La Stampa 27.2.18
Quel Pd che non vota per il Pd
di Federico Geremicca
Magari
era inevitabile e non è solo colpa sua, di Matteo Renzi, intendiamo. O
magari è soltanto la riprova che qualcosa di profondo si è davvero rotto
nel rapporto tra l’ex presidente del Consiglio e il Paese. Ma la
sensazione che va consolidandosi in avvio di quest’ultima settimana di
campagna elettorale è che il voto del 4 marzo si stia trasformando - per
Renzi personalmente - in qualcosa di molto simile alla Madre di tutte
le battaglie, quella persa il 4 dicembre del 2016.
E cioè, in un
nuovo referendum su di lui: a prescindere dal merito, che ieri era una
innovativa ipotesi di riforma costituzionale e oggi un voto per decidere
del governo del Paese.
Naturalmente, a differenza di quanto
accaduto nel dicembre di due anni fa - quando un eccesso di
personalizzazione di quella consultazione convinse molti elettori di
diversi partiti che votare «no» avrebbe potuto significare liberarsi di
Renzi come capo del governo - stavolta il possibile uso «distorto» della
scheda elettorale è questione che riguarda e agita solo parte
dell’elettorato Pd. L’analisi (o la speranza) che motiva quelle frange
di dirigenti, militanti e simpatizzanti è secca e semplice: se il
Partito democratico tracolla, stavolta Renzi sarà davvero costretto alle
dimissioni.
Certo, si tratta di una strategia rudimentale: che
ricorda molto, volendo, il vecchio adagio su quel signore che per far
dispetto alla moglie... Ma la tentazione esiste ed è forte: votare per
il centrosinistra (la lista Bonino o quella ulivista, per dire), ma non
per il Pd, così da assestare l’ultimo colpo al segretario in carica. È
una presa di campo forse discutibile, ma certo non incomprensibile: in
fondo, anche se declinata in altro modo - e cioè in nome dell’unità - è
la scelta annunciata dallo stesso Romano Prodi, influente padre
fondatore. Quanto sia diffusa tra l’elettorato di centrosinistra,
naturalmente, è difficile dire. Che sia invece assai presente nei gruppi
dirigenti Pd - a Roma come altrove - è certo e perfino evidente.
È
la scommessa - per esempio - degli scissionisti del Pd, che si sono
addirittura mossi in anticipo puntando tutte le loro fiches proprio
sulla sconfitta di Matteo Renzi. Ed è la scelta - in fondo - anche di
personalità come Grasso e Boldrini, che oggi sembrano avere come primo
nemico proprio il Pd a trazione renziana. Si tratta di un sentire -
naturalmente non esprimibile in questi termini - che non è estraneo
nemmeno al ragionare di molti e importanti esponenti democratici (da
Franceschini a Delrio, passando per Minniti fino addirittura a
Gentiloni) che hanno vissuto con mortificazione - per usare un eufemismo
- la fase di preparazione delle liste elettorali, che ha visto il
segretario fare il pieno di collegi ed eletti sicuri.
Nulla di
tutto questo, naturalmente, è sconosciuto a Matteo Renzi: che forse non a
caso ieri ha tentato di depotenziare l’eventuale trappola, annunciando
in diretta tv che dopo il voto non farà passi indietro, nemmeno in caso
di sconfitta elettorale. È la seconda delle mosse «difensive» del
segretario, visto che la prima era stata già avviata una decina di
giorni fa, favorendo un maggior attivismo (ed una più visibile presenza)
degli uomini della cosiddetta squadra. Iniziative comuni e maggior
spazio a Gentiloni e Minniti, in particolare: non solo per ampliare
l’offerta politica del Pd, ma anche per tentare di mettere agli atti la
circostanza che una eventuale sconfitta non avrebbe un solo padre, ma i
volti di molti. A differenza, appunto, di quanto accadde nella battaglia
persa il 4 dicembre di due anni fa.
Sui progetti di alcuni e
sulla strategia difensiva di altri, peserà come un macigno - ovviamente -
il risultato che arriverà dalle urne domenica sera: ma già col 20-21
per cento si può dar per certa l’ennesima resa dei conti all’interno del
Pd. Matteo Renzi avrebbe forse potuto evitarla - e contemporaneamente
aumentare le chance di successo del suo partito - investendo con più
convinzione sulla popolarità e la placida simpatia riscossa in questo
anno da Paolo Gentiloni. Seppur sollecitato, non l’ha fatto. E non
sappiamo - ora - se ne sia pentito: non solo per le incerte sorti del
Pd, ma per l’aleggiare -15 mesi dopo - di un nuovo, seppur poco
ortodosso, referendum su di lui.