristabilimento delle relazioni diplomatiche tra Italia e Urss nel febbraio 1924.
Gentile ripercorre le strade parallele e diverse che entrambi seguirono all’interno del movimento socialista e rivoluzionario europeo del primo Novecento, il radicalismo che entrambi manifestarono all’interno dei loro partiti contro i più moderati ortodossi del marxismo, e la divergente biforcazione delle loro vite e delle loro politiche che il trauma della Prima guerra mondiale produsse e accentuò nel corso di pochi anni.
Lo studio di Gentile — uno dei più originali contributi apparsi nel centenario della rivoluzione russa — non vuole essere, ovviamente, un libro su Mussolini «e» Lenin, sul fascismo e il comunismo, sui rapporti tra Italia e Russia. Analizzando con precisione e ricchezza di citazioni l’interesse che Mussolini e il suo giornale, «Il Popolo d’Italia», dedicarono al bolscevismo e a Lenin, Gentile propone un altro piccolo pezzo del suo grande mosaico interpretativo sul fascismo: arricchendolo con l’analisi del rapporto e dello sguardo mussoliniano rispetto alla rivoluzione russa e alla figura di Lenin, un tassello centrale e indispensabile per meglio comprendere l’evoluzione del pensiero del futuro Duce soprattutto negli anni di passaggio dalla milizia socialista all’interventismo e poi alla fondazione dei Fasci e alla guida verso il potere di un fascismo sempre più dinamico e incisivo.
L’attenzione che «Il Popolo d’Italia» dedica alla rivoluzione russa a partire dai primi mesi del 1917 è costante, attenta alle notizie e alla ricostruzione degli eventi quanto a una loro interpretazione. E questa tensione «analitica» continuerà anche dopo la fine della guerra, nei confronti del regime bolscevico vincitore, della guerra civile che conduce vittoriosamente contro le armate bianche, del regime autocratico e «asiatico» che costruisce e che rappresenta — agli occhi di Mussolini — la prova del fallimento del socialismo come teoria e come proposta politica, quindi la giustificazione della propria scelta di abbandonarlo per cercare una «rivoluzione nazionale» di altro segno, ma altrettanto radicale. Se l’idolo mussoliniano e del «Popolo d’Italia», per quanto riguarda la rivoluzione russa, è Aleksandr Kerenskij (su cui si spera di vedere presto in edizione italiana lo studio di Boris Kolonitskij Compagno Kerenskij ), l’obiettivo polemico della crescente opposizione a Lenin è il Partito socialista italiano, affascinato tanto nei suoi vertici quanto, soprattutto, nella sua base, dal mito del leader rivoluzionario russo. Lenin è il «traditore» che, per conto dei tedeschi, sabota la rivoluzione russa e soprattutto il suo impegno nella guerra contro gli Imperi centrali; è il costruttore di una tirannia asiatica che viene definita come «esplosione di istinti zoologici». E il bolscevismo «ch’è la risorgenza e la sopraffazione degli istinti di ferocia primitiva, di annientamento, di distruzione, è la negazione del socialismo».
La battaglia ideologica contro i socialisti è particolarmente aspra dal 1918 al 1920, quando Mussolini mette a punto il suo progetto rivoluzionario (antistatalista e repubblicano), di cui un elemento ideologico centrale è proprio l’antibolscevismo (Gentile ricorda opportunamente un articolo antisemita, che Mussolini dovrà ritrattare e correggere rapidamente). Per il capo del fascismo il comunismo come progetto è ormai fallito, e Lenin con la Nuova politica economica (Nep) avrebbe intrapreso una chiara deriva capitalista, pur in un regime tirannico, sancendo la sconfitta del progetto socialista internazionale, che intravede in Germania e in Italia in modo definitivo.
Negli ultimi anni di vita di Lenin «Il Popolo d’Italia» polemizza con il «mito» che ne hanno creato i socialisti, con l’illusione delle masse, con un’esperienza di speranza tramutata in tragedia e sofferenza per tutto il popolo. Nello specchio di quel fallimento il Duce vede sorgere e affermarsi il trionfo del proprio movimento, e sembra pronto a concedere l’onore delle armi al nemico defunto. È comunque il fascismo ad avere salvato l’Italia dal bolscevismo, e di questa «leggenda», come la chiama Gentile, Mussolini si servirà per «legittimare la sua conversione dal fascismo libertario e antistalista, al nuovo fascismo antidemocratico e statalista, avvenuta nel corso del 1921». Una volta morto il «magnifico avversario» la strada è pronta per il riavvicinamento diplomatico tra i due primi totalitarismi del Novecento. Sul cui confronto c’è un ultimo interessante paragrafo, che si spera possa diventare presto uno studio più completo.
La Stampa 4.2.18
Erdogan: “Assieme al Papa per difendere Gerusalemme”
Il presidente: lo status quo della città va preservato, no alle azioni unilaterali Poi il richiamo all’Europa: “Ora basta ostacoli, fateci entrare nella Ue”
di Maurizio Molinari
Recep Tayyip Erdogan bussa alle porte dell’Europa, guarda al Papa per un’iniziativa su Gerusalemme e combatte senza tregua i nemici della Turchia, a cominciare dall’Afrin siriano.
A descrivere le priorità del viaggio che inizia oggi in Italia e Vaticano è lo stesso presidente turco. L’incontro avviene al secondo piano del palazzo Beylerbeyi - il Signore dei Signori - costruito sul lato asiatico del Bosforo dai sultani ottomani a metà Ottocento, con un’ala che il presidente adopera come ufficio quando torna nella città di cui è stato sindaco. Con alle spalle i drappi nazionali, Erdogan parla in turco, non distoglie mai lo sguardo e non muove le mani, indossa un elegante abito blu e sfoggia baffi ben curati. Trasmette l’immagine di un leader senza esitazioni.
L’unico momento in cui tradisce emozione è quando parla della sua fede nell’Islam: «Per me è tutto, qualsiasi cosa mi ordina è la mia priorità». Alla guida della Turchia dal 2003, presidente dal 2014 e sopravvissuto al colpo di Stato del 15 luglio 2016 con i poteri rafforzati dal referendum dello scorso anno, Erdogan ha domato i nemici interni, bracca quelli esterni, spinge in avanti le truppe in Siria e persegue la creazione di una propria sfera d’influenza in Medio Oriente. Dimostrando in questa intervista una sicurezza, personale e politica, che accompagna la volontà di rilanciare il negoziato per l’adesione all’Unione europea, al momento tutto in salita.
La presidenza di turno bulgara dell’Ue l’ha invitata a Varna a fine marzo a un summit con Junker e Tusk. Crede ancora nella possibilità di aderire all’Unione?
«La Turchia ha ottemperato ai suoi obblighi di Stato-candidato ma non possiamo continuare questo processo da soli. Anche l’Ue deve fare la sua parte, a cominciare dal mantenere le promesse fatte».
A cosa si riferisce?
«L’Ue blocca l’accesso al negoziato e lascia intendere che la carenza di progressi dipende da noi. È ingiusto. Come lo è che alcuni Paesi Ue avanzino per noi opzioni diverse dall’adesione».
Dunque non accetta l’ipotesi di essere affiancato alla Gran Bretagna del dopo-Brexit...
«Desideriamo la piena adesione all’Ue. Altre opzioni non ci soddisfano».
Le resistenze nell’Ue nascono dal disaccordo sullo stato di emergenza e dalle accuse di carente rispetto dei diritti umani...
«Ci aspettiamo che l’Ue rimuova il più presto possibile ogni ostacolo artificiale alla nostra adesione, assumendo un approccio costruttivo. L’adesione della Turchia non può essere sacrificata a calcoli di politica interna».
Cosa si aspetta dal summit di Varna?
«Borisov, Juncker e Tusk sono dei vecchi amici, non c’è un politico con più anzianità di me nell’Ue. Però mi dispiace una cosa: l’Europa, come del resto tutto il mondo, ha il problema del terrorismo. Il Pkk, ad esempio, venne dichiarato organizzazione terroristica dall’Ue e da ogni singolo Stato. Poi però accade che un gruppo si avvolga negli stracci del Pkk e entri nel Parlamento europeo. Sono cose che non devono succedere. Da una parte l’Europa proibisce questa organizzazione e dall’altra ci sono parlamentari che si presentano con i loro simboli nel Parlamento».
Quale è l’argomento in cima all’agenda del colloquio con Papa Francesco?
«Lo status di Gerusalemme».
Perché?
«Dopo la dichiarazione di Trump, contraria alla legge internazionale, ci siamo parlati. Voglio ringraziarlo per quella nostra telefonata su Gerusalemme, in seguito alla quale Papa Francesco non ha perso tempo e ha diffuso a tutto il mondo cristiano un giusto messaggio. Perché Gerusalemme non è una questione solo dei musulmani. Entrambi siamo per la difesa dello status quo e abbiamo la volontà di tutelarlo. Nessuna nazione ha il diritto di adottare passi unilaterali e ignorare la legge internazionale su una questione che interessa a miliardi di persone. Per questo l’Assemblea Generale dell’Onu il 21 dicembre 2017 ha definito illegale la decisione Usa. Sono felice che anche l’Italia l’abbia votata. Come si è visto, a fianco della grandissima America c’erano solo Israele e cinque o sei piccoli Paesi».
Resta il fatto che i palestinesi oggi sembrano isolati, anche nel mondo arabo. Che iniziativa può esservi su Gerusalemme da parte di Turchia e Santa Sede?
«Lo status della città deve essere preservato, sulla base delle risoluzioni Onu, assicurando a musulmani, cristiani ed ebrei di vivere in pace, fianco a fianco. La comunità internazionale deve assumersi la responsabilità di assicurare la pace a Gerusalemme».
Dunque, pensa ad un passo internazionale?
«Mantenere lo status, assicurare i luoghi santi di tutte e tre le religioni e riconoscere i diritti del popolo palestinese è di assoluta importanza. È fondamentale che il Papa, come anche le diverse comunità cristiane a Gerusalemme, mandino messaggi in tal senso».
Quale è la strada da seguire per risolvere il conflitto israelo-palestinese?
«Se si desidera davvero la pace fra israeliani e palestinesi l’unica via è la soluzione dei due Stati. Per questo deve aumentare il numero dei Paesi che riconosce la Palestina. Dunque chiedo all’Italia di riconoscerla al più presto».
La bandiera turca sventola in Qatar, Sudan, a Gaza e in molti altri luoghi di un Medio Oriente dove siete diventati un attore strategico. Che cosa volete ottenere?
«La Turchia è un attore influente, affidabile e forte la cui cooperazione è richiesta non solo in Medio Oriente ma nel mondo intero. Siamo importanti per fermare i migranti che da Oriente si dirigono verso l’Europa e anche per garantire stabilità e sicurezza dell’Europa. Dedichiamo grandi sforzi a combattere organizzazioni terroristiche come il Pkk, il Pyd-Ypg e Isis».
Ma Europa e Stati Uniti non considerano i curdi siriani del Pyd-Ypg dei terroristi, anzi li hanno sostenuti nella campagna contro Isis...
«Si sbagliano perché non c’è alcuna differenza fra Pkk e Pyd-Ypg. È molto sbagliato tracciare delle differenze fra organizzazioni terroristiche. La situazione in Siria indica che un’organizzazione terroristica non può essere eliminata usando contro di lei un’altra organizzazione terroristica».
Quale approccio ha alle rivolte popolari nel mondo arabo?
«Per mantenere pace e stabilità servono processi politici inclusivi, unità politica delle nazioni e loro integrità territoriale. Riguardo al sostegno per le richieste di democrazia bisogna adottare un approccio basato su principi, senza discriminare singoli Stati o regioni. Purtroppo la comunità internazionale di recente non lo ha fatto e ciò deve cambiare».
Papa Francesco più volte ha denunciato le violenze contro le minoranze cristiane in Medio Oriente. Come fermarle?
«In Medio Oriente le diverse fedi hanno convissuto pacificamente fianco a fianco per secoli. La situazione si è deteriorata a causa di interventi esterni, ideologie estremiste e conflitti causati da terroristi come Isis e Al Qaeda. Il terrore in Medio Oriente non nuoce solo ai cristiani ma anche ai musulmani. Il maggior numero di vittime di Isis sono musulmane. Sarebbe un errore focalizzarsi solo sui diritti di una parte. L’attenzione del Papa per le sofferenze dei rohingya musulmani deve essere d’esempio per il mondo».
Dall’indomani del referendum sull’indipendenza il Kurdistan iracheno è isolato. Come superare questo stallo?
«Il governo regionale curdo-iracheno ha ignorato gli avvertimenti della Turchia e della comunità internazionale, celebrando un referendum illegale che ha disgregato l’integrità territoriale dell’Iraq. Per rimediare a tale errore questo governo deve convincere il governo centrale di Baghdad che rimarrà parte dell’Iraq. Siamo a favore del dialogo Baghdad-Erbil».
Dopo la caduta di Raqqa e Mosul a suo avviso Isis è davvero sconfitta o può risorgere?
«Con l’Operazione Scudo dell’Eufrate abbiamo neutralizzato 3000 terroristi di Isis, recuperando un’area di 2015 kmq, consentendo a 130 mila siriani di tornare a casa. Mentre l’operazione per ripulire Raqqa da Isis era in corso il Pyd-Ypg ha fatto un accordo con Isis facendo scappare numerosi terroristi, molti dei quali ora si trovano ad Afrin».
Le forze armate turche sono entrate nella provincia di Afrin per combattere i gruppi armati curdi. Quali obiettivi militari avete?
«Anzitutto mi consenta di correggere la sua domanda perché le forze armate turche non sono ad Afrin per combattere “gruppi curdi armati”. Non abbiamo problemi con i curdi siriani. Combattiamo solo i terroristi. Ed abbiamo il diritto di farlo. L’operazione “Ramoscello d’Olivo” vuole eliminarli dalla provincia di Afrin, da dove sono partite circa 700 azioni contro le nostre Hatay e Kilis».
Siete stati accusati di aver ucciso dei civili ad Afrin...
«Dall’inizio delle operazioni abbiamo avuto quattro civili morti e 90 feriti a Hatay e Kilis, per il lancio di razzi. Ad accusarci di uccidere civili sono i terroristi di Ypg, che usano scudi umani».
Quando porrete fine alle operazioni?
«Sarò estremamente franco: non vogliamo alcun territorio. Contribuiremo all’integrità territoriale della Siria».
Sulla Siria collaborate con la Russia di Putin, da cui avete anche acquistato le batterie anti-aeree S-400. Con una decisione che solleva forti timori nell’Alleanza atlantica. Perché lo avete fatto?
«Gli attacchi provenienti dalla Siria hanno evidenziato la necessità di rafforzare e modernizzare i nostri sistemi di difesa aera. Ed è su questo argomento che da qualche tempo, portiamo avanti dei colloqui con diversi Stati. La nostra priorità, oltre al prezzo, era di avere degli interlocutori aperti al trasferimento di tecnologia. Sapendo che vorremmo essere al riparo da qualsiasi problema durante questo processo. Per quanto riguarda l’S-400, la Federazione Russa ha soddisfatto le nostre esigenze sia come prezzo e consegna sia come trasferimento di produzione e tecnologia. È sbagliato mettere in correlazione quest’accordo con la Nato, dato che la Grecia, membro Nato, possiede il modello inferiore, l’S-300. Stiamo portando avanti trattative anche con la Francia e l’Italia».
Di che cosa si tratta?
«L’Aselsan e la Roketsan collaborano con il consorzio italo-francese Eurosam nel progetto di produzione di sistemi di difesa aerea e missilistica a lungo raggio. Durante la mia visita in Francia siamo giunti a un accordo e i lavori sono iniziati. Diamo grande importanza all’industria della difesa. Non vogliamo però essere un Paese che si limiti a consumare e importare».
A Roma vedrà Mattarella e Gentiloni, cosa si aspetta?
«Dobbiamo migliorare le nostre relazioni bilaterali con l’Italia. L’ex presidente Berlusconi è un caro amico e con lui avevamo avviato un’ottima collaborazione, posso dire che le relazioni tra i nostri due Paesi durante il suo mandato sono state molto vivaci e positive. Dobbiamo ritrovare quel clima. Avevamo fatto un accordo importantissimo, ad esempio, per gli elicotteri “Attack Agusta Westland”. E vogliamo sviluppare ancora quel genere di cooperazione. Dopo Papa Francesco incontrerò il presidente della Repubblica Sergio Mattarella e il primo ministro Paolo Gentiloni, per cui ho grandissima stima. Farò inoltre un incontro con gli imprenditori, che mi auguro sia proficuo. L’Italia è il nostro terzo partner commerciale ma il potenziale è maggiore. Siete undicesimi per numero di aziende presenti - circa 1400 - e vogliamo aumentarle. I ponti Osmangazi e Yavuz Sultan Selim sono stati costruiti con partner italiani. Sono convinto che le aziende dei due Paesi potranno firmare grandi accordi grazie all’accordo del 2017».
Per l’Italia la Libia è una priorità strategica. Condividete la necessità di mantenerla unita? Come riuscirvi?
«La Turchia sostiene con vigore l’integrità del territorio libico e la sua unione politica. Incoraggiamo il desiderio di dialogo espresso sin dal 2014 dai nostri amici libici. Constatiamo gli sforzi sinceri di Ghassan Salamé, rappresentante speciale delle Nazioni Unite per la Libia. Siamo a favore del processo portato avanti anche col sostegno del Rappresentante speciale, che punta alla riconciliazione regionale e nazionale, all’adozione di una nuova costituzione e infine, all’organizzazione delle elezioni».
C’è dunque l’ipotesi di un’azione congiunta italo-turca in Libia?
«L’Italia come la Turchia desidera pace e stabilità in Libia. Italia e Turchia hanno rilanciato le attività delle loro ambasciate a Tripoli. E anche questo è un segno dell’importanza che i nostri Paesi danno alla Libia. Più la presenza dei nostri due Paesi aumenterà in Libia più ci saranno opportunità di cooperazione. Il gruppo di lavoro congiunto, in fase di definizione, sulla Libia presto sarà operativo».
A Roma in occasione della sua visita ci saranno anche delle proteste, da parte di gruppi che accusano la Turchia di gravi violazioni dei diritti umani. Se potesse rivolgersi a questi manifestanti, cosa gli direbbe?
«Non mi rivolgo a chi sostiene il terrorismo ma a chi lo combatte. Con i terroristi mi comporto come ad Afrin, lo faccio perché loro capiscono solo quella lingua, e continuerò a farlo. Che lingua parlava l’Italia con i terroristi? La Francia, la Gran Bretagna, l’America, la Russia, che lingua parlano con i terroristi? Ecco, anche io parlo quella lingua».
Lei incontrerà il Pontefice che è uomo di fede. Ma anche lei è un uomo di fede. Quanto conta per la sua identità?
«Essere religioso, la fede, per me è tutto. Non è una cosa di cui posso fare a meno, e tutto quello che la mia religione mi ordina per me è una priorità».
È alla guida del suo Paese da 15 anni. Cosa sogna per la Turchia del domani?
«Sogno che la Turchia sia tra i primi dieci Paesi più sviluppati del mondo. Siamo al quinto posto in Europa e al sedicesimo nel mondo, l’obiettivo è entrare tra i primi dieci».
il manifesto 4.2.18
Così l’industria bellica italiana arma le guerre di Erdogan
di Giorgio Beretta
È uno dei maggiori clienti delle nostre aziende militari, soprattutto quelle a controllo statale come Leonardo (già Finmeccanica) e Fincantieri. Al quale l’Italia esporta un ampio arsenale bellico: dalle pistole ai fucili mitragliatori, dai veicoli terrestri agli aeromobili, dalle apparecchiature per la direzione del tiro fino a bombe, siluri, razzi e missili.
È la Turchia di Erdoagan alla quale nel 2016 (ultimo dato disponibile) il governo Renzi ha autorizzato esportazioni di sistemi militari per oltre 134 milioni di euro. Una cifra, tutto sommato, modica che però fa di Ankara il decimo acquirente della nostra industria militare. Una cifra ben lontana dagli oltre 1 miliardo di euro per la produzione in Turchia di 51 elicotteri modello Mangusta (diventati 61 nel 2010) ribatezzati TAI T129 ATAK. Licenza autorizzata nel 2007 ai tempi del governo Prodi per la quale le associazioni della Rete Italiana pe il Disarmo e Amnesty International avevano chiesto di sospendere considerata la possibilità di utilizzo di questi elicotteri d’attacco al suolo da parte dell’aeronautica militare turca nei territori curdi. Ma ufficialmente sono stati venduti – è questo il mantra ricorrente dei nostri ministri della Difesa – per contrastare il terrorismo internazionale e soprattutto l’Isis-Daesh di cui la Turchia è uno dei nostri principali alleati.
Lo ha ribadito la ministra Pinotti lo scorso maggio quando si è incontrata a Istanbul col suo omologo Fikri Isik. In quell’occasione la Ministra ha rilevato come «in un momento in cui la guerra in Siria estende la minaccia terroristica anche alle Nazioni confinanti, l’Italia ha risposto positivamente alla richiesta della Nato di intervenire a rotazione con gli altri Paesi membri». «L’Italia continua a sostenere con forza l’impegno della Nato sul fronte est e sud e in questo contesto rientra la cooperazione con la Turchia per la protezione dei confini con la Siria» spiegava la ministra Pinotti. «Nell’ambito delle rotazioni degli impegni assunti da diversi Paesi Nato, abbiamo offerto tempo fa la nostra disponibilità a sostituire la batteria missilistica spagnola che aveva finito il proprio periodo, e lo abbiamo fatto perché riteniamo che la Nato debba essere impegnata a 360 gradi sul fronte est e su quello sud».
Come sempre sono le missioni militari a fare da traino alle commesse di sistemi militari. E non a caso durante la permanenza a Istanbul la ministra Pinotti ha visitato il Salone IDEF 2017, la fiera internazionale dell’industria della difesa con cadenza biennale giunta alla tredicesima edizione, alla quale non mancavano i padiglioni delle maggiori aziende italiane. Ma mentre in Germania l’impiego dei carri armati Leopard da parte dell’esercito turco nella cosiddetta operazione «Ramoscello d’ulivo» scatenata in Siria settentrionale contro le milizie curde nel settore di Afrin ha suscitato forti rimostranze anche in parlamento, l’utilizzo dei Mangusta italiani per simili operazioni non ha mai sollevato troppa attenzione né nel nostro parlamento e nemmeno da parte dei nostri media.
Così il sultano Erdogan arriverà oggi a Roma insieme alla moglie e alcuni ministri turchi che lo seguiranno nella visita. La capitale sarà letteralmente blindata: 3500 uomini, cecchini, manifestazioni vietate e per la visita a Roma è stata delineata un’ampia area di sicurezza denominata «Green Zone». Inizialmente sembrava dovesse incontrare «solo» il Papa in Vaticano, ma alla fine Erdogan sarà accolto dal nostro paese con tutti gli onori del caso: incontrerà Gentiloni e Mattarella. L’Italia sarà il primo paese a stringere la mano sporca di sangue del presidente turco dopo l’inizio del massacro su Afrin. E potranno così riprendere gli affari per le nostre industrie militari.
il manifesto 4.2.18
Si chiama terrorismo
di Marco Revelli
Di colpo, il buio. A Macerata, ieri, siamo caduti in uno dei punti più oscuri della nostra storia recente. Di quelli in cui sembrano materializzarsi i peggiori incubi, da «scene di caccia in Bassa Baviera». Il folle tiro al bersaglio su base etnica, i corpi che cadono uno dopo l’altro, la corsa dell’auto alla ricerca di nuove vittime di colore, la città paralizzata, rinchiusa in casa, tutto questo ci dice che un nuovo gradino dell’orrore è stato sceso.
Non è il primo caso di violenza sanguinosa di tipo razzista: il 13 dicembre del 2011, in Piazza Dalmazia a Firenze, due giovani senegalesi, Samb Modou e Diop Mor, caddero sotto i colpi della 357 Magnum di Gianluca Casseri, un fascista di Casa Pound che poco dopo, braccato dalla polizia, si suicidò. Ed è di appena un anno e mezzo fa l’omicidio di Emmanuel Chidi Namdi, nigeriano, massacrato a botte da un energumeno di estrema destra mentre cercava di difendere la fidanzata a Fermo, non molto lontano da Macerata.
Ma questo di Macerata sta ancora un passo oltre. Per la modalità e il movente del fatto: l’intento di vendicare l’atroce morte di Pamela Mastripietro, secondo le cadenze tipiche del linciaggio nell’America dell’apartheid, colpendo indiscriminatamente i presunti compatrioti del presunto assassinio (e dimenticando, fra l’altro, che la rapidissima cattura di questo si deve alla preziosa testimonianza non di un italiano ma di un africano).
Per le caratteristiche del protagonista, ancora un fascista, candidato senza fortuna nella Lega, ma prima già vicino a Forza nuova e Casa Pound come Casseri, che però a differenza di quello non si è suicidato ma ha inscenato una teatrale rappresentazione, salendo sulla base del monumento ai caduti avvolto nel tricolore, quasi a lanciare un proclama alla nazione. Prontamente accolto, d’altra parte, da un impressionante seguito sui social, ed è questo il terzo fattore che colloca Macerata «oltre»: energumeni della tastiera che invocano «Luca Traini Santo Subito», invitano a fare altrettanto e proclamano che «questo non è che l’inizio» scaricando su «chi apre le porte all’invasione» degli africani la colpa sia dell’uccisione di Pamela che della reazione del «giustiziere» di Corridonia. Un argomento quest’ultimo, sostanzialmente in linea con le prime esternazioni di Matteo Salvini, che nel segno di una feroce campagna d’odio sta conducendo il proprio giro elettorale.
Non possiamo più ignorarlo. Macerata non è un fatto isolato. Né semplicemente opera di un disadattato. Macerata si inserisce in un quadro spaventosamente degradato. Ci parla di un vero sfondamento antropologico del nostro Paese. Viene dopo le oscene esternazioni della sindaca di Gazzada sul giorno della memoria nella terra del leghismo. Dopo la pubblicazione in rete di un aberrante fotomontaggio in cui la testa mozzata della Presidente della Camera Boldrini appare sotto la scritta «Sgozzata da un nigeriano inferocito, questa è la fine che deve fare così per apprezzare le usanze dei suoi amici», e dopo il rogo del manichino che la rappresentava, da parte dei «giovani padani» di Busto Arsizio. Dopo un lungo rosario di dichiarazioni, atti, ordinanze di sindaci leghisti, sfregi da parte di squadristi fascisti di cui si va perdendo il conto.
Macerata ci dice che l’azione dei tanti «imprenditori dell’odio» in felpa o in camicia bianca, sta tracimando oltre il terreno delle propaganda, e generando vere e proprio azioni terroristiche. Perché quello che si è visto a Macerata è in senso proprio un episodio di terrorismo, non diverso da quelli organizzati dall’Isis o dai suoi cani sciolti a Barcellona, Londra o Bruxelles, con le persone inermi fatte bersaglio e le città chiuse nel terrore. Come tale va trattato l’attentatore di Macerata. E come tale il mondo democratico dovrebbe trattare l’evento, organizzando subito una risposta di massa, lì dove il fatto è avvenuto, mobilitando chi ancora crede che quella deriva possa essere arrestata. E che la notte della memoria non è del tutto caduta su di noi. Se non ora, quando?
Il Fatto 4.2.18
Il ritorno della razza bianca
di Furio Colombo
Finalmente due razzismi, che forse erano già stati catalogati come patologie diverse, il diritto superiore dell’uomo cristiano, e il diritto coloniale dell’uomo bianco, (entrambi dotati del potere di sfoltire le fila dei miscredenti) si incontrano, si riconoscono e si uniscono. La Polonia – il Paese d’Europa che più si è battuto contro l’accoglienza di un solo migrante – è in questi giorni la scena di un tragico spettacolo. Milioni di cittadini, che pure risultano mentalmente sani, difendono con il rosario tutte le frontiere di quel triste Paese. Invocano il dio dei bianchi contro l’invasione, nera e maomettana che stava arrivando (lo giurano).
Adesso hanno deciso, guidati dalle stesse persone, dalla stessa politica, dalla stessa ossessione malata però trionfante, che sono stufi di essere accusati di sterminio di tre milioni di ebrei polacchi. Li accusano tutti i documenti disponibili al mondo, insieme con la testimonianza dei sopravvissuti e di coloro che discendono dai sopravvissuti e dalle vittime. D’ora in poi in Polonia, Paese dell’Unione Europea, saranno condannati a tre anni di reclusione coloro che rifiuteranno di perdere la memoria. E diventa illegale ciò che tutti ricordano: la resistenza eroica e senza scampo dei giovani ebrei del Ghetto di Varsavia. La documentazione che, in ogni sinagoga polacca, possono mostrarti. I film di ciò che in un giorno qualsiasi, dal 1939 al 1945, cristiani polacchi e tedeschi nazisti potevano fare (spesso uniti in gruppi e pattuglie miste) ad ogni cittadino ebreo, dall’arresto al linciaggio. E potevi vedere, in immagini ancora chiarissime, la rapida ed efficiente costruzione di muri, con mattoni e cemento, all’inizio e alla fine delle strade abitate da ebrei, allo scopo di evitare la fuga delle persone e l’arrivo del pane. Anche i razzisti del vasto movimento anti immigrati (“l’invasione”) che si è radicato in Italia (con l’unica eccezione di alcuni vescovi, alcuni parroci e del Papa più insultato della Storia) sono pronti, alla prima svista elettorale, a imporci per legge di perdere la conoscenza dei fatti, la sequenza della persecuzione, non più i morti in mare e le mani che per un po’ escono dell’acqua. Sono pronti a imporci, per legge, di credere che se afferri la mano di uno che affoga e lo porti in salvo, hai collaborato all’invasione, al complotto, al misterioso cambio di popoli, all’irruzione dei neri nel sacro suolo della razza bianca. È la stessa razza bianca che ha sempre usato l’Africa prima come scenografia per le sue guerre, e poi come gigantesca miniera (scavata nei modi più pericolosi dai nativi, fino alla morte) per cose importanti che servono ai popoli civili, ovvero bianchi e cristiani, e non a loro. Non fatevi illusioni, come il pensare che noi, a differenza dei polacchi, siamo forse un po’ ostili ai neri sotto casa, ma non agli ebrei. Sulla questione chiedete a Liliana Segre, appena nominata senatrice a vita, se la Milano che è stata costretta da bambina ad attraversare in una lunga marcia, con migliaia di altri ebrei italiani, da San Vittore alla Stazione Centrale, destinazione Auschwitz, le ha lasciato un ricordo diverso da quello che, nelle stesse circostanze, le sarebbe rimasto impresso in Polonia. Del resto sono buoni testimoni di un’intensa circolazione antisemita italiana recenti eventi nel losco mondo ultrà del calcio italiano, dove la faccia di Anna Frank, riprodotta su appositi adesivi, è stata usata per fare quattro risate in qualche stadio, in attesa di qualche importante partita. Da tempo slogan e canti con la parola “ebreo” come insulto e “forno” come normale associazione alla parola ebreo, non interrompono più le partite.
Il fatto è che c’è un solo razzismo ed è lo stesso che travolge in questo periodo la Polonia, quasi tutta l’Europa dell’Est, fino all’Ungheria, che è diventata un paese solidamente nazista con libere elezioni, ma anche un paese leader contro gli immigrati, attraverso la trovata del filo spinato a rasoio. Non stiamo narrando, però, storie paurose e locali. Anche l’Estonia, anche l’Ucraina sono, senza remore e senza vergogna. (nonostante le prove del loro passato) sulla stessa strada. Con un colpo di mano clamoroso e audace è stata rovesciata la memoria documentata della storia, persino mentre alcuni testimoni sono ancora vivi. Il negazionismo poteva essere punito con la prigione, come è accaduto al falso storico Irving in Inghilterra. Ora la prigione punisce chi parla di Shoah. La notizia è importante perché ci descrive la destra che di nuovo dobbiamo affrontare, come nel 1939. Non c’è niente in essa che riguardi l’economia o il mercato. C’è ideologia. Una ideologia, come allora, finta cristiana, vera pagana, immensamente pericolosa perché offre protezione per la paura che ha inventato. E lavora con bravura a scardinare i legami di fiducia con lo Stato, dalle vaccinazioni che infettano i bambini, alle invasioni favorite dai volontari del salvataggio che scaricano neri non cristiani per infettare la razza, e spingere a uno spregevole meticciato.
il manifesto 4.2.18
Il giorno di follia di un fascista di provincia
L'autore della sparatoria. Luca Traini cacciato dalla palestra perché «aveva atteggiamenti estremisti, faceva il saluto romano e battute razziste». Si era candidato al consiglio comunale di Corridonia, con la Lega Nord, aveva preso zero voti
Bossoli sparati per colpire gli immigrati, sotto Luca Traini
di Mario Di Vito
MACERATA Quando l’hanno fermato era sotto al monumento ai caduti di piazza della Vittoria, con il braccio destro teso per un saluto romano e un tricolore sulle spalle. Ha gridato «Viva l’Italia» e poi si è consegnato ai carabinieri, ammettendo di essere stato lui ad aver seminato il panico per tutta la mattinata di ieri a Macerata, sparando con una pistola dalla sua Alfa Romeo e ferendo sei persone, tutte originare dell’Africa subsahariana. Luca Traini, 28 anni, incensurato, fisico possente, un tatuaggio che rimanda alla simbologia nazista sopra al sopracciglio destro.
«Era innamorato di una ragazza romana tossicodipendente», ha dichiarato la segretaria provinciale di Macerata della Lega, per cercare di spiegare l’inspiegabile. Il pensiero, inevitabilmente, va a Pamela Mastropietro, la 18enne trovata fatta a pezzi mercoledì scorso a Pollenza, nell’entroterra. Per il suo omicidio è stato arrestato il 29enne nigeriano Innocent Oseghale. Lo zio della ragazza, comunque, ha poi negato ogni legame: «Mia nipote non ha mai avuto nessun rapporto di alcun tipo con lui». E d’altra parte sarebbe cambiato molto poco, benché su Facebook sono già arrivate le pagine intitolate a Traini e alla «vendetta per Pamela».
C’è voluto poco per scoprire che Traini, lo scorso giugno, si era candidato al consiglio comunale di Corridonia, con la Lega Nord. Zero voti per lui, ma ancora ci sono tracce di una campagna elettorale mandata avanti a colpi di slogan come «difesa preventiva» e «non rassegnatevi». Traini, evidentemente, non si è rassegnato, e ha messo in scena la sua versione della difesa preventiva.
Francesco Clerico, titolare della palestra Robbys di Tolentino, dove il 28enne andava ad allenarsi, ricorda di aver «cacciato Traini a ottobre» perché «aveva atteggiamenti sempre più estremisti, faceva il saluto romano e battute razziste». E poi? Per Clerico, Traini è stato rovinato dalle «amicizie sbagliate» e dagli «ambienti estremisti» che si sono sommati a «una situazione familiare disastrosa».
Al netto di ogni motivazione personale, l’azione di ieri mattina appare pensata, studiata, programmata, come se fosse il copione di una recita. Un atto premeditato, lucidissimo nella sua follia. E forse la definizione di terrorismo dovrebbe essere estesa anche ad azioni del genere.
Il sindaco, Romano Carancini, mentre in città si scatenava il panico ha fatto circolare un messaggio audio in cui chiedeva a tutti di ripararsi e di rimanere in casa, come se fosse un assedio. Le auto della polizia e dei carabinieri intanto bloccavano le strade e il trasporto pubblico veniva sospeso. Scenari da guerra che fino ai ieri sembravano lontanissimi da una provincia che si pensava tranquilla per definizione. Adesso dietro ogni angolo sembra esserci un’ombra, nonostante le apparenze. Anzi, proprio come le apparenze.
Da un paio d’anni a questa parte, le Marche sembrano diventate l’Alabama d’Italia: nel luglio del 2016, a Fermo, il nigeriano Emmanuel Chidi Namdi fu ucciso a botte da Amedeo Mancini, ultras della Fermana, molto vicino agli ambienti dell’estrema destra locale. All’inizio di quest’anno, poi, a Spinetoli, in provincia di Ascoli Piceno, una palazzina destinata a occupare dei migranti è stata data alle fiamme, al culmine di un periodo di tensioni e proteste che aveva dilaniato il paesino, con il sindaco Alessandro Luciani (Pd) che ha manifestato con Lega e Casapound contro «il business dell’immigrazione» e la «falsa accoglienza». Il clima è pesante da tempo, e quanto accaduto a Macerata era in fondo preventivabile: a forza di alimentare l’odio, è naturale alla fine che qualcuno metta in pratica i propositi ascoltati e ripetuti a reti e blog unificati.
È così che, complice la campagna elettorale, in giro si trova anche chi è disposto a giustificare lo sparatore di Macerata, addirittura a difenderlo, a farlo diventare un simbolo della «razza bianca» (altrove evocata in questa tremenda campagna elettorale) vessata e minacciata dall’invasione.
«Un folle», hanno detto di Traini i più moderati. Un prodotto del clima di «esasperazione» dovuto ai troppi migranti nelle città. E già dietro alla costernazione si vede l’apologia. Perché se c’è una parola con la effe da usare in questo caso, non è «folle». È «fascista».
Repubblica 4.2.18
Chi fa finta di condannare
di Massimo Giannini
Prima o poi doveva succedere, in questa Italia del rancore. La “paranza dei razzisti”: un’automobile che sfreccia per le vie di una città, una mano che spunta dal finestrino e spara, spara su chiunque abbia la pelle di un colore diverso dal nostro. Siamo a Macerata, oggi. Non nel Mississippi di 50 anni fa. E nemmeno a Napoli, dove le “stese” le organizzano le baby gang per assicurarsi il controllo delle piazze dell’eroina, mentre qui invece l’ha organizzata un italiano di 28 anni, per consumare la sua atroce vendetta razziale. Qualcuno può pensare che Luca Traini, l’autore di questa agghiacciante “ caccia al nero”, sia uno squilibrato. Di certo ha costruito con atroce freddezza la sua missione di “ giustiziere”, proprio nei luoghi in cui uno spacciatore nigeriano è stato arrestato per un delitto mostruoso, l’assassinio della povera Pamela.
Poco importa. Quello che conta è il clima in cui germoglia questo orrore. Il veleno inoculato nelle vene del Paese in questi anni dagli “ impresari della paura”. Dalla destra sedicente “ sovranista”, che specula sulle angosce degli uomini spaventati dalla crisi e dalla globalizzazione. La destra intollerante e xenofoba, che oggi come 70 anni fa indica il nemico nel “diverso”, e compra un pugno di voti con la falsa promessa di una finta “protezione”. La destra di Salvini, che urla «quando governeremo ne cacceremo 500 mila». La destra di Fontana, che a Radio Padania grida « dobbiamo proteggere la razza bianca». La destra di Forza Nuova, che occupa le sedi dei giornali e delle Ong impegnate nel soccorso ai migranti.
“ Macerata Burning”. Ma com’è successo a Macerata, ormai può succedere ovunque. E quello che sgomenta davvero è la reazione di questa destra, di fronte alla mostruosa banalità di tanto male. Stavolta nessuno può parlare di una “ ragazzata goliardica”, come sempre fanno gli apprendisti stregoni del nuovo razzismo di Palazzo e gli opinionisti alle vongole che sdottoreggiano nei salotti televisivi. Questo è “terrorismo razziale”, punto e basta. Ti aspetteresti una condanna inequivoca, unanime e definitiva. E invece no. A conferma di quanto siano cinici, questi trafficanti di voti non condannano niente, ma in fondo giustificano. Giustifica Salvini, che blatera «la vera colpa è di chi apre le porte ai clandestini». Giustifica Meloni, che denuncia l’Italia insicura «in mano alla sinistra». Anche Berlusconi invoca a sua volta « più sicurezza nelle nostre città » . Il perché di questo giustificazionismo l’ha spiegato in un’intervista lo stesso Fontana, col suo terrificante candore: « Dopo la mia frase sulla razza bianca sono cresciuto nei sondaggi...».
Di fronte a questo abisso etico e politico non si può non dare ragione a Roberto Saviano, quando evoca la figura dei “mandanti morali”. E sgomenta quasi allo stesso modo che la sinistra non lo capisca, e balbetti frasi di circostanza: «Restiamo calmi», «Non ci faremo dividere » . Parole certo responsabili, ma in fondo anche impalpabili. Quella di Macerata è stata una “azione esemplare” che ne rievoca altre del nostro passato remoto e recente. È il culmine di una escalation cominciata da tempo, con gli stabilimenti balneari ispirati al Ventennio, i preti perseguitati per un bagno in piscina con i profughi, le ronde e i pestaggi per le strade, i cartelli in cui si legge “non si affitta ai migranti”.
Umberto Eco l’aveva chiamato “il Fascismo Eterno”. Non veste più in orbace. Indossa la felpa verde, o il giubbino nero. Ma è sempre quello. E c’è una destra politica che lo alimenta, o lo tollera, o non lo condanna mai abbastanza. Perché, come diceva Piero Gobetti, al fondo lo sente ancora come “una biografia della nazione”. Forse, a un mese dal voto, è il momento di dirlo in modo chiaro: una destra del genere non è degna di governare l’Italia.
Il Fatto 4.2.18
Macerata, i fattacci della vita che irrompono nelle urne
“La ragazza uccisa e fatta a pezzi da un nigeriano è un omicidio di Stato”
“Salvini è tra i responsabili di questa spirale di odio e violenza che dobbiamo fermare al più presto”
di Antonio Padellaro
La condanna del tentativo di strage fascista a Macerata deve essere naturalmente senza se e senza ma. E non saremo i soli a dire: ecco la conseguenza del clima infame che si è instaurato nel Paese a opera di chi da anni getta benzina sul fuoco del razzismo, dell’intolleranza e dell’odio pur di guadagnare voti. E se a Matteo Salvini e sodali fischiano le orecchie, ebbene sì è anche a loro che stiamo pensando. Ben sapendo che, mentre scriviamo, è già in azione la contraerea di chi capovolge i termini della questione e parla dell’atto di un esaltato ma anche di reazione esasperata dopo il massacro della povera Pamela Mastropietro. Che vede accusato un nigeriano senza permesso di soggiorno e dedito come tanti altri clandestini allo spaccio della droga. Dopodiché, oltre che nell’esprimere giudizi il nostro mestiere consiste principalmente nell’analisi di ciò che accade e nella ricerca delle possibili spiegazioni e delle prevedibili conseguenze. Le più immediate, a un mese esatto dal 4 marzo riguardano, logicamente, gli effetti che i tragici accadimenti di questi giorni e di queste ore rischiano di avere sul voto degli italiani. Che si tratti di fenomeni interdipendenti lo troviamo scritto con evidenza nella cronaca nera e nella cronaca politica contemporanea. Molti ricorderanno, per esempio, il caso di Giovanna Reggiani, la giovane donna uccisa dopo essere stata violentata e massacrata a Roma, nei pressi della stazione ferroviaria di Tor di Quinto. Autore dell’assassinio un muratore rumeno alloggiato nel vicino campo rom, poi condannato all’ergastolo. Era il 30 ottobre del 2007 e la città sprofondò in uno choc collettivo di insicurezza e paura. Cinicamente alimentato dalla destra che infatti pochi mesi dopo, nell’aprile 2008, riuscì a portare trionfalmente Gianni Alemanno in Campidoglio sovvertendo i pronostici favorevoli al candidato del centrosinistra Francesco Rutelli. Paura e insicurezza, tuttavia, che non si è certo inventate Salvini quando ha raccattato una Lega ai minimi termini quadruplicandone rapidamente i voti. Così come va riconosciuto che è stata la costante – e spesso insensata – sottovalutazione del problema sicurezza da parte della sinistra a portare acqua al mulino della destra leghista e di quella fascista risorgente (CasaPound, Forza Nuova). Meravigliarsi che nella pancia del Paese tanti e tali veleni provochino rabbia, violenza razzista e rigetto del problema immigrazione, è da ipocriti. Mentre cavalcare la canea, è da criminali. A questo punto, ricorrendo a una contabilità orrenda ma che è nelle cose, non possiamo sapere se il ragazzo italiano che spara sulle persone di colore farà perdere alla destra securitaria i voti, e quanti, che la ragazza italiana tagliata a pezzi probabilmente le aveva fatto guadagnare (anche se un’idea purtroppo ce la siamo fatta). Lo capiremo (forse) tra un mese. Di sicuro nelle scelte degli elettori contano enormemente di più i fatti della vita che ci minacciano (e qualche volta ci rassicurano) del carnevale di promesse inutili o impossibili che ci viene scaricato addosso dai partiti fuori dalla realtà.
Il Fatto 4.2.18
Dal Post alla Bbc. Tutto il mondo parla del raid razzista
L’inglese Bbc ma anche il Sun e il Washington Post. Il raid razzista avvenuto ieri nel centro di Macerata, nelle Marche, è finito sui principali siti e giornali di informazione del mondo. Luca Traini, 28 anni, ex candidato della Lega alle comunali di Corridonia (sempre in provincia di Macerata), dalla propria auto in corsa, ha sparato colpendo sei persone, tutte di origini africane. “Stranieri colpiti da una macchina in corsa”, titola la Bbc. E di questa vicenda ieri ne ha parlato anche il quotidiano britannico The Guardian, i tedeschi Bild e Frankfurter Allgemeine Zeitung e in Spagna El Pais. Il tabloid del Regno Unito, The Sun, scrive: “Restate in casa. Scuole chiuse dopo che un pazzo armato ferisce almeno sei immigrati in un attacco razzista in Italia”. L’allarme è quello lanciato, dopo che si era diffusa la notizia degli spari in pieno centro, dal sindaco di Macerata, Romano Carancini. Insomma i principali organi di informazione internazionale hanno raccontato cosa è avvenuto ieri in Italia seguendo passo passo l’evolversi della vicenda. La notizia non è stata ignorata neanche da Washington Post, Indipendent e Los Angeles Times fra gli altri.
Corriere 4.2.18Ora niente sia più come prima
di Antonio Polito
M acerata, Alabama. Forse per la prima volta nella nostra storia recente vediamo materializzarsi anche da noi l’incubo del terrore razzista. Non c’era infatti altro criterio se non quello razziale, ieri mattina, nella scelta delle vittime di Luca Traini: sparare a chiunque non fosse bianco. A ragione si era inciso un simbolo neonazista sulla tempia, era lo stesso criterio con il quale le Ss rastrellavano gli ebrei, o il Ku Klux Klan impiccava e bruciava i neri: ripulire la società da esseri ritenuti inferiori e impuri per mettere a posto tutto ciò che non va, e ripristinare l’ordine di un passato mitico e immaginato. Dobbiamo esserne spaventati. È un salto all’indietro della nostra civiltà che forse si poteva temere, ma che fino a poco tempo sarebbe stato inimmaginabile. Ora è accaduto, e dunque può accadere ancora. Dobbiamo aprire gli occhi su che cosa sta diventando l’Italia. E non a senso unico. Abbiamo innanzitutto la colpa di aver accettato senza preoccuparcene troppo lo sdoganamento del discorso di odio come forma abituale di polemica culturale e politica.
L e «parole ostili», la terminologia di guerra, gli stupri e le decapitazioni virtuali, la contrapposizione amico-nemico dominano ormai pezzi interi del dibattito pubblico, senza reazioni, nell’acquiescenza generale. Ne è testimonianza l’uso che ormai si fa correntemente della parola «stranieri»: con essa un tempo si intendevano i turisti, oggi invece ingloba le categorie di «nero», «islamico», «immigrato», «clandestino», senza distinzione tra di loro ma esclusivamente in quanto opposte a «italiano». Il criterio razziale si è insomma insediato tra noi, e ovviamente può sconvolgere la mente dei più deboli, dei più fanatici, eccitando una violenza da Taxi Driver tra i tanti «angry white men», giovani bianchi incazzati, che vivono anche nelle nostre città e nella nostra provincia.
Basta dunque scherzare col fuoco. La nuova destra leghista ha il dovere di separarsi radicalmente, più di quanto non abbia fatto in questi anni, dai residui dell’ideologia fascista e dalle farneticazioni sulla «razza» che hanno trovato nelle ondate migratorie l’habitat ideale per risorgere dalle ceneri della storia. Sappiamo benissimo che la felpa di Salvini non è l’orbace, ma il leader leghista deve sapere altrettanto bene che per lui non ci potrà mai essere nessuno spazio al governo di una grande nazione europea finché rimarrà la benché minima ambiguità sul tema del razzismo, nel suo movimento e in chi ci gira intorno. La coscienza democratica del Paese non lo permetterebbe, perché le ripugna quanto ha visto accadere ieri.
Bisogna però aprire gli occhi anche su altro. E cioè sul fatto che il modo caotico, non controllato, illegale, con cui i flussi migratori hanno «invaso» pezzi delle nostre città e delle nostre terre, ha provocato risentimento e rancore anche tra la gente perbene, magari un po’ tradizionalista ma nient’affatto razzista; non abbastanza ricca da godere dei vantaggi della società multietnica che le «anime belle» spacciano come destino ineluttabile della nazione, ma abbastanza operosa per pretendere con buon diritto più ordine, più rigore, più rispetto, più decoro, più sicurezza su un treno regionale o nel giardino pubblico di fronte a casa.
Macerata è la città dove una ragazza di diciotto anni che avrebbe potuto essere nostra figlia è appena stata uccisa e fatta a pezzi presumibilmente da uno spacciatore di origine nigeriana, ma è anche la città raccontata in un lungo reportage del Guardian come uno degli snodi cruciali in cui si combatte in Europa la battaglia per fermare lo sfruttamento delle ragazze africane vendute sulle strade. Tolleranza vuol dire anche tollerare questo? Ovviamente no. Bisogna allora che lo Stato per la sua parte e i media per la nostra lo dicano a voce talmente alta da farlo sentire anche a coloro che, lontani e frustrati, credono di essere stati traditi, si sentono soli, e perciò covano sentimenti di vendetta.
Ecco perché ci sembra infantile, oltre che pericoloso, cercare «mandanti morali» della tentata strage di Macerata in questo o quell’avversario, come ha fatto ieri lo scrittore Saviano incolpando Matteo Salvini. Chi condanna l’identificazione tra immigrato e delinquente dovrebbe saper anche discernere tra la polemica contro l’immigrazione e la violenza contro gli immigrati. Ed ecco perché abbiamo trovato le prime reazioni del mondo politico nettamente al di sotto della gravità di quanto è successo. Ognuno preoccupato di riaffermare le sue ragioni, di prendersi una rivincita polemica; nessuno disposto a riconoscere le buone ragioni dell’altro e a chiedere umilmente scusa per averle sottovalutate. Perché se siamo arrivati a questo punto non c’è un solo politico italiano che possa dire di aver avuto sempre ragione, o che oggi sappia dirci come uscirne.
La Stampa 4.2.18
Don Gahl (Opus Dei): tra omosessuali può esserci solo amicizia
“I corsi di fedeltà per i gay? I loro non sono matrimoni”
di Domenico Agasso Jr
«La fedeltà è un valore «che non va strumentalizzato». Tra due persone dello stesso sesso il rapporto può essere di amicizia e «di benevolenza», ma «mai assomigliare al matrimonio, perché la differenza e la complementarietà sono necessari per una famiglia». È la riflessione di don Robert Gahl, professore di Etica fondamentale alla Facoltà di Filosofia dell’Università Santa Croce, ateneo dell’Opus Dei, dopo la notizia del ritiro organizzato dalla Diocesi di Torino per single e coppie gay, sul tema «Degni di fedeltà».
Come si comporta la Chiesa con gli omosessuali?
«Non ingabbia le persone dentro categorie artificiali che riducono le persone a un loro aspetto particolare. Ogni essere umano è creato a immagine di Dio. Dato ciò, la Chiesa cerca di aiutare tutti a camminare verso Dio per poter vivere felici. Perciò, evita di applicare le etichette di “omosessuale” o di “gay”. E aiuta tutti ad ambire alla santità personale».
Ma che cosa significa «accompagnare le coppie gay»?
«La Chiesa accompagna tutti e le famiglie in modo speciale. Oltre alle coppie di coniugi, aiuta anche i fidanzati a prepararsi al matrimonio che è sempre tra un uomo e una donna ed è aperto a una nuova vita. Gesù ha predicato la purezza di cuore con la promessa di vedere Dio. La purezza è vissuta nella fedeltà matrimoniale e nell’astensione da ogni rapporto sessuale non matrimoniale».
Che cos’è la sessualità per la Chiesa?
«La Chiesa onora il corpo umano e vede nella sessualità una capacità di trascendenza in quanto capace di unire e procreare. Dato ciò, accompagna chi sperimenta attrazioni sessuali come accompagna tutti, e li aiuta a rispettare se stessi e gli altri mentre cerca di non cedere a qualsiasi tentazione».
Dove si deve cercare l’equilibrio tra rispetto dei diritti e l’importanza di portare la fede nella convivenza omosessuale?
«La Chiesa difende la democrazia e lo stato di diritto, mentre promuove il riconoscimento dell’istituzione civile millenaria del matrimonio indissolubile. Così difende i diritti di tutti. Le diverse forme di unioni civili non equiparabili al matrimonio potrebbero salvaguardare diritti legittimi».
Che significato ha promuovere la fedeltà nelle coppie gay? Un passo del genere come si colloca rispetto all’insegnamento della Chiesa?
«La fedeltà e l’amicizia sono valori, ma non devono essere confuse con occasioni di strumentalizzazione. La Chiesa chiede a tutte le coppie non sposate di astenersi dai rapporti sessuali, perlomeno finché la loro unione non sia saldata nel matrimonio. Se le due persone sono dello stesso sesso, il rapporto può essere di amicizia e di benevolenza, ma mai assomigliare al matrimonio. La differenza e la complementarietà sono necessari per fondare una famiglia».
Se una persona omosessuale ha rapporti occasionali può confessarsi e ricevere i sacramenti. Se vive un’unione stabile e non platonica c’è chiusura. È così?
«Tutti siamo peccatori e tutti i cristiani siamo chiamati a confessare i nostri peccati per ricevere l’assoluzione e la grazia di ricominciare con aiuto divino, anche quando può sembrare umanamente impossibile. Confessarsi è un’espressione di pentimento e il pentimento indica la decisione di non peccare più. Chi si confessa cerca un rimedio, non l’approvazione».
Il Fatto 4.2.18
La tesi di dottorato di Marianna Madia
“Violati gli standard accademici, molte fonti non sono citate”
La società Resis di Enrico Bucci riconosce che l’analisi del “Fatto” è stata “confermata” con piccole differenze
di Stefano Feltri e Laura Margottini
Marianna Madia non ha rispettato le regole sulle citazioni, ha messo nella sua tesi di dottorato interi brani di lavori altrui, l’analisi del Fatto per la quale il ministro ha minacciato querela (mai arrivata) “risulta confermata” ma è tutto a posto, perché in economia copiano tutti. Sono queste le sorprendenti conclusioni a cui arriva l’analisi firmata da Enrico Maria Bucci e dalla sua società Resis, incaricata di verificare per conto della scuola di alti studi Imt di Lucca se ci fosse stato plagio nella tesi della Madia, discussa nel 2008 con il professor Giorgio Rodano, ora in pensione, come relatore. Il documento di 51 pagine e datato 11 ottobre 2017 analizza i tre capitoli di cui è composto il lavoro finale della deputata Pd, per “accertare in maniera esaustiva se e quali brani di testo presenti nella tesi siano stati tratti da documenti precedenti”.
Il primo capitolo della tesi della Madia è un riepilogo della letteratura scientifica sul tema della flessibilità nel mercato del lavoro. Il secondo e il terzo dovrebbero essere i contributi originali. Anche l’analisi di Bucci per l’Imt conferma quanto rivelato dal Fatto: tutto il secondo capitolo si basa su un paper già presentato l’anno prima, Is there any relationship between the degree of labour market regulation and the degree of firm innovativeness? che però non è firmato dalla sola Madia, ma anche dalla sua collega di dottorato Caterina Giannetti. “L’identificazione di un lavoro come già pubblicato, proprio perché ciò costituisce titolo di merito per il candidato, deve sempre essere immediata ed ovvia”, osserva Bucci. Eppure la Madia omette che il capitolo 2 è la riproposizione di un paper già pubblicato e, così facendo, non rivela che è frutto di un lavoro di squadra con la Giannetti, prendendosi di fatto il merito di tutto il contenuto. Perfino il prudente Bucci deve concludere che “in questo caso, quindi, vi è certamente una deviazione dagli standard comunemente accettati per la citazione del proprio lavoro”.
In una nota c’è l’argomento per assolvere la Madia: se la comunità di riferimento – cioè i professori – già conosceva il lavoro, la citazione diventa “pleonastica”. Per sostenere questo punto, Bucci usa un singolare argomento: in entrambi i lavori, la tesi e il paper del 2007, ci sono brani ripresi da Wikipedia, 117 parole prese dalla voce “Labour Market Flexibility”, a loro volta pescate da altri lavori, e questo “costituisce un esempio emblematico di testo identificato come conservato (cioè copiato, ndr) da un software antiplagio, testo che tuttavia corrisponde ad una di quelle definizioni la cui provenienza, almeno in ambito econometrico, è così ovvia da essere usata ampiamente nella comunità di riferimento senza virgolette”. Non si capisce cosa c’entri l’ambito econometrico, visto che è soltanto una definizione, ma Bucci sostiene che Wikipedia copia senza citare le fonti, allora si può fare lo stesso anche in campo accademico.
Più complicato immaginare una giustificazione per un altro comportamento scorretto che l’analisi di Bucci certifica: la Madia usa un modello econometrico costruito da un altro economista, Pierre Mohen, senza specificarne la paternità. Bucci prima sostiene che Mohen è citato ben due volte nel capitolo (ma mai in corrispondenza del modello, chi legge pensa lo abbia costruito la Madia) e poi che la mancata citazione tra virgolette non è un problema perché “il testo riutilizzato da Madia era già precedentemente stato riusato proprio dagli stessi autori senza nessun uso di virgolette e nessuna attribuzione in bibliografia (per quel che riguarda la bibliografia contrariamente a quanto invece fatto dalla Madia stessa)”. Tradotto: poiché Mohen ha riutilizzato propri scritti e modelli in successivi lavori senza auto-citarsi, allora anche la Madia può saccheggiare Mohen senza citarlo. Si arriva al paradosso per cui la Madia viene presentata come più corretta dello stesso Mohen perché almeno menziona il primo paper (di Mohen, non di Madia) in bibliografia. Questo concetto viene ripreso in altri punti dell’analisi. Eppure secondo la Treccani è colpevole di plagio “chi pubblica o dà per propria l’opera letteraria o scientifica o artistica di altri; anche con riferimento a parte di opera che venga inserita nella propria senza indicazione della fonte”.
Nessuna menzione di auto-citazioni omesse dall’autore originario come attenuante.
Il capitolo 3 della tesi dovrebbe essere il più sofisticato e creativo, uno studio sulla flessibilità del lavoro con modello originale ed esperimento di economia comportamentale per testare la teoria. Anche qui, per le pagine 12 e 13, Bucci riconosce che “si può certamente identificare l’assenza di citazione della fonte, che non è riportata nemmeno in bibliografia o altrove nella tesi”. E per i brani ripresi da uno studio della Commissione europea “la fonte è completamente assente, né è riportata nemmeno in bibliografia o altrove nella tesi”. Bucci, per giustificare la Madia, arriva a sostenere che “poiché tale fonte è un documento di primaria importanza per i ricercatori del campo, si può ipotizzare che per tutti loro è ovvia la provenienza del materiale, o comunque non è importante specificarla nel dettaglio; il che costituisce una ulteriore evidenza del diverso standard del campo rispetto ad altre aree scientifiche”. In economia, insomma, copiano tutti senza citare. Quindi può farlo anche la Madia, visto “che il settore disciplinare all’interno del quale la tesi si situa tollera comportamenti che altrove sarebbero definiti inaccettabili”.
Per argomentare l’assoluzione della Madia nonostante quei “comportamenti inaccettabili”, il report di Bucci sceglie in modo arbitrario un testo citato nella bibliografia, firmato tra gli altri dal Nobel Franco Modigliani e da Paolo Sylos Labini, e pubblicato sulla rivista Bnl Quarterly Review. Un riassunto dei contenuti delle ricerche dei singoli autori, non un paper di ricerca scientifico passato al vaglio della peer review (il controllo incrociato di altri economisti) richiesto anche alle tesi di dottorato. “Anche questo lavoro, come la tesi oggetto di indagine, contiene numerosi brani tratti da testi precedenti, senza che la fonte sia citata, a conferma di uno standard diffuso nel settore”. La perizia certifica che la Madia non ha rispettato le regole ma la assolve sostenendo che “così fan tutti”. O almeno questo è lo standard giudicato accettabile dall’Imt di Lucca per la sua alunna più illustre.
Il Fatto 4.2.17
Lo scoop del “Fatto” e le minacce (senza esito) di querela
Il 28 marzo 2017 il Fatto pubblica il primo articolo sulla tesi di dottorato di Marianna Madia, ministro per la Pubblica amministrazione nei governi Gentiloni e Renzi. Dai controlli svolti con alcuni software anti-plagio, oggi diffusi in tutte le università ma all’epoca (2008) ancora non di uso abituale, risulta che molte parti della tesi dal tutolo “Essays on the Effects of Flexibility on Labour Market Outcome” risultano pressoché identici a quelli presenti in altre pubblicazioni. In 35 di 94 pagine della tesi (al netto di bibliografia, figure e tabelle) la fonte di quei passaggi non risulta citata laddove il ministro li riporta nella sua tesi. Col risultato che spesso non è possibile distinguere le parole originali della Madia da quelle di altri autori. Sono circa 4 mila le parole senza chiara attribuzione nei tre capitoli della tesi.
A fine 2008, la Madia (già parlamentare Pd) ha conseguito il titolo di dottorato alla Scuola Imt di Alti Studi di Lucca. Fabio Pammolli, allora rettore dello stesso Imt, e Giorgio Rodano, già professore ordinario di Economia all’Università Sapienza, erano i relatori della tesi. La pratica di riprendere interi passaggi senza citare la fonte all’interno del proprio testo è giudicata molto severamente nel mondo accademico. Anche il codice etico che Imt si è dato, con Pammolli rettore, definisce come plagio accademico “la presentazione delle parole o idee di altri come proprie”. E questo “può assumere varie forme” come “appropriarsi deliberatamente del lavoro di altri o non citare correttamente le fonti all’interno del proprio lavoro accademico.” Dal 2011 Imt ha messo a disposizione dei docenti un software anti-plagio, in grado di smascherare le parti copiate nelle tesi degli studenti.
Il Fatto ha subito cercato un confronto con il ministro Madia che si è limitata a rispondere via sms: “Non sta a me giudicare la qualità del mio prodotto, ma sono molto sicura della serietà del metodo. Di certo ogni fonte utilizzata è stata correttamente citata in bibliografia”. Poi, dopo la pubblicazione dell’articolo, ha annunciato di querelare il Fatto (querela mai arrivata). Salvo rare eccezioni, gli economisti italiani non hanno commentato la vicenda. L’Imt di Lucca ha avviato una indagine interna molto riservata per verificare se la tesi rispettava i criteri. Qui diamo conto dei risultati.
La Stampa 4.2.17
Gara di testimonial per lanciare Bonino
La sfida è superare il 3 per cento
Da Calenda a Gentiloni. E arriva Staino: “Compagni delusi dal Pd, votate Emma”
di Fabio Martini
La speaker della “kermesse Bonino” lo annuncia come fosse uno di quegli intermezzi simpatici, di solito immaginati per scaldare le platee: «E ora una piccola sorpresa, un graditissimo fuori programma, un intervento di Sergio Staino…». Lui, uno degli ultimi simboli di una certa tradizione comunista italiana, si avvia lentamente verso il palco, poggiandosi su un bastone e sul braccio del radicale Riccardo Magi e una volta conquistato il microfono, si prende la scena, facendo due cose che nessuno si aspetta. Si produce in una raffica di battute irriverenti e penetranti su Matteo Renzi, Maria Elena Boschi ma soprattutto si rivolge agli elettori del Pd incerti se votare il partito guidato da Renzi: «Tanti mi dicono, il Pd non lo voto più… Bene, io farò di tutto perché possano votare “Più Europa”. Perché sono sicuro che più cresce “Più Europa” e più si fa bene al Pd!». E al culmine di un applaudito show, Staino ha aggiunto: «Qualcuno mi chiede: e tu perché stai ancora nel Pd? Perché se c’è uno che deve andar via, quello non sono io!».
Un discorso per iperboli eppure insidioso, quello di Staino, perché sul fronte Pd il nervo scoperto dei prossimi 26 giorni di campagna elettorale è esattamente questo: evitare che i tantissimi elettori delusi o incerti (si calcola siano circa due milioni e mezzo) possano votare liste concorrenti, anziché tornare sulla via di casa. Ecco perché proprio l’intervento del toscanaccio Staino ha finito per diventare il momento paradossalmente più significativo, in una Convention, quella che ha aperto la campagna di “Più Europa”, che pure ha fatto segnare altri momenti importanti. Il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni e il ministro Carlo Calenda (di fatto diventato la “seconda punta” della lista Bonino) hanno tracciato un messaggio controcorrente: una parte del governo tifa per la leader radicale e perché la sua lista superi il 3 per cento. Anche se Paolo Gentiloni si è “limitato” a simpatizzare per la leader radicale: «Con Emma cammineremo insieme e possiamo vincere».
Eppure l’intervento che, allo “Spazio Novecento” dell’Eur ha fatto la differenza, è stato quello di Staino. Incipit bruciante: «Avevo appena promesso ad Emma di venire qui, mezzora dopo mi ha telefonato il segretario Pd di Scandicci: sabato viene Renzi, mi raccomando! E io, da ipocrita, come sappiamo essere noi fiorentini, ne avete molti esempi..., gli ho risposto: come fo’? Ho già un impegno... Dentro di me ho pensato: che culo!». E ancora: «Se me lo chiede Emma, sarei venuto pure a “Più Alto Adige” e il riferimento a Maria Elena è voluto! Vi sembra di buon gusto candidarsi in 5 posti blindati? È significativo del kitsch che ci affoga». Battute per D’Alema («c’è chi distribuisce mele avvelenate»), per Bersani («romanticismo patologico») e per Renzi: «Ha detto del suo programma “Cento passettini”... Nell’Italia di Impastato e dei 100 passi, tu mi parli dei cento passettini? Ma come ti permetti?».
Dopo il “salvatore” Bruno Tabacci (anche lui ha alluso al "voto utile”) i saluti di Anna Fendi, Stefania Sandrelli, Paolo Gentioni e prima della chiusura della Bonino, il più applaudito è stato Carlo Calenda. Ha annunciato che sosterrà «in tutti i modi» «Più Europa» con una motivazione semplice: «La sfida è tra un’Italia seria e una cialtrona». E ha aggiunto una chiosa inusuale nella politica attuale: «Voterò nel mio collegio per Gentiloni ed Emma con entusiasmo: sono dei signori e nella vita questo conta».
Repubblica 3.2.18
Nuovi alleati
Bonino schiera Calenda e il ministro attacca “Basta con i cialtroni”
di Giovanna Casadio
«Non sono riuscita a convincere Calenda a candidarsi… » . Emma Bonino ci ha provato senza successo, ma chissà che +Europa, la lista della leader radicale alleata con il Pd, non indichi post elezioni proprio il ministro dello Sviluppo economico per la premiership. La sintonia è tanta e reciproca. Calenda prende la parola nel giorno dell’avvio della campagna elettorale di Bonino all’Eur per dire che «ha creduto a questa operazione sin dall’inizio » , che quella di + Europa è « una battaglia per un’Italia seria contro un’Italia cialtrona». In prima fila «Emma e Paolo Gentiloni — li indica Calenda — che sono candidati nel collegio in cui sono residente, e che voterò non con piacere ma con entusiasmo perché sanno lavorare in squadra e sono due signori, che è una grande qualità anche politica ».
Con il Pd di Renzi c’è una certa distanza. La stessa che Bonino rivendica: « Io non ho mai lesinato critiche a Renzi e al Pd sui conti pubblici, sull’Europa, ma lo voglio dire a D’Alema che mi attacca: il mio avversario non è il Pd. Non giocherò al tanto peggio, tanto meglio per una resa dei conti interna alla sinistra. Il mio avversario è Di Maio, Salvini e compagnia bella. Non voglio assistere neutrale alla vittoria dei nazionalisti xenofobi che sono contro l’Ue e l’Italia. Nessuno poi si lamenti se si arriverà ad un governo Salvini- Di Maio. Le cose accadono anche quelle che sembrano impensabili. Con un governo sovranista, l’Italia un fuscello».
Un pezzo del programma di + Europa sono le analisi e proposte di Calenda- Bentivogli. Non vanno nella direzione della politica dei bonus. E a sorpresa interviene Sergio Staino, convinto a esserci « da quel democristianaccio di Bruno Tabacci», uno dei leader con Benedetto Della Vedova e Riccardo Magi del movimento europeista. Show di Staino. « Dovevo essere a Scandicci, veniva Renzi, ma ho fatto sapere: come fo’, ho promesso a Emma e nel frattempo pensavo “madonna che fondoschiena ho avuto”. Ha sbagliato Renzi a candidare la Maria Elena in Trentino e a blindarla. Ma come si fa, neppure Togliatti..., è kitsch, lo impone il galateo di donna Letizia. Il Pd affoga per superficialità, nel paese di Impastato e dei cento passi, quelli del programma dem non si possono chiamare passettini». Il vignettista ringrazia + Europa e invita i compagni che non vogliono più votare il Pd a votare per Bonino. Perché «Fassina e Civati sono bravi ragazzi ma non capiscono un cazzo e con Bersani non si può più parlare. » . Gentiloni dal palco pone temi per il futuro. Così Bonino, che fa riferimento alla sua malattia invitando: « Affidiamoci a medici non a guaritori». A fare il tifo Stefania Sandrelli e Anna Fendi.
il manifesto 4.2.18
Il gas, scintilla della nuova guerra tra Israele ed Hezbollah
Israele/Libano. Il movimento sciita ha condannato il ministro della difesa israeliano Lieberman che reclama il blocco 9 del giacimento di gas nel Mediterraneo orientale. «Si tratta di una nuova espressione dell'avidità di Israele». Tel Aviv intanto avverte: Beirut pagherà a caro prezzo l'inizio di una nuova guerra
di Michele Giorgio
Si pensa all’intrigato scenario siriano, alle Alture del Golan occupate o alla tensione lungo il confine tra Libano e Israele quando si fanno previsioni sulla prossima e sempre più vicina guerra tra Hezbollah e lo Stato ebraico, secondo round di quella del 2006 (1.200 libanesi e 158 israeliani uccisi). E invece la scintilla del nuovo conflitto rischia di sprigionarsi da un’altra parte, nel mare. Il casus belli potrebbe rivelarsi il controllo di giacimenti di gas sottomarino. Due giorni fa il movimento sciita libanese ha condannato il ministro della difesa israeliano, Avigdor Lieberman, che tre giorni fa aveva reclamato il controllo del suo Paese sul giacimento conosciuto come blocco 9 che il Libano considera all’interno delle sue acque territoriali e che per la sua esplorazione ha coinvolto anche l’italiana Eni. «Si tratta di una nuova espressione dell’avidità di Israele che vuole le ricchezze del Libano, le sue terre e la sua acqua. Queste dichiarazioni fanno parte della politica aggressiva contro il Libano, la sua sovranità e i suoi diritti legittimi», ha protestato Hezbollah, unendosi alle parole di condanna pronunciate dal capo dello stato Michel Aoun. Mercoledì era stato il premier Saad Hariri a contestare le affermazioni di Lieberman e a ribadire la sovranità libanese sul blocco 9.
Libano e Israele hanno una disputa irrisolta su una zona triangolare di mare di circa 860 km quadrati che si estende lungo il bordo di tre blocchi del giacimento di gas. Secondo Lieberman il blocco 9 sarebbe israeliano e, ha commentato durante una conferenza sulla sicurezza a Tel Aviv, «malgrado ciò Beirut ha deciso di indire un’asta» per l’assegnazione delle esplorazioni. Il Libano è situato sul Bacino del Levante, un vasto giacimento scoperto a partire dal 2009 che si estende nel Mediterraneo orientale e comprende anche Cipro, Egitto, Israele e Siria. Lo scorso 14 dicembre il Consiglio dei ministri libanese aveva approvato l’assegnazione delle licenze a un consorzio formato da Eni, Total e dalla russa Novatek, per l’esplorazione di due giacimenti offshore: il blocco 4, di fronte alla costa centrale del Paese, e, appunto, il blocco 9, più a sud a ridosso di Israele. Da qui l’ingresso in campo di Lieberman. «Pubblicare una gara d’appalto su un giacimento di gas, compreso il blocco 9, che, secondo qualsiasi norma, è nostro, rappresenta una condotta molto, molto provocatoria» ha avvertito il ministro della difesa israeliano. Il ministro degli esteri libanese, Gebran Bassil, ha replicato annunciando di aver inviato una lettera alle Nazioni Unite in cui si afferma il diritto del Libano a difendersi e a proteggere i suoi interessi economici.
Ma Lieberma durante la conferenza è stato molto esplicito anche sulla possibilità di una nuova guerra, figlia a suo dire dell’espansione dell’influenza iraniana nella regione. E ha avvertito che il Libano sarà ritenuto responsabile di una futura guerra perché, a suo dire, avrebbe «sacrificato i suoi interessi nazionali sottomettendosi completamente all’Iran. L’esercito del Libano e le milizie di Hezbollah sono gli stessi: pagheranno tutti per intero il prezzo in caso di un’escalation». Lieberman non ha escluso una invasione ampia del Paese dei Cedri: «Non consentiremo scene come nel 2006, quando abbiamo visto i cittadini di Beirut sulla spiaggia mentre gli israeliani a Tel Aviv si trovavano nei rifugi». A fine gennaio il portavoce delle Forze Armate israeliane, generale Ronen Manelis, aveva detto che «il Libano è diventato una grande fabbrica di missili (iraniani), sia per le sue azioni e omissioni, sia per la comunità internazionale che chiuso gli occhi». Ha quindi puntato il dito verso Hezbollah in possesso, pare, di circa 100 mila missili a corto e medio raggio, quindi in grado di raggiungere ogni angolo di Israele, e capace di mobilitare circa 30 mila combattenti, ben addestrati, per contrastare un’eventuale invasione israeliana di terra e lanciare attacchi oltre il confine.
Sul ruolo dell’esercito libanese intanto continua la disputa tra Israele e l’Amministrazione Trump. Washington promette altri aiuti militari a Beirut, invece il governo Netanyahu chiede di bloccarli perché, come ha affermato Lieberman, le forze armate libanesi non sono rivali bensì alleate di Hezbollah.
Il Fatto 4.2.18
Tra Israele e Rwanda il business dei profughi africani deportati
Denuncia. Ong contro il piano del governo per liberarsi di decine di migliaia di migranti bloccati
Grosse grane. Il premier israeliano Benjamnin Netanyahu
di Roberta Zunini
“Forse non ve ne rendete conto, ma riguarda anche l’Europa, specialmente l’Italia in quanto tra i principali paesi di transito per chi vuole entrare nell’Unione via mare, l’espulsione in Rwanda e Uganda dei migranti sans papier che vivono da anni in Israele”. Chi lo afferma è l’avvocato Iftach Cohen, consulente di bibliotheque sans frontieres per il Mediterraneo e tra i fondatori nel 2010 della prima organizzazione non governativa israeliana We are refugees per offrire gratuitamente rappresentanza legale ai migranti e prevenirne l’arresto o l’espulsione in un paese terzo.
Pur essendo annosa, la questione dei circa 40mila rifugiati richiedenti asilo in Israele è salita agli onori della cronaca internazionale però solo a metà dicembre scorso quando la Knesset ha votato a favore dell’aumento delle misure restrittive e deciso la chiusura entro marzo del centro di detenzione di Holot, nel deserto del Negev. Da allora non solo gli attivisti locali per i diritti umani, gli intellettuali come David Grossman (che era membro dell’Ong), Oz e Yehoshua ma anche numerosi piloti della linea di bandiera israeliana e alcuni medici degli ospedali pubblici hanno dichiarato di essere contrari alle detenzioni e alle espulsioni. Ma è stato solo quando pochi giorni fa 36 sopravvissuti ai lager nazisti hanno scritto una lettera aperta al premier Netanyahu che la sorte di migliaia di eritrei e sudanesi, alcuni nati già in Israele, è stata intrecciata plasticamente al destino del popolo ebraico, diaspora compresa.
Indipendentemente da ciò che avverrà a partire da marzo, questa iniziativa ha avuto, unica, la forza di scatenare un dibattito, perché le parole degli scampati ai rastrellamenti e alle camere a gas, non possono non toccare le coscienze di chi è stato per antonomasia vittima o ha avuto familiari vittime di deportazioni. “Sappiamo bene cosa significa essere rifugiati. Non espellete i profughi africani, il loro destino è come il nostro: così li condannate a sofferenze, torture e morte”, hanno scritto nella loro lettera al premier questi ultimi testimoni della Shoah. Anche numerosi rabbini hanno deciso di schierarsi a favore dei richiedenti asilo, paragonando le sofferenze di Anna Frank. Molti di loro si sono dichiarati disposti a dare ospitalità ai rifugiati, contravvenendo alla legge, qualora il premier Netanyahu darà il via alle espulsioni – secondo i media dietro compenso di 5mila dollari a rifugiato – nei due paesi africani.
“Nonostante il governo israeliano non abbia mai svelato il nome dei paesi terzi e Uganda e Rwanda abbiano negato di aver stretto un patto, ci sono molte testimonianze raccolte dai media che mostrano la vita miserabile che i richiedenti asilo mandati in Rwanda devono affrontare perché a nessuno di loro è mai stato concesso alcun visto umanitario bensì un lascia passare turistico di pochi mesi e quindi il limbo, come in Israele del resto”, spiega l’avvocato Cohen. Siccome Israele non può espellere gli eritrei e i sudanesi, seguendo la consuetudine internazionale che li considera comunque in pericolo per la situazione politica dei loro paesi, era stato trovato dalle autorità l’escamotage di metterli in un centro di detenzione fino a un massimo di 3 anni per indurli a firmare un documento per il rimpatrio volontario in paesi terzi.
Fu proprio Cohen, assieme ai rappresentanti di altre organizzazioni non governative, a redigere un appello alla Corte Suprema per l’incostituzionalità di questa norma. Appello che venne accolto dai giudici con grande sorpresa anche dell’opinione pubblica dato che la Corte fino ad allora non aveva mai abolito una legge di stampo politico. “Il problema però non è stato risolto perché i migranti anche se ancora sul territorio israeliano vivono in un limbo dove però almeno hanno più probabilità di trovare cibo e un lavoro anche se in nero. In Rwanda e Uganda è decisamente peggio”, conclude l’avvocato israeliano. Nei giorni scorsi ci sono state numerose manifestazioni a Tel Aviv e a Gerusalemme davanti alle residenze del primo ministro e del presidente della Repubblica in cui venivano esibite le fotografie di coloro che, avendo preferito evitare di vivere per tre anni nel centro di detenzione di Holot o da “infiltrati” – come vengono chiamati ufficialmente i richiedenti asilo – avevano scelto di aderire al programma di rimpatrio volontario. Questi “infiltrati” sono morti in seguito sul territorio libico o in mare nel tentativo di raggiungere l’Europa dopo la traumatica esperienza israeliana e rwandese.
Corriere 4.2.18
Raid d’Israele nel Sinai Con l’ok dell’Egitto
Per combattere l’Isis, Israele avrebbe compiuto un centinaio di raid nel Sinai con il permesso dell’Egitto. Una vera «guerra segreta», con 100 operazioni in 2 anni, in media uno a settimana, contro i gruppi terroristici affiliati allo Stato islamico. L’«alleanza segreta» tra i due Paesi — rivelata dal New York Times che cita 7 funzionari americani e britannici — ha permesso di ottenere risultati concreti nella lotta anti jihadista. Le operazioni — né confermate né smentite da Israele e dall’Egitto — sono state condotte con «aerei, droni, elicotteri senza insegne».
Repubblica 4.2.18
Scoop NYTimes
Un patto segreto per raid israeliani sul Sinai egiziano
di Francesca Caferri
Da oltre due anni Israele conduce attacchi mirati nella penisola del Sinai con il benestare del governo egiziano, a cui appartiene il territorio. È questo il sunto di un’inchiesta del New York Times che tramite l’ausilio di sette fonti britanniche e americane ha ricostruito l’attività israeliana contro i jihadisti vicini allo Stato islamico che negli ultimi anni hanno fatto della Penisola una delle loro più pericolose basi nella regione.
Le incursioni di jet e droni israeliani sarebbero iniziate, ricostruisce il quotidiano, dopo una serie di eventi che hanno messo il Sinai al centro dell’attenzione degli analisti: l’uccisione di centinaia di militari egiziani in diverse azioni, l’assedio e poi la presa (di breve durata) della cittadina di Al Arish e soprattutto l’abbattimento nel 2015 di un jet russo carico di turisti di ritorno dal Mar Rosso. In seguito a tutto questo, un accordo segreto fra i due Paesi avrebbe permesso a Israele di operare nel Sinai: un punto di snodo fondamentale per lo Stato ebraico, timoroso di un possibile allargamento delle attività dei jihadisti verso i suoi confini. L’accordo è finora rimasto nel massimo riserbo: per l’Egitto, che sulla carta è uno dei massimi difensori della causa palestinese e che è già accusato di collaborare con Israele aprendo e chiudendo a suo piacimento il valico che collega il Sinai con la Striscia di Gaza, una collaborazione ufficiale sarebbe alquanto imbarazzante. E di certo foriera di ulteriori tensioni interne. Per questo i jet israeliani seguirebbero nelle loro missioni percorsi particolari, volti a far perdere ogni traccia dell’aeroporto di decollo e atterraggio.
La collaborazione fra i due Paesi è l’ennesimo segno di uno spostamento delle alleanze in Medio Oriente, dove l’ascesa dell’Iran sta avvicinando nel nome del nemico comune governi che ufficialmente non hanno relazioni diplomatiche Israele e Arabia Saudita - o che, sempre ufficialmente, mantengono rapporti tesi: Israele ed Egitto, appunto.
il manifesto 4.2.18
Kaczynski: «Non vogliamo tutta la colpa della Shoah»
di Jaroslaw Kaczynski
di Giuseppe Sedia
VARSAVIA Varsavia non ha intenzione di fare retromarcia sul provvedimento che intende punire con il carcere chi utilizza espressioni come «campi della morte polacchi» in patria o all’estero.
La maggioranza della destra populista di Diritto e giustizia (PiS) punta tutto sull’aftercare diplomatico per ricucire i rapporti con Israele, ma soltanto dopo la firma del controverso emendamento da parte del presidente polacco Andrzej Duda che dovrebbe arrivare nelle prossime tre settimane. A quel punto Varsavia sarebbe disposta a sedersi al tavolo con Tel Aviv per discutere eventuali modifiche alla legge. Ma non è detto che Israele accetti.
Intanto il ministero degli Esteri polacco ha fornito istruzioni dettagliate ai suoi ambasciatori per spiegare fuori dal paese una legge che gode del largo sostegno della popolazione: nessun atteggiamento negazionista dei pogrom come quello di Jedwabne, definiti episodi «sconvolgenti e vergognosi» che si sono verificati in tutto il continente europeo e anche in territorio polacco. I diplomatici cercheranno anche di smontare la teoria dell’effetto-sorpresa da parte di Israele che sarebbe stato a conoscenza delle intenzioni di Varsavia da almeno un anno e mezzo.
L’emendamento alla legge sull’istituto della memoria nazionale (Ipn) non ha mandato su tutte le furie soltanto Israele e Stati Uniti ma anche l’Ucraina. Il testo della legge punta a criminalizzare il negazionismo sui crimini perpetrati dai sostenitori di Stepan Bandera e più in generale sulle «azioni commesse dai nazionalisti ucraini dal 1925 al 1950, caratterizzate dall’uso della forza, del terrore o di altre forme di violazione dei diritti umani contro la popolazione polacca».
«Il provvedimento sul divieto dell’ideologia di Bandera non è in linea con i principi di una partnership strategica tra Polonia e Ucraina», ha dichiarato il presidente ucraino Petro Poroshenko. Considerato un eroe in patria, Bandera è stato il leader di quell’Organizzazione dei nazionalisti ucraini (Oun) che collaborò con le autorità naziste nelle stragi di soldati sovietici e che fu coinvolto anche in massacri che costarono la vita anche a numerosi polacchi nelle zone dei vecchi confini tra le due nazioni.
«Abbiamo perdonato e chiesto perdono. Questa è la nostra strategia benedetta da papa Giovanni Paolo II. Siamo proiettati in un futuro in cui i politici non fabbricano più il proprio consenso sulle ossa e le tombe», ha commentato invece la responsabile della commissione degli Affari esteri ucraina Hanna Hopko.
L’emendamento alla legge dell’Ipn getta altro sale in una ferita ancora aperta che continua a pesare nelle relazioni tra i due paesi vicini. A luglio 2016, il Sejm, la Camera bassa del parlamento polacco, ha approvato una risoluzione che equipara il massacro della Volinia compiuto dall’Oun durante la seconda guerra mondiale, ad un genocidio, suscitando lo sdegno dell’Ucraina.
il manifesto 4.2.18
«Cara Ahed», 700 ebrei americani scrivono alla giovane Tamimi
Palestina. Le lettere di centinaia di giovani ebrei dagli Stati uniti sono state recapitate al villaggio di Nabi Saleh. La 17enne palestinese in attesa dell'udienza del 6 febbraio
Ieri di fronte alla prigione israeliana di Hasharon decine di persone hanno manifestato in solidarietà con Ahed Tamimi, la 17enne palestinese detenuta con la madre Nariman dal 19 dicembre con l’accusa di aver preso a calci un soldato. Rinviata più volte, l’udienza alla corte militare di Ofer è prevista per martedì 6 febbraio. Tamimi è accusata di 13 reati diversi e rischia anni di prigione.
Il 31 gennaio – giorno in cui avrebbe dovuto tenersi l’udienza, poi rinviata – ha compiuto 17 anni. Per l’occasione sono stati migliaia i messaggi di solidarietà da tutto il mondo.
Tra questi quelli di oltre 700 giovani ebrei americani che, tramite due gruppi anti-occupazione, IfNotNow e All That’s Left, hanno fatto recapitare venerdì le loro lettere al padre Bassem, nel villaggio di Nabi Saleh, in Cisgiordania. In contemporanea si sono svolti sit-in per chiederne il rilascio a New York, Boston e Washington.
La Stampa 4.2.18
Fra treni elettrici e metro tecnologiche
Africa ad alta velocità con i soldi cinesi
Dal Kenya alla Nigeria, il boom delle ferrovie spinge il Pil e abbatte i tempi di consegna delle merci
di Lorenzo Simoncelli
I vagoni sgangherati e anneriti dalle locomotive a carbone sono un lontano ricordo per l’Africa del nuovo millennio. Un Continente che accelera ad alta velocità anche sulle ferrovie, cruciali per abbattere i tempi per la spedizione delle merci. A dare una mano l’iniziativa cinese «Una cintura e una via»: la nuova «Via della Seta» arrivata dall’Estremo Oriente fino in Nigeria passando per il Corno d’Africa. Come nel 1975, quando fu realizzato il Tazara Express, il primo treno finanziato dalla Cina che collega Dar Es Salaam, capitale della Tanzania, a Kapiri Mposhi (Zambia), senza l’intervento di Pechino le ferrovie africane sarebbero ancora impantanate nei collegamenti a singhiozzo di epoca coloniale. Allora l’investimento fu motivato dalla condivisione dei valori socialisti che univano la Cina al pan-africanismo, oggi prevalgono le leggi economiche.
Così, in cambio di materie prime, Pechino inietta miliardi di dollari sui binari africani. Kenya, Etiopia e Nigeria sono i tre Stati simbolo della trasformazione in corso.
I tempi del «Lunatic Express», il treno costruito dagli inglesi durante la colonizzazione in Kenya, ed il cui nome non lasciava presagire niente di buono, sono lontani ricordi. Dal maggio del 2017 è stato sostituito dal Madarak («potere» in swahili), un convoglio in grado di percorrere i 450 chilometri che dividono la capitale Nairobi dalla città costiera di Mombasa, in 4 ore e mezzo. Un’opera costata 3,2 miliardi di dollari, terminata in 3 anni e mezzo con 18 mesi d’anticipo sulla tabella di marcia e finanziata per l’80% dalla Exim Bank cinese. Un progetto che ha creato 50 mila posti di lavoro e contribuito a far crescere il Pil nazionale del 2%.
E non è finita qui perché la China Road and Bridge Corporation per altri 3,6 miliardi di dollari si è aggiudicata anche l’appalto per il proseguimento verso Ovest della tratta. Si arriverà, infatti, fino a Kisimu, quasi al confine con l’Uganda. Si tratta del progetto infrastrutturale più imponente nella storia del Kenya post-indipendenza e che dovrà essere ripagato in 40 anni alla Cina che intanto recupererà i proventi dai primi 10 anni di attività. Nel prossimo decennio l’intenzione è di estendere la linea ferroviaria ad altri Paesi dell’Africa orientale non bagnati dal mare, come Congo, Ruanda, Etiopia, ma le guerre che dilaniano Paesi come Centrafrica e Sud Sudan stanno ritardano la pianificazione del progetto.
Pochi chilometri più a Nord, dopo aver realizzato la prima metropolitana di superficie in Africa nella capitale etiope Addis Abeba, Pechino ha messo la firma anche sul primo treno elettrico che collega l’Etiopia a Gibuti, un piccolo Stato che si affaccia sul Golfo di Aden, ma di cruciale importanza geopolitica. Quasi 800 chilometri di ferrovia che hanno permesso alle merci etiopi di prendere il largo verso Oriente in meno di 10 ore, rispetto ai tre giorni di strade sterrate che dovevano affrontare i camion prima della costruzione della ferrovia. Un risparmio economico stimato tra 0,08 e 0,20 centesimo di dollaro a tonnellata. Costata 3,4 miliardi di dollari, finanziata al 70% da Exim Bank China, è la prima parte di un progetto che mira a costruire in Etiopia 5 mila chilometri di binari entro il 2020. Le due società costruttrici, la China Railway Group e la China Civil Engineering Company, puntano al grande sogno di creare un’unica linea ferroviaria che attraversi l’Africa da Est ad Ovest riducendo così a pochi giorni le tre settimane necessarie oggi per circumnavigare il continente.
E in parte i primi risultati si stanno già vedendo con la realizzazione del primo treno ad alta velocità dell’Africa occidentale che collega Abuja, capitale della Nigeria, a Kaduna, località settentrionale del più popoloso Paese d’Africa. Convogli capaci di raggiungere i 150 chilometri all’ora e che nel primo anno e mezzo di attività hanno trasportato già oltre 200 mila persone. Un progetto costato 849 milioni di dollari ed ancora una volta finanziato all’80% dalla banca cinese EximBank. Il biglietto della tratta, assicurata due volte al giorno, costa circa 3,35 euro in classe economica e 5,33 euro in prima classe. La ferrovia è diventata il mezzo di trasporto più economico ma soprattutto più sicuro per attraversare una regione colpita dal gruppo terrorista Boko Haram.
il manifesto 4.2.18
Un’etica mondana che rinnova la saggezza epicurea
Classici francesi. Più che trasparenti insegnamenti di vita, «Le Favole» propongono una lezione di tolleranza alla Montaigne, mentre la loro spietata antropologia della modernità viene da La Rochefoucauld: esce ora da Marsilio una nuova traduzione in versi di Luca Pietromarchi
di Pierluigi Pellini
Sorte infelice, in Italia, quella di La Fontaine: molte delle sue Favole godono di memorabile esemplarità; eppure dell’intera opera, in dodici libri, esistono soltanto due traduzioni ottocentesche: quella fortunata di Emilio De Marchi – del 1886, ancora ristampata in anni recenti (Rizzoli 1980, Einaudi 1995) – e quella dimenticata di Giosafatte Zappi, del 1888. Il capolavoro di uno dei classici del grand siècle francese da noi è un libro letto poco e male: nell’immaginario collettivo si confonde con le sue fonti (Esopo, Fedro, apologhi latini, arabi, umanistico-rinascimentali), o con le sue riscritture, quasi sempre confinate nel limbo della letteratura per l’infanzia; nel migliore dei casi, è riproposto in scelte parziali, come quella allestita, in prosa, da Vivian Lamarque nel 1997, e da poco tornata in libreria negli «Oscar Classici». Nella versione integrale, è sfigurato dai versi di De Marchi che, per scandire facili rime con un assiduo lavoro di forbici e rattoppi, perde allusività, ambivalenze, sprezzature, che fanno la grandezza dell’originale.
Buona la resa della duttilità
Colma perciò una vera lacuna il lavoro di Luca Pietromarchi, curatore di una nuova traduzione in versi dell’integralità (per ora) della prima parte dell’opera, quella apparsa nel 1668: La Fontaine, Favole (Libri I-VI), con testo a fronte (Marsilio, pp. 528, € 28,00). Fin dalla densa Introduzione, con un mimetismo che tradisce qualcosa di più di un’impeccabile competenza, tracimando volentieri nell’appassionata adesione esistenziale, Pietromarchi trova il tono giusto: ispirato a una misurata eleganza, e graziato da una sfuggente ironia. La traduzione riesce così a riprodurre lo stile mai corrivo, bensì «naturale, familiare, scorrevole e spiritoso», e «sempre libero di scavallare dal sublime al grottesco»; ed è capace di fondere, come La Fontaine, i poli opposti della manierata sostenutezza mondana e del risentito scarto idiosincratico. In versi a volte regolari, altre volte ipermetri o ipometri, con intermittente ricorso alla rima, la versione di Pietromarchi riesce a far propria quella «duttilità» che, anche da un punto di vista ideologico, è la cifra più profonda delle Favole.
La Fontaine racconta, in più o meno trasparente allegoria, come siamo, non chi siamo. Si disinteressa di ogni metafisica per riflettere con tollerante scetticismo, ma anche con dolente risentimento, sui comportamenti di un’umanità già di fatto secolarizzata, sui suoi (molti) vizi e sulle sue (scarse, minime, ma resistenti) virtù. Paradossalmente, pochi testi appaiono, nel profondo, meno assertivi di queste Favole, la cui dedica al Delfino, e la cui appartenenza a un genere didascalico, giustificano nondimeno la lettura pedagogica cui la scuola continua a destinarle.
In realtà, più che trasparenti insegnamenti di vita, il libro di La Fontaine contiene un’etica mondana che riassume e rinnova la saggezza tutta terrena della tradizione epicurea, e accoglie da Montaigne una lezione di relativismo e tolleranza. Per questo, da un testo all’altro, La Fontaine non teme di ripensare e correggere, o perfino contraddire, ogni troppo univoca conclusione: unico valore da difendere sempre e comunque essendo la vita (teste Mecenate: «Che io diventi impotente, / storpio, gottoso o monco, purché rimanga vivo»), minacciata dall’universale dominio della sopraffazione. Al punto che, una volta, nel Bambino e il Maestro, il distico conclusivo nega addirittura la legittimità della morale: «Ehi, amico, salvami la pelle: / la predica, la farai dopo».
Perciò ogni lettura antologica risulta fuorviante, riducendo appunto l’opera a coerente florilegio di exempla educativi. Se c’è, di norma, in ciascuna favola un intento educativo – conviene esser Formica piuttosto che Cicala; è inutile far valere la ragione contro la forza bruta: Il Lupo e l’Agnello; meglio una serena frugalità che una pericolosa abbondanza: Il Topo di città e il Topo di campagna; e così via –, l’ambivalenza s’impone non solo e non tanto perché la morale in alcuni casi è omessa, rimanendo così implicita o perfino incerta (e contravvenendo alle regole classiche del genere, che non prevedevano «la favola nuda e cruda»); e nemmeno perché ben poche volte le buone azioni sono ricompensate (tutto è, quello di La Fontaine, fuorché un mondo edificante); quanto perché l’insegnamento che il lettore può trarre dal singolo testo entra in risonanza, e non di rado in dissonanza, con quello suggerito dagli altri.
Per un verso, non c’è nelle Favole vizio più spregevole della vanità che induce a esibire un profilo menzognero: ne sono vittima l’insulsa Rana che si gonfia fino a esplodere per somigliare a un Bue; o il Corvo che vorrebbe, come l’Aquila, rapire una pecora; o, in modi diversi, il parodico avatar di Pigmalione che, innamorato della sua Gatta, ottiene dal Destino che sia trasformata in donna, salvo poi vederla balzare su un topo nel bel mezzo di un amplesso.
er un altro verso, questa pedagogia conservatrice – «Conosci i tuoi limiti», «Chi è lupo si comporti da lupo», e insomma «occorre accontentarsi della propria condizione» –, oggetto degli strali miopi di Rousseau, è smentita dalla frequente, esplicita adesione alla causa dei «piccoli», animali o uomini, dall’esaltazione partecipe delle loro minime, tenaci virtù, della loro capacità di scansare i colpi, come in Topi e Donnole in guerra. Così, in una favola bellissima e non fra le più note – L’Aquila e lo Scarabeo – con raro esempio di amicizia e solidarietà, un insetto vendica la morte del coniglio suo compare, distruggendo le uova del re degli uccelli. O ancora: se la vicenda di un altro insetto mostra che «tra i nemici / i piccoli sono spesso i più temibili» (Il Leone e il Moscerino), al contrario un’altra Rana, non obnubilata dalla vanità, ricorda che «in ogni tempo / i piccoli han patito le follie dei grandi» (I due Tori e la Rana). Gli esempi si potrebbero moltiplicare.
Il conflitto, condizione naturale
In generale, la vanagloria di uno sconsiderato «amor proprio» è vizio non meno nefasto del suo contrario, l’invidia; e il punto d’equilibrio, la classica misura dell’honnête homme, si rivela utopica astrazione, assai più che concreto modello pedagogico. Può incarnarsi sulla pagina, nella perfezione dello stile; non nelle vicende reali.
Ovunque, infatti, nei loro temi le Favole squadernano la brutalità cieca e irredimibile dei rapporti di forza; e fanno del conflitto la condizione naturale di ogni esistenza: «La pace è una buona cosa», ma nell’universale malafede non c’è trattato che regga; sicché «ai malvagi occorre dare sempre guerra» (I Lupi e le Pecore). Al libro intero soggiace una disperata riflessione sul potere e sulla violenza, che smentisce una morale fra le più ireniche («Più riesce alla dolcezza che non alla violenza»), e si carica di precise, coraggiose allusioni alla politica contemporanea. A più riprese, il capolavoro di La Fontaine richiama segretamente la tragica vicenda del primo mecenate dell’autore, il potente Nicolas Fouquet, splendido signore di Vaux-le-Vicomte, imprigionato a vita da Luigi XIV per timore di venirne offuscato. Pochissimi ebbero il coraggio di supplicare il Re Sole affinché gli rendesse la libertà: fra loro, La Fontaine.
Anche per questo, è senza ombra di servilismo che l’etica mondana e tollerante, ma alla lettera resistenziale, delle sue Favole può eleggere a emblema non la Quercia ma la Canna («Mi piego, e non mi spezzo»); o perfino la natura ibrida del Pipistrello, che per fare «la linguaccia» ai prepotenti si dichiara di volta in volta volatile o topo, a seconda delle idiosincrasie dei suoi temibili interlocutori (Il Pipistrello e le due Donnole).
Una coscienza di classe
Non è opportunismo, come hanno ripetuto romantici e dottrinari: è duttile buon senso, lungimirante intelligenza strategica. Che infatti non impedisce di scoccare, dal fragile riparo della finzione letteraria, frecciate velenose addirittura all’indirizzo del monarca: «il mio nemico è sempre il padrone», dice al Vecchio l’Asino; «non più di un Sole / possiamo sopportare», esclamano le Rane. Se «re e dèi hanno sempre fatto / di ogni erba un sol fascio», come spiega il Gufo all’Aquila, La Fontaine si preoccupa al contrario della contingente esistenza del singolo; senza forzatura o anacronismo – Pietromarchi parla di una «coscienza di classe» del Terzo Stato che si rinsalda, contro i «colpi di coda del feudalesimo» – l’autore delle Favole ci può apparire pre-rivoluzionario precisamente perché riconosce come (unico) valore la vita di ogni individuo. In questo, non è isolato nel grand siècle, certo classicista e assolutista, ma meno compatto di quanto appaia nei manuali. E forse il dialogo implicito più significativo tessuto da La Fontaine è quello con La Rochefoucauld: le Favole, come le Massime, disegnano infatti precocemente, con lucida spietatezza, una antropologia della modernità che ancora, e del tutto, ci appartiene.
Corriere 4.2.18
Novecento Un libro di Ritanna Armeni (Ponte alle Grazie) sulle aviatrici che bombardavano di notte le linee tedesche
Le streghe volanti sovietiche incubo notturno dei nazisti
di Pierluigi Battista
Si chiamava Irina Rakobolskaja. L’eroismo suo e di un pugno di aviatrici sovietiche ha contribuito alla disfatta dell’esercito nazista che aveva invaso l’Unione Sovietica. I tedeschi chiamavano queste donne Nachthexen , streghe della notte. Al buio, tra le nuvole, con la nebbia o con la pioggia, in 1.100 notti di combattimento, hanno compiuto oltre 23 mila voli con i loro piccoli aerei, leggerissimi, ma carichi di bombe da sganciare sulle postazioni del nemico. Invisibili. Inafferrabili. Un incubo per i tedeschi: le streghe. Colpivano e tornavano indietro prima che la contraerea nemica individuasse quei velivoli guidati da donne.
Le donne che volevano fare la guerra «patriottica» non come gli uomini, ma meglio degli uomini. Le donne come Irina, che Ritanna Armeni ha incontrato in questi anni tante volte a Mosca per farsi raccontare, per poter scrivere questo appassionante Una donna può tutto. 1941: volano le Streghe della notte (con la collaborazione di Eleonora Mancini, Ponte alle Grazie). Irina che, ultranovantenne, ora non c’è più. Ma Ritanna Armeni ha appreso della sua morte solo grazie a un trafiletto apparso sul «Guardian». Perché se sei donna, anche se ti sei comportata eroicamente, anche se la patria ti deve molto, anche se sei stata protagonista di una storia straordinaria, alle fine, in tempo di pace, torni a essere una semplice donna marginale, cui viene affidata una posizione non più di protagonista. E sbiadisce la bandiera del 46° reggimento della guardia composto da sole donne, le aviatrici coraggiose, le streghe della notte che in una guerra dove erano in gioco le basi stesse dell’esistenza dei russi come popolo si sono comportate come gli uomini, meglio degli uomini. Ma in tempo di pace sono trattate peggio degli uomini.
È per questo che Ritanna Armeni ha trascorso con Irina lunghi pomeriggi di ricordi e di pasticcini con tè. Per ricostruire una storia dimenticata. Non inedita, ma dimenticata, o comunque messa ai margini della memoria storica. Queste donne belle e colte, studiose di fisica come Irina, che amavano la vita, che come Irina hanno vissuto passioni e situazioni esistenziali che Armeni paragona al film Jules e Jim di François Truffaut, si sono trovate davanti a un bivio drammatico. Al tempo delle scelte. L’abbandono della vita «normale», delle ambizioni normali, degli studi normali. E il tuffarsi in un’esperienza indimenticabile di impegno militare in una guerra che a perderla sarebbe stata una catastrofe.
La Germania di Hitler aveva invaso l’Urss nel giugno del 1941. Si era rotto l’odioso patto Molotov-Ribbentrop che aveva consentito per due anni a Hitler di fare la guerra e schiacciare l’Europa contando sulla silente alleanza di Stalin. E dopo qualche mese queste giovani spavalde e coraggiose riuscirono a convincere i vertici dell’esercito e Stalin in persona per unirsi in una squadra di sole donne che avrebbero bombardato, invisibili ai radar nemici, le postazioni tedesche. L’incredibile diventa realtà. Addestrate da Marina Roskova, un asso dell’aviazione, Irina e le altre entrano gloriosamente nell’esercito che dovrà combattere la Grande guerra patriottica, come ebbe a chiamarla Stalin.
Intrecciando i documenti storici di cui dispone la storiografia, i racconti di Irina e una dose di ben organizzata fantasia narrativa, il vero assume i contorni di un romanzo, non privo di punte capaci di far sorridere. Per esempio la vestizione delle donne costrette a indossare divise maschili in mancanza di quelle femminili: pantaloni enormi, giacche gigantesche, cappelli sformati, scarpe di numero 43 per piedi che al massimo raggiungevano il 37. E poi la diffidenza maschile, che troppo spesso diventa aperta ostilità, qualche volta addirittura violenza.
I vertici politici e militari temono molto l’effetto della promiscuità, il potenziale di destabilizzazione e di indisciplina che può generarsi con questa irruzione femminile in quello che da sempre, nella storia, è stato il cuore, il santuario del potere maschile. Ma le donne che entrano nel gruppo delle temerarie aviatrici vogliono separarsi. Non vogliono fare «come» gli uomini, vogliono fare di più. Non vogliono mischiarsi e mimetizzarsi, vogliono eccellere. È l’aspetto che più sembra interessare la stessa Ritanna Armeni. Queste donne non imboccano una via della emancipazione che le renda eguali agli uomini, ma vogliono rivendicare addirittura uno statuto di superiorità. In questo caso di superiorità militare. Scrive Ritanna Armeni che di solito la letteratura sulla guerra presenta le donne come vittime, oppure come impegnate in ambiti comunque diversi da quelli degli uomini. No, le Streghe della notte vogliono fare di meglio: essere militari più brave dei loro colleghi, più precise, più violente, persino più spietate. Non vogliono femminilizzare in senso tradizionale il loro ruolo. Vogliono eccellere in ambiti da sempre considerati prettamente dominio degli uomini.
È una sequenza di eroismi quotidiani, ma anche di dolori, di sconfitte, di sconforti, di lutti. Ritanna Armeni non minimizza lo sconcerto delle donne aviatrici che sanno degli orrori commessi dai loro colleghi maschi in avvicinamento a Berlino; stupri di massa sulle donne tedesche come rappresaglia per analoghi crimini commessi dai nazisti contro le donne ucraine, bielorusse, russe. È un capitolo oscuro di quella storia. Che precipita sulle donne che avevano fatto enormi sacrifici per battere la piovra nazista. E poi c’è il capitolo finale della dimenticanza e dell’oblio, della colossale ingiustizia commessa su quelle donne e sulla memoria delle loro imprese: gli uomini, finita la guerra, si sono ripresi con arroganza il primato che le donne, le streghe, avevano conquistato in anni e anni di coraggio, con la forza e con il talento. Le tessere del mosaico di questa storia ora vengono rimesse in ordine, senza trascurare tutti gli aspetti emotivi che una vicenda del genere comporta. «Le donne possono tutto», era il loro motto che ispira il titolo del libro. Possono innanzitutto aiutare a ricordare, e a combattere l’ingiustizia della dimenticanza.
il manifesto 4.2.18
La guerra di Indipendenza che inventò gli americani
Storia. Solo l’esigenza di combattere un nemico comune fece mettere in secondo piano le enormi differenze economico-sociali e politiche fra le tredici colonie: questa la tesi di Alan Taylor in «Le rivoluzioni americane»
di Francesco Benigno
La Guerra d’indipendenza americana, atto di nascita degli Stati Uniti d’America, è stata a lungo raccontata dalla storiografia, ma anche dalla letteratura e dal cinema, come la rivoluzione vittoriosa del popolo americano, unito e determinato, contro il tirannico dominio britannico. Ma, soprattutto, è stata tradizionalmente narrata in contrapposizione alla rivoluzione francese e, in controluce, a quella russa: se queste sono state segnate dalla tragicità della violenza e da una radicalità politica smisurata, capace di condurre a esiti inumani, la prima è stata per lo più presentata come una rivoluzione moderata, positiva, portatrice di valori universali, non guastati dall’assolutezza ideologica.
Più conflitti convergenti
Ora, il nuovo libro di Alan Taylor, Rivoluzioni americane Una storia continentale 1750-1804 (Einaudi, pp. XII-640, euro 35,00) smonta completamente, e con buoni argomenti, queste rassicuranti certezze. Taylor, autorevole storico dell’università della Virginia, già vincitore di due premi Pulitzer e di un National Book Award, ha scritto infatti un’opera programmaticamente revisionista, sin dal titolo: l‘uso del plurale rivoluzioni al posto del singolare vuole segnalare subito come l’evento di cui si parla non vada considerato come risultato di un conflitto a senso unico, quello di un popolo oppresso che si scrolla di dosso un ingombrante oppressore, bensì come una sorta di punto di convergenza di una serie di conflitti diversi e non omogenei fra loro; la cronologia qui utilizzata, poi, estesa agli anni 1750-1804, significativamente slargata rispetto agli anni veri e propri della guerra d’indipendenza, combattuta tra il 1775 e il 1783, va anch’essa controcorrente; l’aggettivo continentale, infine, segnala un significativo allargamento spaziale, abbracciando anche gli avvenimenti del Canada, della Louisiana e dei grandi spazi del West e le politiche degli imperi concorrenti: francese e spagnolo.
Il risultato di questo riposizionamento è felice. Decostruita la lettura nazionalistica, che vorrebbe la rivoluzione americana come prima manifestazione di un popolo americano già esistente – la sua epifania – Taylor porta a considerarla, viceversa, come l’essenziale processo di gestazione che ne forgia la fisionomia e ne determina la nascita. In verità, un parto doloroso: a scontrarsi non furono solo l’esercito americano e quello inglese ma anche sezioni contrapposte della società americana.
Da una parte i patrioti, una minoranza radicale e dall’altra i lealisti filo-britannici, un’altra minoranza ancor più esigua, con in mezzo la maggioranza di una popolazione a lungo indecisa. Sarà anzi proprio la lunga guerra, distruttiva e tragica – non limitata cioè ai combattimenti degli eserciti schierati, ma fatta di saccheggi, devastazioni e repressioni che colpivano la popolazione civile – a determinare l’orientamento maggioritario a favore del fronte patriota; e comunque, alla fine del conflitto, ben 60.000 lealisti fuggiranno dal paese come esuli.
La cosiddetta Guerra d’Indipendenza è stata in realtà, ci dice Taylor, come tutte le rivoluzioni, una guerra civile, e anzi la prima guerra civile americana. Quando, nel 1777, il Congresso adottò gli articoli di Confederazione e Unione, essi furono più una temporanea alleanza di stati che l’espressione di una nazione coesa. Solo l’esigenza di combattere insieme un nemico comune e soverchiante fece valere gli elementi condivisibili a scapito delle enormi differenze economico-sociali e politiche fra le tredici colonie.
Le conseguenze di questo orientamento sono importanti: non sono gli americani ad avere fatto la rivoluzione ma è la rivoluzione ad avere «inventato» gli americani. Una testimonianza di Benjamin Franklin del 1775 è rivelatrice: «non ho mai sentito in nessuna conversazione qualunque persona, ubriaca o sobria, manifestare la minima espressione di desiderio di secessione, o l’opinione che una tale manovra possa essere positiva per l’America».
All’epoca in cui questa frase fu pronunciata il conflitto armato si era già – in modo strisciante – avviato, ma si presentava come la somma di una serie di contrasti su questioni nodali agitate dai patrioti contro le pretese del parlamento britannico di intervenire negli affari americani, e non come la richiesta di una sovranità autonoma. In gioco c’era, certo, lo statuto costituzionale delle colonie e la contestazione americana di tasse imposte da organismi privi di propri rappresentanti (secondo lo slogan No taxation without representation) ma non solo.
Meno indagati dalla storiografia sulla guerra d’Indipendenza, ma non per questo meno importanti, almeno due altri temi scottanti erano sul tappeto. Il primo era relativo alle terre delle popolazioni indiane, l’immenso spazio libero al di là della catena dei monti Appalachi, il famoso West con la sua mitica frontiera mobile, in perenne avanzamento. Se la causa dei Sons of liberty ebbe successo fu anche grazie all’incerta gestione inglese delle terre d’occidente occupate dalle tribù dei «pellerossa»; una linea oscillante fra il precipitoso tentativo di frenare la spinta alla colonizzazione, le impopolari concessioni a franco-canadesi cattolici e le pratiche di appalto di intere zone a un ceto di accaparratori di terra corrotti e inaffidabili. Non per caso gli indiani dell’ovest combatterono largamente a fianco degli inglesi mentre i pionieri coloni si schierarono in maggioranza con i patrioti.
C’è poi la questione degli schiavi neri. La posizione dell’opinione pubblica inglese era avversa al regime di schiavitù, contrario alla tradizione liberale cui essa si ispirava. Fu famosa la causa vinta davanti a un tribunale inglese da uno schiavo di Boston portato in Inghilterra: questi aveva sostenuto che, una volta in Gran Bretragna, andava affrancato perché su quel suolo la schiavitù non è ammessa e gli schiavi che lo calcano divengono ipso facto uomini liberi. Ancora una volta la posizione oscillante del governo britannico, incapace di promulgare un editto di affrancamento degli schiavi neri ma tendenzialmente favorevole ad ascoltare le ragioni della popolazione afroamericana in catene, e giunto perfino a minacciarne la liberazione, produsse un esito simile: mentre diverse migliaia di schiavi in fuga si arruolarono per combattere a fianco delle truppe di Sua Maestà, gran parte del ceto di proprietari di piantagioni del sud finì per sposare la causa patriota.
Principi e negati
La contrapposizione partitica successiva fra i federalisti alla Hamilton e i repubblicani alla Jefferson, trattata nell’ultima parte del volume, non è di conseguenza che l’esito e lo specchio di questo insieme di contraddizioni, che continueranno a segnare, almeno fino alla guerra civile – tra il 1861 e il 1865 – la vita politica statunitense. Tra esse ce n’è una trattata dal libro con garbo e ironia: vale a dire la distanza irrisolta tra gli enunciati che innervano l’autorappresentazione della libertà americana e la prassi politica concreta. Mentre la proclamazione universale dei diritti faceva della rivoluzione americana il caposaldo di una nuova legittimità centrata sul potere popolare e sul diritto inalienabile di ciascuno alla vita, alla libertà e al perseguimento della felicità, nella pratica questi principi erano negati agli indigeni americani, espropriati di tutto, e agli schiavi neri, mantenuti in catene.
il manifesto 4.2.18
Agostino e la musica, dialogo filosofico regolato dai numeri
Filosofia tardo-antica
Il trattato «De Musica» nella traduzione di Maria Bettetini, La Vita Felice
di Maria Jennifer Falcone
Prima di ricevere il battesimo nella notte di Pasqua del 387 e al termine di quel percorso di tormento e ricerca che racconta nelle Confessioni, il trentaduenne Agostino, futuro vescovo di Ippona e Padre della Chiesa, si ritira per quasi un anno a pochi chilometri da Milano, sede vescovile di Ambrogio. Nella villa di Cassiciacum (forse l’attuale Cassago Brianza) si dedica a quello che definirà il Christianae vitae otium, la versione cristiana del tradizionale otium liberale. Si tratta di un periodo cruciale per la progettazione e stesura di opere fondamentali (Contra academicos, De beata vita, De ordine), con l’intento – che avrà importanti conseguenze sull’elaborazione del pensiero cristiano tardoantico – di condurre l’uomo alla conoscenza di Dio per il tramite dei saperi umani, e di usare quindi le scienze mondane per arrivare a comprendere quelle spirituali.
È in questo periodo di intensa attività che Agostino inizia a scrivere il De musica, poi completato a Tagaste. Di questo ampio trattato in sei libri, che doveva far parte di un gruppo di opere sulle arti liberali mai completato, esce ora per i tipi della milanese La Vita Felice una nuova traduzione, con introduzione e brevi note di commento, a cura di Maria Bettetini (Sant’Agostino, La musica, testo latino a fronte, pp. 644, € 29,50). Non a torto la curatrice, che aveva già tradotto il testo venti anni fa, definisce il lavoro sulle pagine di Agostino «battaglia, fatica, piacere, luoghi dove si torna sempre volentieri».
La sfida principale, il vero campo di battaglia, è la traduzione, che, difficile per qualsiasi testo antico, è resa ancora più complessa dall’equivocità su cui spesso Agostino fonda il suo ragionamento. Esempio illuminante è uno dei termini-chiave del trattato, numerus-numeri: Bettetini, che giustifica la sua scelta nell’introduzione e in una delle prime note di commento, lo traduce con l’italiano «numero-numeri» in corsivo, per rispettare il triplice riferimento, spesso volutamente non chiaro, ai numeri matematici, ai numeri ideali e ai ritmi della musica. La polisemia di questo vocabolo diventa ancora più densa e significativa nel sesto libro, quello più prettamente teologico, in cui il tema di fondo è il passaggio graduale dalla conoscenza dei ‘numeri’ fisici (corporales) a quelli presenti nella mente di Dio (aeterni).
Accostandosi al De musica, è possibile che il lettore si senta sopraffatto dalla fatica: la complessità e i tecnicismi della materia trattata nei primi cinque libri (focalizzati su metrica e ritmica) e poi nel sesto (una piccola opera teologica, incentrata soprattutto sul concetto di anima) mettono alla prova anche gli addetti ai lavori – come spesso mostrano anche le, pur essenziali, note di commento. Superati gli ostacoli, però, la prosa brillante di Agostino ne mette in luce la vivace intelligenza, resa più evidente soprattutto grazie alla forma del dialogo filosofico.
Inoltre, sono molti i temi interessanti e stimolanti che si trovano nel trattato. A cominciare dalla definizione di musica: musica est scientia bene modulandi («la musica è la scienza del modulare bene»). Di tradizione classica, essa indica innanzitutto l’arte di porre un limite alla materia, di per sé illimitata, e così fissa le basi per il dialogo, in cui ‘numeri’, ritmi e misure sensibili si fanno rappresentazione di quell’armonia ordinata dell’universo, fondato sul pensiero di Dio, cioè sui numeri aeterni.
Proprio l’armonia può essere considerata come una delle chiavi interpretative del dialogo. Nell’ultimo libro, infatti, ampie pagine sono dedicate al concetto di anima e al suo rapporto armonico con il corpo, per passare poi al tema dell’anima complessiva del mondo, regolato mediante il principio dei numeri. Agostino approfondisce il dialogo tra anima e corpo, spirito e materia, e quindi tra saperi tecnici e conoscenze spirituali. Nel De musica fede e ragione si porgono la mano, il Cristianesimo incontra la cultura profana attraverso i ‘numeri’ e il giovane convertito inizia il suo percorso di consacrazione come vero intellettuale cristiano della tarda antichità.
La Stampa 4.2.18
Tannu Tuva, così rinasce la Repubblica che non c’è
L’ossessione di Feynmam
Inghiottita nel ’44 dall’Unione Sovietica, scomparsa dalle carte geografiche e dalla memoria, oggi ha status autonomo nella Federazione Russa
Qui il passato convive col presente, i templi lamaisti con quelli sciamanici
di Gianni Vernetti
Nel 1980 l’eclettico Premio Nobel per la Fisica Richard Feynman amava passare le serate con un gruppo di amici sfidandosi con quiz geografici. Esaurite le capitali, le province, i fiumi e le catene montuose nei luoghi più remoti del pianeta, una sera chiese: «Qualcuno sa dove si trovi la Repubblica di Tannu Tuva?». «Non esiste», fu la risposta corale. Feynman a quel punto raccontò della sua passione coltivata fin da bambino per degli strani francobolli triangolari emessi tra il 1921 e il 1944 da una piccola Repubblica indipendente incastonata fra la Mongolia, Cina e Siberia: Tannu Tuva. Il gioco divenne così una sfida e un’ossessione intellettuale.
Sì, Tannu Tuva era esistita davvero, ma era semplicemente scomparsa dalle carte geografiche e dalla memoria collettiva, inghiottita nel 1944 dall’Unione Sovietica. Feynman inizia a cercare contatti accademici nel paese, con un obiettivo chiaro: raggiungere Kyzyl, la capitale di Tuva, il centro dell’Asia. Kyzyl, secondo la poco nota proiezione stereografia di Gall, è effettivamente il centro geografico dell’Asia e a certificarlo nel 1960 fu eretto il monumento ancora oggi molto fotografato dalle famiglie tuvine a passeggio.
Un popolo nomade
Siamo in piena Guerra fredda e le autorità sovietiche ricevono stupite la stravagante richiesta del Premio Nobel, meglio conosciuto oltre cortina per essere stato una delle anime del Progetto Manhattan e quindi uno dei padri della bomba nucleare americana. Il gioco sulla remota Repubblica di Tuva diventa una sfida che si conclude dopo 18 anni dalla prima lettera, con il rilascio di un visto per l’Urss per il fisico e sua moglie, incluso un permesso per visitare la remota Repubblica di Tuva. La lettera giungerà a casa di Feynman però solo 4 giorni dopo la sua morte, avvenuta il 15 febbraio 1988. Gli amici del fisico non si rassegnano e fondano l’associazione Friends of Tuva (fotuva.org), iniziando a far conoscere al mondo la splendida mania intellettuale del genio da poco scomparso.
Oggi la Repubblica di Tuva è uno dei soggetti costituenti della Federazione Russa con lo status di Repubblica autonoma. A scuola, insieme al russo, si studia il tuvano, una lingua del ceppo turco-alcaico con influenze mongoliche, e la sua capitale può essere raggiunta con un volo di 5 ore da Mosca ad Abakan, seguite da 6 ore di auto arrampicandosi fra i monti Sayan.
Con la caduta dell’Unione Sovietica nel 1991, Tuva ha riscoperto la sua forte identità di un popolo nomade che per millenni ha vissuto nelle yurte di feltro, adorato gli spiriti della natura con i suoi sciamani e abbracciato il buddismo lamaista solo nel 1600. Dopo le purghe staliniane che deportarono migliaia di sciamani e distrussero molti templi buddisti, oggi il paese è attraversato da una forte rinascita spirituale. Il tempio di Ustu-Khuree, a 150 chilometri dalla capitale, venne totalmente distrutto negli anni 30 e centinaia di lama uccisi e deportati. Oggi fra le rovine del vecchio tempio campeggia una gigantografia del Dalai Lama e ogni anno si tiene un festival musicale per raccogliere fondi destinati a costruire il nuovo tempio, quasi finito a poche centinaia di metri di distanza.
A Kyzyl c’è la sede del governo nazionale, il Parlamento, il Museo nazionale e il Centro per la Cultura tuvana che rappresenta il cuore della rinascita culturale del paese. Qui incontriamo Aldar Tamdyn, ministro della Cultura, che ci racconta il «miracolo» tuvano: «Oggi Tuva è una Repubblica fiera della propria identità storica e culturale, ma anche pienamente integrata nella Federazione Russa. In questi anni abbiamo ricostruito le istituzioni culturali, la scuola di Xhoomei, il canto gutturale che nasce qui a Tuva. E ogni anno, il 15 agosto, abbiamo ripreso la tradizione del Naadym, la nostra olimpiade tradizionale con gare di xuresh [una specie di wrestling locale, ndr], tiro con l’arco e 20 chilometri di corsa a cavallo».
Tuva non può lasciare indifferenti, anche per i tanti sincretismi che si incontrano: ogni passo, montagna, cascata o convergenza tra due fiumi è segnata da un tempio lamaista e da uno sciamanico. Anche il passato convive senza paure con il presente. Negli ultimi anni molti tuvini hanno ripreso l’attività di pastorizia abbandonata negli anni della collettivizzazione, altri hanno ricominciato a costruire le yurte, come icone di una nuova architettura capace di legare vecchi segni e nuovi stili di vita. Fa comunque piacere bere un tè salato in un bar dentro a una yurta con aria condizionata e wi-fi gratuito, con monitor sintonizzato su una tv locale con il gruppo rock del momento.
Petroglifi e reti elettriche
Nella remota regione di Bai-Taiga, verso i monti Altai, l’aria rarefatta dell’altipiano con le sue nuvole basse fa spazio a scoperte sorprendenti: migliaia di petroglifi vecchi di 6-8.000 anni in vallate disseminate da più recenti khurgan, monumenti funerari costruiti nel 1.000 a.C. Tuva continua a stupire passo dopo passo: a 65 chilometri dalla capitale ci si può bagnare nel lago Dus-Khol, con una concentrazione salina non lontana da quella del mar Morto, e i paesaggi naturali mozzafiato della steppa vengono alternati con reperti di archeologia industriale dell’epoca sovietica. Ciò che non manca sono le reti elettriche: il quinto piano quinquennale sovietico (quello della «Elettrificazione + Soviet=Comunismo») ha disseminato anche le vallate più remote di immancabili e giganteschi tralicci elettrici.
Se poi capita di passare per il villaggio di Chadan, non sarà difficile notare grandi gigantografie di Sergej Shoygu, di padre tuvino e madre russa, oggi ministro della Difesa della Federazione Russa, da molti indicato con il possibile successore di Vladimir Putin. Su sua iniziativa a Kyzyl è in costruzione una nuova Accademia Militare per formare anche qui i futuri cadetti dell’esercito russo, e l’architettura dei suoi molti edifici, con un mix di design europeo e tetti a pagoda (ancora un sincretismo), richiama esattamente l’ambizione euro-asiatica della nuova Russia.
Aveva ragione Richard Feynman, a Tuva vale la pena andarci.
La Stampa 4.2.18
Nella giungla del Guatemala la metropoli perduta dei Maya
Scoperta con una rivoluzionaria tecnologia laser, contava dai 10 ai 15 milioni di abitanti, con piramidi di 30 metri, strade sopraelevate e acquedotti
di Vittorio Sabadin
Tutto quello che crediamo di sapere sulla civiltà maya andrà forse riscritto dopo la scoperta di un bacino archeologico nascosto nella giungla del Guatemala. Grazie a una nuova tecnologia laser che sta rivoluzionando la ricerca di antiche civiltà, un gruppo di studiosi americani, europei e guatemaltechi ha esplorato un’area di 2100 chilometri quadrati senza muovere un passo nella foresta, registrando i dati da un aereo. Quello che gli scienziati hanno visto riprodotto sui loro computer sembrava davvero incredibile, ma era invece una realtà meravigliosa, la scoperta che ogni archeologo vorrebbe fare.
La zona di Petén, al confine con il Messico e il Belize, è già nota per i siti archeologici di Tikal, Holmul e Uaxactún, insediamenti che risalgono forse a 3000 anni fa, ma che hanno avuto il massimo splendore fra il 300 a.C. e l’800 d.C.. Grazie al Lidar, un dispositivo che invia a terra segnali di luce e ne registra il riflesso, gli archeologi hanno potuto guardare sotto le foglie e i rami che coprono una vastissima area della regione, scoprendo circa 60.000 edifici di pietra sconosciuti: il bacino di Petén non era dunque abitato da 5 milioni di persone, come si è sempre creduto. Erano almeno il doppio e forse il triplo, e vivevano in una gigantesca metropoli organizzata come le città moderne.
Il laser ha rivelato migliaia di strutture, tra le quali piramidi alte fino a 30 metri, strade sopraelevate e acquedotti, complessi terrazzamenti per l’agricoltura, possenti mura e torri di difesa. La rete viaria è quella che ha impressionato di più i ricercatori: le strade sono rialzate, probabilmente per fare defluire l’acqua nelle stagioni delle piogge, e sono tutte collegate fra loro come autostrade. Una civiltà che non usava la ruota né animali da soma ha spostato migliaia di tonnellate di pietra per costruire l’agglomerato urbano più vasto dell’antichità: si calcola che in certe aree vi fossero due abitanti per metro quadro, più che nella Pechino di oggi.
Gli archeologi hanno notato che il 95% della terra residua era coltivato a terrazze, con un sistema di irrigazione sofisticato e molto efficiente. La capacità dei Maya di modificare il paesaggio per adattarlo alle esigenze di una vasta comunità li ha davvero impressionati. «I nostri pregiudizi occidentali ci avevano portato a credere che ai Tropici non potessero fiorire grandi civiltà», ha detto Marcello Canuto, archeologo della Tulane University di New Orleans e collaboratore di National Geographic Explorer. «Pensavamo che ai Tropici si andasse solo per morire, ma questa scoperta ridimensiona la nostra supponenza». I Maya di Petén erano il doppio di tutti gli abitanti dell’Inghilterra medievale, ma vivevano decisamente meglio. La loro civiltà, dicono ora gli scopritori dei nuovi insediamenti - forse esagerando un po’ -, non aveva nulla da invidiare a quella greca o a quella dell’impero cinese.
Secondo Francisco Estrada-Belli, della Boston University, ci vorrà un secolo per analizzare tutti i nuovi dati rilevati grazie al Light Detection and Ranging: «Questa tecnologia», ha detto, «segna un nuovo inizio per lo studio di antiche civiltà, esattamente come il telescopio Hubble ha segnato un nuovo inizio per lo studio dell’universo». Stephen Houston, docente di Archeologia alla Brown University del Rhode Island, è sicuro che quanto ritrovato in Guatemala costituisca «il più grande passo avanti nella ricerca sui Maya da 150 anni». L’area di Petén era finora famosa per il sito di Tikal, una vasta area archeologica circondata dalla giungla pluviale e diventata un’attrazione turistica per i suoi imponenti edifici, tra i quali spicca il Tempio del Giaguaro eretto fino a 48 metri con una ripida struttura verticale.
Il team di ricercatori che ha lavorato con National Geographic e con la Fondazione Pacunam, istituita per preservare il patrimonio culturale del Guatemala, si godrà ora la popolarità che sarà garantita dai giornali e dalla trasmissione di un documentario il prossimo 8 febbraio. Subito dopo comincerà il faticoso lavoro sul campo, alla ricerca di nuove spiegazioni sulla civiltà mesoamericana e sulle ragioni della sua scomparsa nel 900 d.C., improvvisa e ancora avvolta nel mistero: l’ipotesi più nota è quella di una prolungata siccità che ha distrutto tutte le coltivazioni. Nella giungla gli archeologi troveranno però anche migliaia di buchi scavati nel terreno e rilevati dal laser: la metropoli dei Maya è rimasta per secoli nascosta a tutti ma non ai tombaroli, gli unici interessati a non parlarne mai.
La Lettura del Corriere 4.2.18
Valute La svolta del fiorino
Il dollaro del Medioevo veniva da Firenze
di Amedeo Feniello
Di una sola moneta si parla in Europa, dal 1252 in poi: del fiorino di Firenze. Viene battuto per la prima volta nel novembre di quell’anno. Non è la solita moneta d’argento ma, fatto sorprendente, è d’oro. Per secoli nessuno aveva osato tanto. In tutto l’Occidente, da Carlo Magno in poi, per fare monete era stato adoperato solo l’argento. L’oro era diventato una chimera. Rarefatto, in un mondo dove commerci e scambi languivano. Questa la situazione, a lungo, con minime eccezioni. Però ora, in questa nuova Europa del Duecento in cui cominciano a dominare i mercati, c’era assoluto bisogno, come scrive lo storico Carlo M. Cipolla, di «un solido mezzo di pagamento di valore unitario elevato, che desse affidamento di stabilità intrinseca per poter essere accettato anche fuori del ristretto mercato locale». I fiorentini intuiscono la necessità e si lanciano nell’impresa. E coniano un prodotto rivoluzionario: il fiorino. Una moneta di massa, d’oro, simile per diametro agli attuali 5 centesimi di euro, del peso di 3,53 grammi. Riconoscibile da chiunque e dovunque come emanazione del potere di Firenze: con, da un lato, l’effigie del santo patrono, san Giovanni; e, dall’altro, il giglio, il simbolo della città.
Checché ne pensasse il tradizionalista Dante — che, nella Commedia , coglie nel maladetto fiore solo uno strumento di avidità che aveva modificato la Chiesa del suo tempo —, il fiorino diventa l’emblema di una nuova mentalità in marcia, che fonda tutta la sua forza sul capitale e sull’intraprendenza, sulla banca e sulla finanza internazionale. E, in breve tempo, si trasforma in un successo che si propaga rapido come un’epidemia.
Pochissimi anni dopo la sua nascita, il fiorino ha già superato la dimensione locale. Diventa fondamentale per gli scambi a Roma, nel Regno di Napoli, nell’intera Penisola. E l’area di penetrazione si allarga. Il fiorino arriva in Francia, in Spagna, in Inghilterra, nei Paesi Bassi, in Germania, in Ungheria, nella regione baltica, diventando, come il dollaro oggi, la divisa accettata da tutti come moneta di conto e standard della misura del valore. Ma la sua influenza non si limita all’Europa e coinvolge le sponde del Mediterraneo, il Nord Africa, il Levante, Bisanzio. Alla domanda crescente di fiorini la zecca di Firenze risponde con emissioni imponenti, come i 400 mila esemplari annui coniati negli anni Trenta del Trecento, i 352 mila del 1344-45, gli oltre 340 mila del 1350-51. Con una sessantina di imitazioni in Italia e in Europa, tra cui la principale fu il ducato di Venezia, nato nel 1285.
La fortuna del fiorino durò tanto, circa tre secoli e fu a lungo apprezzato, sebbene, nel corso del Quattrocento, fosse scavalcato nel ruolo di valuta internazionale proprio dal ducato veneziano. Fino al 1542, quando avvenne l’ultima emissione. Il tempo di Firenze e del fiorino, infatti, era ormai scaduto. All’orizzonte si profilavano protagonisti e monete espressione di una nuova egemonia europea atlantica e mondiale.
La Lettura del Corriere 4.2.18
Impoveriti e snobbati dalle élite La rivalsa degli elettori populisti
Che relazione c’è tra la diffusa percezione di crescita delle disuguaglianze e l’avanzata dei movimenti populisti? Quali sono le differenze rispetto al secolo scorso, quando la sinistra sapeva occupare con grande abilità il campo dei disuguali e legare il riscatto sociale al cielo della politica? Quali differenze ci sono tra i movimenti populisti francesi e italiani? Abbiamo sufficienti elementi per tracciare una sociologia del populismo? A queste e altre domande centrate sul nesso tra disuguaglianza e populismo hanno cercato di rispondere a Milano, su invito della Fondazione Corriere della Sera, Maurizio Ferrera, firma del quotidiano di via Solferino e politologo dell’Università statale di Milano, e il collega francese Marc Lazar, docente a Parigi Sciences Po e all’università Luiss di Roma.
di Maurizio Ferrera
Penso che occorra partire dalle caratteristiche differenti della disuguaglianza nel periodo attuale. La novità è che non si sono allargate solo le distanze tra le fasce di reddito, quelle che vengono misurate con l’indice di Gini, ma si è verificato questa volta anche un arretramento individuale. Un peggioramento della condizione di milioni di persone che ha dato origine a un sentimento profondo di deprivazione relativa, che a sua volta si è tradotto in aggressività sociale e politica. L’arretramento è stato trasversale rispetto alle classi tradizionali, non hanno perso tutti gli operai, ma le tute blu dei settori più esposti alla concorrenza internazionale. Non hanno perso i dipendenti statali e i pensionati sono arretrati molto meno degli occupati e dei giovani in cerca di lavoro. Questo caleidoscopio di effetti non ha permesso che lo scontento si aggregasse come nel Novecento e utilizzasse i corpi intermedi: questa volta ha prevalso la ricerca dei colpevoli, del capro espiatorio. E il populismo ha saputo indicare obiettivi facili: le élite e gli «altri», ovvero gli immigrati. In definitiva penso che il successo del populismo si debba innanzitutto alla crescita del sentimento di deprivazione relativa e all’esaurimento delle narrazioni novecentesche.
MARC LAZAR — Alexis de Tocqueville ci ha raccontato come in Francia esistesse una particolare passione verso l’uguaglianza, ma oggi questa passione si è diffusa in tutta Europa, persino in Germania o nella Repubblica Ceca, dove i dati economici sono buoni. Tra i tedeschi l’87 per cento degli intervistati di un’ottima ricerca, Dove va la democrazia? , si dichiara molto preoccupato per la disuguaglianza, a Praga il 75. Storicamente i populisti si professavano liberisti, oggi si presentano come difensori di chi soffre e propongono la tutela dello Stato sociale, anche se in una formula esclusiva, ovvero riservata ai connazionali. E così il Front national ha potuto recuperare progressivamente il voto della sinistra che veniva dalle zone industriali, ma non c’è una spiegazione unica della forza dei populisti: ci sono molti fattori politici, culturali e religiosi. Dopo la vittoria di Emmanuel Macron in Francia si è detto che Marine Le Pen era finita, io non credo. Tutti gli ingredienti del populismo sono ancora lì e possono essere tuttora utilizzati anche in Francia.
Semplificando si può dire che nel populismo francese prevale l’elemento di protezione sociale, mentre in quello italiano l’agenda si apre con la critica della politica?
MAURIZIO FERRERA — Prima di Beppe Grillo il populismo italiano è stato a lungo rappresentato dalla Lega e in misura minore da Silvio Berlusconi. I 5 Stelle però sono emblematici come formazione politica, perché hanno saputo cavalcare l’aggressività generata dalla disuguaglianza, indirizzandola verso un aspro conflitto con le élite. La contrapposizione tra «noi e loro» ha dato vita a un’idea tutta orizzontale della democrazia, come se non ci fosse bisogno di un’organizzazione verticale capace di prendere decisioni. Si tratta di un enorme equivoco sul funzionamento delle democrazie, un magma fatto di anti-elitismo verticale e di confusione orizzontale al massimo grado: infatti sul sito del Movimento 5 Stelle si può trovare tutto e il suo contrario. Se Podemos e Syriza sono di sinistra, mentre Le Pen e l’olandese Geert Wilders sono sicuramente di destra, i grillini sono una cosa amorfa dal punto di vista della distinzione destra-sinistra.
MARC LAZAR — Le Pen padre era liberista, Marine è per la protezione e per la spesa pubblica, ma non spiega come tenere in equilibrio i conti pubblici. C’è però un’altra dimensione: lei si presenta come una donna moderna, divorziata, ha due figli, fa l’avvocato e anche in questo caso assistiamo a un rovesciamento dell’identità della destra tradizionale. Un piccolo gruppo di tradizionalisti ha organizzato una manifestazione contro quello che chiamano il matrimonio per tutti (le nozze gay, ndr ) e Le Pen non ci è andata perché ha capito che chi vota per lei se infischia di queste cose. Dal canto suo Jean-Luc Mélenchon, di formazione trotskista e poi socialista, nell’ultima campagna elettorale ha cambiato totalmente posizione, si è ispirato ai modelli populisti dell’America Latina. Il popolo contro la Casta, non più destra contro sinistra. Mélenchon è più simile ai 5 Stelle e infatti è orientato a ristrutturare la sua organizzazione. Al ballottaggio non ha dato consegne di voto perché sapeva che il suo elettorato si sarebbe diviso, tra chi sceglieva Macron per un vecchio riflesso antifascista e chi considera invece il liberismo peggio del fascismo. È interessante anche la sociologia del voto. Per Le Pen hanno votato molti operai, per Mélenchon c’è il voto degli strati bassi della funzione pubblica, molto importante in Francia. Entrambi i partiti hanno avuto successo tra i giovani della fascia 18-24 anni, ma il Fn soprattutto tra i giovani con basso livello di istruzione, mentre con Melenchon troviamo i giovani laureati nelle università di massa, senza numero chiuso. I giovani pro-Macron vengono invece dalle Grandes Écoles e dalle business school . Il livello di istruzione si presenta quindi come una variabile esplicativa del voto.
MAURIZIO FERRERA — Il legame tra fattori di contesto, atteggiamento di chiusura e voto populista non va esaminato schematicamente, esistono anche una serie di filtri che differenziano le reazioni. Se sei un lavoratore a bassa qualifica che vive in un settore non esposto alla concorrenza internazionale, può darsi che tu non abbia perso il lavoro e nessuno della tua famiglia l’abbia perso: questa situazione ti vede meno propenso a votare populista rispetto ad altre famiglie che hanno affrontato la disoccupazione senza godere di sussidi. In Italia siamo particolarmente vulnerabili, perché il nostro welfare è spostato sulle pensioni e prevede pochi sussidi per i giovani, per chi perde il lavoro e chi ha tanti figli. Un secondo filtro riguarda la vita associata. Se partecipi all’attività delle organizzazioni e fai attività regolare, sei iscritto al sindacato, anche semplicemente leggi i giornali e parli di Europa o ancora hai fatto un viaggio all’estero, tutto ciò abbatte la propensione allo sciovinismo e alla chiusura, anche a parità di basso livello di istruzione. Questo ci dà un barlume di speranza, perché ci fa intravedere come ci siano azioni mirate da mettere in campo.
Abbiamo esaminato le questioni di ordine socio-economico e la relazione con la politica, parliamo ora dei valori. Di fronte all’offensiva del populismo si diffonde la sensazione di essere a una sorta di Anno Zero. Non ci sono narrazioni politiche competitive e la stessa adesione al principio di democrazia sembra messa in discussione.
MAURIZIO FERRERA — L’individualizzazione dei bisogni e delle aspirazioni, descritta in letteratura da Norbert Elias e più recentemente da Zygmunt Bauman, amplificata dai social network, rende più difficile far appello a valori di condivisione per giovani che hanno questo tipo di vita, frammentata e spacchettata. L’ultimo tentativo di immettere nel mercato delle idee una cornice valoriale diversa da quelle classiche del Novecento è stato la Terza via di Tony Blair. Quella visione piaceva perché metteva assieme l’idea dell’importanza di scegliere con le necessarie legature sociali e le rivisitava in una chiave di uguaglianza. Il progetto di Blair per essere credibile e incisivo aveva bisogno di una condizione: che ripartisse l’ascensore sociale. Di qui l’enfasi dei laburisti britannici sull’istruzione e la formazione professionale, ispirata all’ultimo periodo della storia del Novecento, gli anni Sessanta-Settanta, nel quale c’è stata mobilità sociale grazie all’istruzione di massa che ha consentito un salto mai fatto nei vent’anni precedenti e mai ripetuto dopo. La chiave è ancora lì.
MARC LAZAR — I populisti ora si presentano come democratici, in passato, nell’intervallo tra le due guerre, erano ostili alla democrazia. Oggi si dichiarano difensori della democrazia diretta e credono nei referendum. Propongono una democrazia immediata realizzata grazie alla tecnologia e il Movimento 5 Stelle è, nell’ambito dei partiti populisti, quello che ha sviluppato con maggiore originalità questa tendenza, infatti ha ispirato lo stesso Mélenchon. Nell’indagine di cui ho parlato, il 33 per cento dice che forse esiste un altro sistema equivalente alla democrazia, una risposta ambigua. Nelle altre risposte, specie tra i giovani, emerge che un regime più autoritario potrebbe essere anche accettato. Di fronte a questi riscontri dobbiamo ammettere che esiste un’interrogazione sul valore della democrazia e di conseguenza bisogna riprendere una narrazione che ne affronti i problemi di trasparenza e di organizzazione dei sistemi democratici. Ad esempio Macron sbaglia, secondo me, se abbandona la parola d’ordine della democrazia partecipativa e si presenta come un monarca repubblicano. Il politologo Pierre Rosanvallon sostiene che la gente non può aspettare 4-5 anni per votare e dire la sua, che bisogna trovare forme attraverso le quali il cittadino possa essere coinvolto tra un’elezione e l’altra. Non dimentichiamo che la democrazia si è affermata tra gli europei solo quando si è accoppiata a pace, prosperità e giustizia sociale. La situazione attuale riapre il dibattito: siamo a favore della democrazia perché ci sentiamo garantiti dal welfare sul nostro livello di vita o perché ci crediamo come valore assoluto? Credo che una parte del successo del populismo risieda in questa operazione: interroga gli europei sul nostro sistema di valori e questa domanda finisce oggettivamente per intercettare le sfide rappresentate dall’immigrazione, dalla presenza dell’Islam e dagli attentati.
Ci interroga e non ci trova adeguatamente preparati. Si sente la mancanza di un’elaborazione convincente su queste materie.
MARC LAZAR — Noi europei siamo molto aperti, accettiamo la diversità e le altre religioni, ma i due modelli con i quali l’accoglienza si è dispiegata, ovvero il multiculturalismo del Nord Europa e il modello repubblicano francese, sono entrambi in crisi e la sfida per noi diventa reinventare modelli di integrazione in un contesto molto più difficile dal punto di vista demografico. Il populismo gioca anche sulla paura dell’Islam e del resto ci sono avuti in 15 mesi la metà delle vittime causate dal terrorismo rosso e nero in 15 anni. Un trauma molto forte. Tanto che avevo paura di rappresaglie in Francia contro le comunità musulmane, e sono contento di essermi sbagliato perché tutto sommato non è accaduto. Vuol dire che i francesi sono riusciti a distinguere tra quelli che mettono le bombe e la maggioranza dei musulmani, ma la grande scommessa per le nostre società diventa «i musulmani sono disposti a denunciare quelli che sono pronti ad abbracciare il terrorismo?». Dobbiamo accettare l’idea che ormai abbiamo una pluralità di religioni, però non possiamo accettare che si rimettano in discussione delle nostre regole. Se i musulmani moderati non rispondono su questo punto, si crea terreno facile per la propaganda del populismo.
Forse anche perché siamo diventati occidentali riluttanti. Sembra che la democrazia occidentale la debba difendere solo l’intelligence.
MAURIZIO FERRERA — Direi democrazia liberale, espressione che contiene in sé sia il costituzionalismo sia il suffragio universale. In Ungheria e Polonia le destre oggi discutono proprio questo. Tornando all’islam, l’intellighenzia musulmana non ha mai operato un’operazione di esegesi critica dei testi sacri. Nessuno nelle facoltà cattoliche di Teologia pensa che la Bibbia vada interpretata alla lettera, mentre i dotti islamici a proposito del Corano pensano di sì. Non accettano l’idea che le regole letterali dei testi sacri erano appropriate per quel tempo e non per oggi. Quelli che hanno avuto il coraggio di affermarlo sono stati imprigionati. Purtroppo non possiamo aspettarci che le élite intellettuali teocratiche ci possano aiutare in un lasso di tempo utile. E allora possiamo contare solo su un processo di secolarizzazione delle giovani generazioni musulmane.
La Lettura del Corriere 4.2.18
Giacometti, il ritratto finale dell’artista senza finale
di Vincenzo Trione
Parigi, caffè Les Deux Magots, 1952. Nato nel 1922 da una famiglia dell’alta borghesia americana, trasferitosi dagli Stati Uniti nella capitale francese per brevi e frequenti soggiorni dalla metà degli anni Quaranta, amico e biografo di Picasso, James Lord incontra per la prima volta Alberto Giacometti.
Poco più di dieci anni dopo, 1964, il facoltoso scrittore e appassionato d’arte ritrova il grande scultore, che gli chiede di posare per lui. Sarebbe bastato solo un pomeriggio. O poco più. Le sedute sarebbero durate al massimo qualche giorno, assicura Giacometti. Che, per realizzare i suoi ritratti, tende a ricorrere a un’antica consuetudine: ama lavorare avendo dinanzi a sé un modello. Lusingato e incuriosito, Lord accetta. Non sa che sta per diventare il protagonista di un’esperienza estenuante. Che racconterà poi in un memoir intitolato Un ritratto di Giacometti (edito nel 1966 e tradotto in italiano nel 2004 da Nottetempo), dal quale è stato tratto il film Final Portrait di Stanley Tucci (in uscita in Italia il prossimo 8 febbraio).
Il libro e il film documentano fedelmente una specie di genesi. Ogni mattina Lord si reca al numero 46 di rue Hippolyte-Maindron. Una grotta con stalattiti e graffiti. Ovunque, sculture incomplete. Alle pareti, disegni. I dialoghi tra la vittima e il carnefice sono scarni. Giacometti (magistralmente interpretato da Geoffrey Rush) invita Lord a mettersi comodo. Gli chiede di non cambiare mai — neanche lievemente — postura. In quell’antro polveroso e disordinato, egli è l’unico padrone. E detta regole cui bisogna attenersi: senza discutere. Giochi di sguardi. Il maestro studia il giovane. Il giovane studia il maestro. Di Lord, Giacometti percepisce subito il lato meno evidente. Quell’elegante ragazzo di buona famiglia nasconde un volto inquietante: è un possibile delinquente o un possibile depravato. Inizia così una tortuosa e labirintica interrogazione intorno a quel corpo e a quella faccia. Che si ripeterà per diciotto lunghe sedute. Ogni giorno il rito si replica. Con minime variazioni.
«Qualcosa a metà tra la meditazione trascendentale e una visita dal barbiere»: in questo modo il critico Martin Gayford ha descritto la tecnica adottata per i suoi ritratti da Lucian Freud, tra i più originali eredi di Giacometti. Il quale, dapprima, definisce i lineamenti della figura attraverso una cartografia di schizzi nervosi stratificati. È come se volesse lasciare muovere la mano senza controllo razionale, assecondando una sorta di vichiano «conosco facendo». Nel corso della sua impresa, l’artista esita, perché teme di allontanarsi dalla visione iniziale. E cancella con rabbia il palinsesto iconografico appena ordito, lasciando il suo «testo» sospeso. Disonesto, bugiardo, nevrotico (come si definisce), dice: «Impossibile dipingere come ti vedo».
Giacometti vuole impadronirsi della sua preda, che non si lascia catturare. Oscilla, perciò, tra la speranza nel trovare una «via di uscita» e l’abisso della sconfitta. A volte, afferma: «Impossibile finire un ritratto. Dovrei abbandonare». È possibile solo rovinare e distruggere quel che si è creato, confessa. Non fare, ma disfare. Sottrarsi alla tentazione di essere appagati. Provare all’infinito, per avvicinarsi all’intenzione iniziale. Nella consapevolezza, però, che la meta ultima sarà sempre mancata. Come chi, giunto a pochi passi dalla vetta di una montagna, si lascia precipitare nel vuoto.
Assistiamo a un’ossessiva ricerca interrotta da tante tentazioni mondane. Frequentazioni di prostitute. Incontri con mercanti. Perversioni coniugali. Intorno a questa vicenda — per molti versi analoga a quella narrata da Paola Caròla in un bel libriccino uscito nel 2011 ( Monsieur Giacometti, vorrei ordinarle il mio busto , edito da Abscondita) — si snodano i momenti di un’amicizia insolita. Le tappe di un viaggio nella frustrazione e nei tormenti sottesi al processo artistico. Un atto irripetibile. A tratti esaltante, a tratti esasperante. Dono? Maledizione?
Siamo all’epilogo. Costretto a tornare negli Stati Uniti, Lord dice a Giacometti che ormai non può più aggiungere né togliere niente a quel ritratto, iscritto dentro un’architettura solida. «Potevamo fare di più, ma abbiamo fatto abbastanza», è la risposta di Giacometti. Il quale, come promesso, regala l’opera al suo amico. Che non incontrerà mai più. In una lettera gli parlerà del desiderio di rivederlo. Per «ricominciare tutto daccapo». Due anni dopo morirà. The final portrait verrà venduto nel 1990 per oltre 20 milioni di dollari.
Il film di Tucci ha qualcosa di consueto, ma possiede anche qualcosa di radicale. Siamo dinanzi a un classico biopic. E, insieme, al racconto di uno stile. Ma anche a una riflessione filosofica sul significato profondo della creazione artistica.
Il regista americano dà vita a un’operazione filologica. È molto fedele la ricostruzione dello studio di Giacometti, basata sulle foto e sui filmati dell’atelier originale. Quasi un co-protagonista del film: lì si svolge buona parte dell’azione. Altrettanto rigorosa è la realizzazione delle sculture e dei quadri: eseguita da quattro artisti-professionisti e «garantita» dalla Fondazione Giacometti.
All’interno di questo contesto si modellano le ansie di Giacometti. Che viene presentato non senza certi abbandoni retorici. Ecco il solito artista maledetto (un Jimi Hendrix o un Jim Morrison dell’arte), con un’esistenza segnata da schizofrenie, da alcolismo, da amori malati. Pur con queste «concessioni», Tucci riesce a far rivivere il vivace clima culturale della Parigi del dopoguerra. E ci fa sentire gli umori e le idee del suo «eroe». L’amore per Cézanne. L’amicizia con Dora Maar, l’amante di Picasso. Le critiche ai cubisti. Il rapporto conflittuale con Picasso, giudicato un ladro di intuizioni altrui. Al formalismo cubista Giacometti contrappone una proposta solitaria, introspettiva, spiritualistica. La sua è una «statuaria negativa», abitata da piccole larve allungate o da corporeità aggrovigliate. Intento a mostrare ciò che resterà quando «ogni apparenza fallace sarà caduta» (come ha scritto Jean Genette), suggerisce visioni perturbanti. Riduce i volti a continenti interiori agitati da emergenze contraddittorie. Consegna individui prigionieri in se stessi, che si contraggono, sembrano sfuggire, quasi disintegrarsi. Personaggi filiformi, dolenti, consunti.
Primitivo del Novecento, Giacometti — come ci dice Final Portrait — non giunge mai a un approdo. Ogni volta ricomincia. Inizia, si ferma, distrugge, poi inizia di nuovo. Così mette al mondo immagini belle, che subito sfigura, de-figura, aggredisce, rende ignote a se stesse. È quel che accade nelle sculture, nei quadri e nei disegni. Capitoli di un’ostinata avventura poetica, che potrebbe essere interpretata come disperata ricerca dell’assoluto. Una sfida impossibile, prometeica. Sulla quale sembra allungarsi l’ombra di Michelangelo, che aveva scelto di lasciare «non-finite» alcune sue sculture, per non aggiungere «rifinitezza» a un pensiero figurativo già implicitamente maturo nel blocco di marmo.
In alcune pagine del suo libro, Lord ricorda come Giacometti non si stancasse mai di ripetere che un’opera d’arte non può mai dirsi finita. Semplicemente, la si interrompe o la si abbandona. Qualche volta, per ragioni contingenti, la si espone o la si vende. E, tuttavia, quell’opera non raggiungerà mai lo statuto privilegiato della compiutezza. Perché, in fondo, sculture e quadri, come ha osservato Giorgio Agamben, non sono altro che frammenti provvisori di un processo immaginario infinito.
A differenza di Picasso — che tende ad assecondare un irrefrenabile furore — Giacometti pensa il suo mestiere come uno strenuo tentativo per frenare l’impulso cieco e immediato al «fare». La creazione, sembra dire, non è solo disinvolta «potenza-di», ma soprattutto «potenza-di-non». Non ebbrezza. Ma resistenza all’agire. Dubbio. Negazione. Tremore. Ripensamento continuo. «Impossibile finire un ritratto», ripete Giacometti. Forse memore di quel che aveva scritto Dante: «L’artista/ ch’a l’abito de l’arte ha man che trema».
Repubblica 4.2.18
50 sfumature di 68
Era un’altra Italia (e un altro mondo). Le storie di questi nove piccoli eroi l’hanno cambiata. Ma cosa resta 50 anni dopo? Sfogliamolo insieme
di Michele Serra
Troppa libertà? È, in estrema sintesi, la domanda che innerva la discussione su ciò che chiamiamo Sessantotto. Sottende, la domanda, il più malizioso dei sospetti: che lo scardinamento del principio di autorità e la liberazione delle pulsioni individuali trovarono poi esaudimento non in una nuova socialità (di “sinistra”), ma nell’individualismo e nel consumismo (di “destra”). Come tutte le domande importanti, è bene porsela. A patto che sia bene inquadrata, la domanda, non dentro questa Italia, ma dentro quella. Un Paese e una società oggi quasi impensabili, tanto rapidi e radicali sono stati i mutamenti nella mentalità diffusa, nei costumi, nelle relazioni sentimentali e sessuali.
Non sono passati, da questo punto di vista, cinquant’anni: ma cento e forse mille. È necessario ricordarlo specialmente ai ragazzi di oggi, nativi di un Mondo Nuovo nel quale la libertà personale — specie quella sessuale — è una condizione quasi scontata, non urta poteri e non infrange tabù. Ma la memoria di quegli anni giova anche a noi ragazzi di ieri, magari dimentichi di certi percorsi impervi e dolorosi, di certe ribellioni che per ottenere dignità diedero enorme scandalo, ebbero prezzi umani alti, patirono lo stigma feroce e quasi unanime di un’Italia ormai dimenticata. Per capire “ il Sessantotto” bisogna prima capire in quali case, quali scuole, quali fabbriche, quali caserme, quali tribunali quel virus poté attecchire in modo così fulminante, epidemico.
Giovanni Sanfratello aveva ventitré anni e apparteneva ( è il verbo giusto) a una famiglia molto in vista e molto bigotta della borghesia piacentina. Aveva una relazione con il professor Aldo Braibanti, poeta e drammaturgo, comunista, omosessuale, e decise di seguirlo a Roma. Era l’inizio del 1965. Una pattuglia di polizia, accompagnata e in qualche maniera “ guidata” dal padre di Giovanni, fece irruzione nell’appartamento romano dove la coppia conviveva, consegnò al suo compagno, più anziano di vent’anni, una denuncia per “ plagio”, e portò via il ragazzo. Lo rinchiusero in manicomio per più di un anno, fu sottoposto a elettrochoc per “ guarire”. La famiglia ( in sintonia con la società dell’epoca quasi per intero) considerava l’omosessualità una vergognosa malattia, e il professor Braibanti un depravato che aveva corrotto il ragazzo, riempiendogli la testa di idee sovversive e corrompendolo sessualmente: andava punito per legge. Giovanni venne dimesso dalla clinica psichiatrica con “ l’obbligo di risiedere nella casa dei genitori” e dietro il solenne impegno a leggere “ solo libri scritti almeno cento anni prima”, dettaglio esilarante che rimanda al terrore anti- modernista che ancora permeava l’Italietta clericale.
Braibanti era un uomo mite, colto, intelligente, ma quasi tutti i giornali dell’epoca lo dipinsero come un mostro scellerato, corruttore della gioventù. Agli occhi di molti italiani dell’epoca incarnava una doppia sovversione: politica e sessuale. Venne processato nel 1968 con l’imputazione di “ plagio” ( reato in seguito cancellato dai codici). La “ parte lesa”, il suo ex compagno Giovanni Sanfratello, volle scagionarlo dicendosi del tutto consenziente, ma la sua parola non servì a nulla: Braibanti venne condannato a nove anni di prigione. Inutili gli appelli degli intellettuali, guidati da Moravia e Pasolini.
Molto blanda la difesa che il Partito comunista fece di una così evidente vittima del pregiudizio e del sopruso. In un’Italia siffatta, la difesa dei diritti di un omosessuale era ancora una causa sconveniente. Così l’italiano Aldo Braibanti, innocente, finì in prigione “ con i suoi libretti”, come scrisse con divertito spregio un columnist del settimanale fascista Il Borghese.
L’Italia che odiò Braibanti era la stessa che agli inizi del decennio, nel 1960, aveva accolto a insulti e sputi Federico Fellini alla prima milanese della Dolce vita, al cinema Capitol. Il film era accusato di “istigazione al suicidio” e “blasfemia” dall’opinione cattolica più retrograda e ottusa. Venne salvato dalla censura solo ( pare) per l’intercessione di un potente democristiano che temeva la grande popolarità di Fellini e del cinema, allora di gran lunga il medium più acclamato e frequentato.
Franca Viola, diciassette anni, siciliana di Alcamo, figlia di contadini, venne rapita nel Natale ’65 da un giovane di mafia accompagnato da uno stuolo di compari. Il giovane la violenta e la tiene segregata per dieci giorni in un casale. Pretende di sposarla, conta sull’applicazione dell’articolo 544 del codice penale ( che verrà abolito solo nel 1981): “il matrimonio che l’autore del reato contragga con la persona offesa estingue il reato stesso”. Se “ segni” una femmina, poi quella femmina è tua per diritto. È la pratica del “ matrimonio riparatore”, ancora molto diffusa nella Sicilia di quegli anni. Ma la ragazza Franca si ribella al suo predatore. Dice che sposerà chi vuole, e quando lo vorrà. A sorpresa, il padre contadino si schiera con la figlia.
Oggi sembrerebbe un lampante episodio di stupro, ma nell’Italia di allora l’interpretazione dei fatti non fu affatto univoca. Anzi. La discussione fu molto accesa. Il fronte “tradizionalista” fece sentire forte la sua voce: Franca doveva chinare la testa e sposare l’uomo che l’aveva posseduta, oppure ne sarebbe uscita “svergognata”. Intuivano, quei signori, quale tremenda rivoluzione era alle porte: la donna che decide per sé. Franca Viola vinse la sua battaglia. Il rapitore fu condannato a dieci anni, ma gli vennero riconosciute le “attenuanti ambientali”, ovvero il fatto di avere agito in un contesto in cui “rapire” la donna per poi sposarla era una pratica lecita. L’8 marzo del 2014 Franca Viola ha ricevuto dal presidente della Repubblica, Gorgio Napolitano, il titolo di Grande Ufficiale della Repubblica Italiana. Il reato di violenza sessuale è stato promosso a “ reato contro la persona” solo nel 1996. Fino a quell’anno, i nostri codici lo consideravano solo un reato “contro la morale”. Nel febbraio del 1966 un gruppo di genitori cattolici del liceo classico Parini, nel centro di Milano, denuncia per “oscenità a mezzo stampa” il giornalino scolastico La Zanzara. Che cosa avevano pubblicato, di così osceno, gli studenti Marco Sassano, Marco De Poli, Claudia Beltramo? Una inchiesta sulle opinioni degli studenti in materia di sentimenti e di rapporti familiari. Si parlava di relazioni prematrimoniali e di educazione sessuale. Di lì a pochissimi anni diventeranno argomenti correnti anche su Famiglia Cristiana, nelle parrocchie, nei corsi di preparazione per i giovani sposi. Ma in quell’Italia (e in quella Milano) ci fu materia per trascinare tre liceali prima in questura, dove furono invitati a spogliarsi “per verificare eventuali tare fisiche e psicologiche”, come previsto dal codice Rocco; poi in tribunale, dove vennero assolti di fronte a più di quattrocento giornalisti, molti dei quali venuti dall’estero. Il caso ebbe un clamore enorme, spaccò in due la politica italiana e soprattutto il mondo cattolico, la cui parte progressista si schierò con i ragazzi. Mancavano meno di due anni ai grandi cortei del Sessantotto. Nei primissimi, gli studenti sono ancora vestiti come gli adulti: giacca, cravatta, occhiali con enormi montature, capelli corti. Pochi mesi dopo, capelli e vestiti svolazzano, indisciplinati, ingovernabili. Sappiamo tutti che quel decennio fu anche di travolgente dinamicità e vivacità. Anni di rinnovamento, di progresso sociale e politico in tutto l’Occidente. Ma a quelle pulsioni di libertà, a quel progresso, a quel rinnovamento, capitò di convivere con blocchi micidiali di conservatorismo e di autoritarismo (che non è autorevolezza). La mentalità italiana era, nei costumi, nelle gerarchie familiari, perfino nella sua declinazione legale, quanto di più ostile alle nuove libertà. O forse, rovesciando il discorso: da una così potente e perdurante mortificazione non poteva che scaturire, per contrappasso, una travolgente ribellione.
Non sono i comunicati dei vari partitini dell’ultrasinistra, parodie dei partitoni della sinistra classica, a formare il mio ricordo profondo dell’anno 1968. Sono semmai, al liceo Manzoni di Milano, le timorate professoresse che raccomandavano alle mie compagne di classe di non indossare i pantaloni (molto sconsigliati) e di raccogliere i capelli, perché i capelli sciolti sono scostumati (vedi quanto di islamico abitava in mezzo a noi anche prima dell’Islam). Fu l’apertura del consultorio Aied in via Castelbarco, dove le mie compagne di scuola, con i capelli raccolti e non, prendevano coscienza della contraccezione, a segnare in via definitiva l’arrivo della rivoluzione.
Repubblica 4.2.18
Il tradimento dell’Occidente
I ragazzi dell’Est condannati al Muro
di Simonetta Fiori
C’è un lato oscuro del Sessantotto di cui finora s’è parlato poco. O a bassa voce. Certo non è mai stato evocato con il sentimento di disagio e colpa che ora traspare dalle pagine di chi allora fu partecipe della rivolta e oggi si domanda: come è stato possibile? Come è stato possibile che noi autenticamente libertari voltassimo le spalle ai nostri coetanei di Praga, Varsavia e Belgrado in lotta contro regimi illiberali? Come è stato possibile che la nostra idea di Europa fosse così angusta da espungere i fratelli che leggevano i nostri stessi romanzi e ascoltavano i Rolling Stones? Succede a Torino e a Roma, ma anche a Parigi o a Berlino: l’ideologia che stritola amore e dolore. Così si resta distanti dalla primavera di piazza San Venceslao e dal successivo inverno dei carri armati russi. Così non ci si accorge degli sfollagente sulle schiene degli studenti polacchi, con l’espulsione di migliaia di ebrei. E il movimento nelle università jugoslave, con il suo ribollire di nazionalismi, sembra appartenere a un altro pianeta. Su quella parte di Europa cade un silenzio che oggi suona paradossale. Anche perché, a sfogliare il libro della successiva storia europea, quel che ha contato di più è proprio l’altro Sessantotto. Quello che non abbiamo capito.
Un “ Occidente sequestrato”. Così l’avrebbe definito Milan Kundera, riferendosi alla tragedia dei paesi considerati dalla loro amata Europa come un pezzo dell’Impero sovietico, e niente più. E Il Sessantotto sequestrato è il titolo di un prezioso volume di Donzelli che mette a fuoco l’imperdonabile distrazione verso Cecoslovacchia, Polonia, Jugoslavia e dintorni. A renderne più interessante la lettura è che a riflettere sull’abbaglio sono due storici che presero parte alle speranze del movimento e oggi vi fanno i conti non senza la corda partecipe dell’autobiografia: Guido Crainz, che ha curato il volume, e Anna Bravo, autrice di uno dei saggi. Mentre sull’altra sponda, quella allora rimossa, le testimonianze antiche e recenti di Jirí Pelikán, Adam Michnik e Wlodek Goldkorn ci restituiscono l’assurdità di una rimozione che all’epoca contagiò larga parte della gauche intellettuale.
Dalla sinistra ortodossa a quella eretica, l’atto di accusa redatto da Crainz non risparmia nessuno. A cominciare dal silenzio che accolse l’appello degli artisti cecoslovacchi lanciato sulle colonne dell’Espresso diretto da Eugenio Scalfari. “Ci rivolgiamo a voi, intellettuali occidentali di sinistra, che ancora siete soggetti a pericolose illusioni sulla democrazia dei paesi socialisti”, scrivono tra gli altri Václav Havel e Milos Forman nel settembre del 1967, stagione di rinnovata caccia alle streghe. “Ci rivolgiamo a voi che protestate contro i massacri americani nel Vietnam, contro il fascismo in Spagna, contro il razzismo negli Stati Uniti e chiudete gli occhi su ciò che succede là dove riponete le vostre speranze!”. Un grido d’allarme sulla presbiopia del nostro ceto pensante. Reazioni? Per la gran parte “ raggelanti”, annota Crainz. Non solo sulle pagine di Rinascita, il settimanale del Pci, che per voce di Peter Weiss liquida i ribelli cechi con l’accusa di “sopravvalutazione della libertà occidentale”. Ci si mette anche i Quaderni Piacentini, tribuna tra le più stimolanti dell’altra sinistra, che rigetta “ le istanze borghesi” dei dissidenti con l’argomento che del marxismo non avevano capito un bel nulla.
Il clima di borioso torpore non viene scosso neppure dalle agitazioni studentesche che sin dal gennaio del 1968 attraversano le piazze polacche, con un’ondata repressiva che colpisce anche i professori, un nome per tutti Zygmunt Bauman. Quella promossa dal generale Moczar — ministro dell’Interno di Gomulka — è una campagna dai toni aspramente antisemiti che avrebbe portato all’allontanamento di tredicimila ebrei. Reazioni da parte delle università italiane? Pochine. Eppure le informazioni arrivano, grazie sempre all’Espresso e ai corsivi di Gianni Rodari su Paese Sera. Uno di quei ragazzi che allora lasciarono la Polonia, oggi autorevole firma di Repubblica, Wlodek Goldkorn, confessa “la sua incredulità per l’ignoranza e l’indifferenza della stragrande maggioranza delle forze della sinistra occidentale di fronte al linguaggio fascista dei comunisti”. Un’incredulità rimasta intatta per mezzo secolo.
Ai nostri ragazzi innamorati del Che e di Mao sfugge completamente anche quel che accade dietro la porta di casa, le tensioni nazionalistiche esplose negli stessi mesi tra gli studenti di Belgrado, Zagabria e Sarajevo ( ne parla il saggio di Nicole Janigro che rivela un mondo sconosciuto). E rispetto alla scure sovietica che nell’estate del ’ 68 cala sulle speranze dei giovani praghesi, la nuova sinistra dei gruppi e delle riviste — da Giovane Critica a Classe e Stato, dalla casa editrice Samonà e Savelli al leader del movimento romano Oreste Scalzone — quest’arcipelago allora egemone preferisce trincerarsi dietro un’equidistanza raccapricciante, oggi diremmo cerchiobottista: si condanna l’invasione dei carri armati, ma anche il nuovo corso del “ buon padrone Dubcek”, accusato di “ revisionismo” e “ restaurazione capitalistica”. Pur non mancando isolate voci solidali — soprattutto gli articoli del Manifesto che l’avrebbe pagata con l’espulsione dal Pci — il tono prevalente nell’estrema sinistra giovanile è di estraneità alla tragedia cecoslovacca. Per Praga non spendono una parola neppure i cineasti raccolti alla Mostra di Venezia, cuore artistico della formidabile contestazione. “ I carri armati invadevano la città ma gli autori non mandarono neppure una cartolina di rammarico”, avrebbe raccontato Liliana Cavani. E quando nel gennaio del 1969 Jan Palach si dà fuoco come un bonzo vietnamita, molti tra i nostri sessantottini restano indifferenti. Oppure esprimono un misurato lutto — raccontano Crainz e Bravo — “ come di chi partecipa a un funerale rimpiangendo le doti dell’estinto, ma senza mischiarsi troppo con la sua famiglia”.
Furono solo gli studenti italiani a mostrare distacco per l’altro Sessantotto? In realtà sia a Parigi che a Berkeley sono rare le scintille di fratellanza. L’esule ceco Pelikán ha raccontato di aver scritto un’accorata lettera ad Angela Davis — simbolo della rivolta americana — senza riceverne un cenno di risposta. “Fummo prigionieri della mitologia”, avrebbe ammesso anni più tardi Daniel Cohn-Bendit, il leader del Maggio francese. E il fascino dell’insurrezione rende ciechi sulla realtà del comunismo realizzato. È Anna Bravo a condurci tra le contraddizioni del nostro movimento giovanile rispetto alle ragioni del “Sessantotto sequestrato”. A Parigi come a Torino gli studenti inseguono il sogno della rivoluzione, a Praga o a Varsavia chiedono riforme. Per i primi “non c’è libertà senza pane”, per gli altri “non c’è pane senza libertà”. Da noi il comunismo è “una costruzione simbolica che attrae tutte le cose belle e buone del mondo”, per gli altri “ il comunismo significa gulag, polizie segrete, censura e paura”. Per l’Occidente che legge Marcuse “la democrazia è un amore secondario perché soltanto formale, inerte di fronte alle ingiustizie sociali, complice e vittima della esecrata società di massa”. Per i ragazzi dell’Europa centrale, al contrario, la democrazia è il traguardo desiderato. Lo dice con chiarezza un esule ceco intervenendo in un’assemblea studentesca a Bologna: “ Forse è vero che chiedevamo la democrazia borghese. Ma per noi, che abbiamo vissuto nazismo e stalinismo, la democrazia resta un obiettivo avanzatissimo”. Kundera l’avrebbe sintetizzato alla sua maniera: “Il maggio parigino è un’esplosione di lirismo rivoluzionario. La Primavera di Praga è un’esplosione di scetticismo postrivoluzionario”.
Un’altra sostanziale differenza riguarda il rapporto con la violenza. Se nell’Occidente fa breccia il “paradigma guerriero”, caro all’immaginario maschile — è sempre Bravo a farci strada — a Praga prevale il codice ironico della disobbedienza civile e non violenta. “Lenin svegliati! Breznev è uscito pazzo” è uno dei cartelli innalzati nel settembre del ’68 davanti ai carri armati. Il socialismo dal volto umano non può nascere su un massacro.
Cosa è rimasto dei due Sessantotto? Un bilancio storico non può sottrarsi alla domanda centrale. Se quello “sequestrato” ha inciso positivamente sugli eventi successivi — i leader di Solidarnosc e di Charta 77 venivano da lì — per poi liquefarsi nell’opaco presente tra populismo e nazionalismo, il Sessantotto italiano qualche interrogativo lo pone. Fu la clamorosa sottovalutazione della democrazia formale ad alimentare quell’indulgenza più tardi riservata alla violenza dei “compagni che sbagliano”, come dissennatamente furono battezzati i terroristi? Nessuno formula la domanda esplicitamente, però è possibile leggerla tra le righe. Ma questa è davvero un’altra storia, che meriterebbe un nuovo libro.
Repubblica 4.2.18
Lea Melandri e il femminismo
Dal ’ 68 a #metoo la rivolta è donna
di Gregorio Botta
Non è una pentita del ’ 68. E non è neanche una reduce: non ne ha nostalgia perché, dice, «metto ancora in pratica le intuizioni nate in quegli anni straordinari » . Per Lea Melandri il movimento fu una rivelazione e una liberazione. «Ero arrivata a Milano, scappavo dalla provincia di Ravenna, da una famiglia poverissima. Ed ero appena diventata insegnante in una scuola media. Partecipai alle prime assemblee con i miei colleghi, fui colpita dall’idea di abolire voti, bocciature, di una scuola non autoritaria. Non mi parve vero poter abbandonare un ruolo nel momento in cui dovevo assumerlo. Abbandonarlo voleva dire ripensare a tutto il mio percorso scolastico, di figlia di contadini che aveva potuto fare un buon liceo, ma al prezzo di lasciare fuori dalle aule la mia vita reale, le esperienze, le mie condizioni sociali. Ricordo che in un tema di quinta ginnasio descrissi come vivevo. La professoressa disse: è scritto benissimo, ma sei fuori tema. Mi venne un esaurimento... Ecco con il ’ 68 finalmente il “ fuori tema” diventava il tema di cui parlare in classe: l’individuo nella sua interezza, storia, complessità». Quell’inizio è stato l’imprinting che poi ha segnato la vita e l’impegno di Lea Melandri, il suo lavoro nel movimento, nella scuola, con Elvio Fachinelli intorno alla rivista L’Erba voglio e con il femminismo. Per questo si ribella quando a ogni decennio che finisce con l’ 8 si ripete il rito del ripensamento, delle critiche a una stagione riletta sempre con gli occhi del presente, e quindi con nuove accuse. Se c’è un processo al ’ 68, lei indossa volentieri i panni della difesa.
Partiamo dall’ultima accusa. È molto citata la frase di Mario Tronti secondo cui il ’68 ebbe una forza destituente ma non costituente: la usano per dire che quegli anni hanno incubato, in qualche modo, i germi dell’antipolitica di cui soffriamo oggi.
« A me dispiace che la memoria di quegli anni venga cancellata non solo da chi lo avversava, ma anche dai suoi protagonisti. In quegli anni straordinari nacquero pratiche che rovesciavano i rapporti tra vita e politica. Ma tutto era tranne che antipolitica. I movimenti non autoritari eclissavano il confine tra privato e pubblico. Si scopriva la politicità di tutto ciò che era stato considerato per secoli non politico. Sesso, famiglia, amore, morte, dolore, tutte le esperienze fondamentali dell’individuo erano confinate fuori dalla storia, condannate all’immobilità, a ripetersi sempre uguali. Uscire dal dualismo privato- pubblico, individuo- polis, natura- cultura, trovare i nessi e indirizzare il cambiamento: ecco quello che abbiamo fatto. Era l’embrione di un nuovo agire politico, ne allargavamo enormemente il campo » .
Da cui sono poi nate la legge sul divorzio e sull’aborto.
« E sono state conquiste importantissime. Ma non vorrei ridurre a questo la novità di quegli anni, che è stata invece un salto di coscienza, scoprire quanta storia era confinata nelle esperienze del singolo».
Altro capo d’accusa. Tutto questo parlare del privato, del singolo, dell’individuo, del diritto al sogno e al desiderio, ha creato — dicono — la cultura del narcisismo e, infine, ha reso possibile il berlusconismo.
« Io trovo che questa sia l’accusa più avvilente e volgare, una vera deformazione di quel che accadde, che era la riscoperta di quella che io chiamo la singolitudine, la singolarità di ogni essere. Scoprivamo l’individualità delle persone, e in particolare quella delle donne, considerate per secoli un genere e basta. Questa è stata la forza del femminismo: svelare che nei vissuti di ogni singola donna c’è una rappresentazione del mondo che le donne non hanno contribuito a creare, perché hanno interiorizzato la visione maschile ».
Lei parla del femminismo che seguì il ’68. Molti dicono invece che il movimento ebbe vita brevissima, che la carica libertaria non durò che un anno, soffocata da gruppi e gruppetti che se ne contendevano la guida in nome di Marx, Mao e persino Stalin. Alla Statale risuonava il triste slogan Stalin-Beria-Ghepeù...
« Ma il ’ 68 non è solo una data, è tutto ciò che si è mosso prima e soprattutto dopo. Dura tutt’ora. Io considero il femminismo il vero seguito del ’ 68, ne ha portato avanti le intuizioni più originali. Abbiamo avuto un conflitto continuo con la sinistra extraparlamentare di allora: abbiamo indicato i pericoli della loro politica, del leaderismo, della passività. Gli dicevamo che avevano introiettato gli schemi che combattevano. Ecco un’altra grande novità di quegli anni: l’ingresso della psicanalisi nella politica. Il femminismo è il solo sopravvissuto agli anni Settanta. Per questo dico che non ho nostalgia del ’ 68: non ne sono mai uscita » .
Anche il fenomeno # MeToo e le ribelli di Hollywood, e le cineaste italiane, fanno parte di questa rinascita?
«È un modo in cui sono venute alla scoperta contraddizioni e sopraffazioni. Ma non mi convince molto la modalità e quindi non vorrei parlarne. Preferisco parlare delle ragazze di “Non una di meno”, vicinissime alle ispirazioni degli anni Settanta: ne hanno colto la radicalità, hanno grande lucidità nell’analizzare i rapporti di violenza tra i sessi, sul lavoro, nei media».
Però è un lavoro sottotraccia. Non mi pare riesca a emergere nel discorso pubblico, dominato dalla semplificazione.
«C’è un impasto terribile di pubblico e privato, siamo di fronte a una forte personalizzazione della politica, a un uso terribile dei sentimenti, delle paure, delle peggiori emozioni. È come se nell’etere si fosse spalancato il vaso di Pandora dell’inconscio, siamo in un mare di inconsapevolezza. È pericolosissimo. Quando le viscere della storia diventano dominanti sappiamo che può succedere di tutto. Noi non volevamo questo, noi volevamo indagare il privato per conoscerlo, per stabilire legami e nessi, per cambiare il mondo e noi stessi. Non per farcene schiavi. Sapevamo che cancellare gli elementi repressivi doveva essere solo il primo passo, c’era molto altro lavoro da fare per la liberazione degli umani che hanno ereditato e introiettato secoli di violenza. A scuola, quando abolivo voti e bocciature non è che avessi poi di fronte una classe perfetta, di ragazzi tutti attenti e intelligenti. C’era un gran casino all’inizio, una gran confusione, e noi cominciavamo da lì il percorso di consapevolezza».
Ed eccoci a una nuova imputazione. Il ’ 68 ha distrutto scuola e università, l’istruzione di massa è un’illusione che nasconde meccanismi selettivi fortissimi.
« Sciocchezze. Ricordiamoci cos’era l’istruzione allora: cominciava la scuola di massa, ma la selezione era durissima. Noi demmo a tutti la possibilità di prendere la parola, fu un processo davvero liberatorio. Oggi quella lezione è più che mai valida. Se non parli della vita dei ragazzi, di ciò che accade “ sottobanco”, se non parli del corpo, della sessualità, dell’amore, di come affrontare paure e culture diverse, vuol dire che stai consegnando la loro formazione ad altri mondi, ai social network » .