Corriere 27.2.18
Partiti e candidati
Il valore di chi è più capace
di Sabino Cassese
P
er il prossimo 4 marzo circa 50 milioni di italiani sono chiamati al
voto. Questo — lo dice la Costituzione — è un «dovere civico».
Quel
voto servirà a scegliere i membri del Parlamento, non il governo. In
una repubblica parlamentare, il popolo elegge chi dovrà esercitare il
potere legislativo, non chi è chiamato a svolgere compiti esecutivi. I
sistemi elettorali e la divisione in due grandi forze politiche
(centrodestra e centrosinistra), avevano permesso per circa vent’anni di
conoscere la sera delle elezioni chi avrebbe governato. L’attuale
tripolarismo e la nuova legge elettorale impediranno, di fatto, che
questo avvenga.
Nel seggio, i votanti non potranno decidere
liberamente chi votare, ma dovranno approvare o respingere le
candidature proposte dai movimenti politici. È, quindi, importante
sapere come queste siano state selezionate, quale è stato l’equilibrio
tra popolarità, esperienza, legame con il «territorio» (cioè con un
collegio elettorale), rappresentanza della «società civile», che le
forze politiche hanno stabilito.
Di tutto questo sappiamo poco, ma
possiamo evincere alcuni elementi da uno studio dell’Istituto Cattaneo
sulle pluricandidature e sul ricambio dei candidati. Alle molto temute
pluricandidature, le forze politiche hanno fatto ricorso con
moderazione: solo un sesto dei candidati è nelle liste di più di un
collegio.
Q uesto vuol dire che non c’è stato quello strapotere
delle segreterie dei partiti o dei leader, che prima si temeva, nel
collocare i candidati preferiti in più posti, per assicurarne
l’elezione.
Altro elemento importante è il ricambio della classe
politica (almeno, per ora, quello «in entrata», perché solo al termine
delle elezioni potremo misurare quello «in uscita»). Oltre il 75 per
cento dei candidati nei collegi uninominali non ha mai seduto in
Parlamento (ma la percentuale varia molto da partito a partito). Il 79
per cento dei candidati nei collegi plurinominali non è stato in
precedenza parlamentare (ma i «nuovi» sono per lo più nelle posizioni
ultime delle liste, e quindi il numero dei volti nuovi è destinato ad
essere ridimensionato dopo le elezioni).
Questo ricambio ha un
aspetto positivo ed uno negativo. Ci si può aspettare che il prossimo
Parlamento avrà molti volti nuovi, perché molti volti vecchi non hanno
meritato. Dai candidati nuovi ci si può anche attendere molta
inesperienza: occorrerà che essi si «facciano le ossa». Tanto più che un
ricambio così forte si aggiunge al ricambio degli anni precedenti,
mentre un certo grado di «professionismo» politico è necessario. Non va
dimenticato che non esistono più i partiti di una volta, i
partiti-macchina, quelli che servivano a selezionare, formare,
promuovere, una classe politica, dal basso, fino ai livelli più alti.
Tra
i candidati, il corpo elettorale (i votanti) dovrà scegliere. Il
criterio di questa scelta, dicevano i costituenti americani alla fine
del ’700, è «quello di assicurarsi come governanti uomini dotati di
molta saggezza per ben discernere, e molta virtù per perseguire il bene
comune della società» («Il federalista» n. 57). Uno dei padri fondatori
dello Stato italiano, Vittorio Emanuele Orlando, scriveva nel 1889 che
l’elezione è «una designazione di capacità», perché l’esercizio delle
funzioni pubbliche «spetta ai più capaci».
Si è, invece, diffusa
l’idea che i parlamentari non vadano scelti per le loro qualità e per lo
scrupolo negli impegni che prendono, perché basta che ascoltino il
proprio elettorato. Chi pensa questo non sa che i Parlamenti discutono
prima di votare, che la maggior parte del loro lavoro si svolge in
commissione, che i rappresentanti del popolo non sono macchinette per
votare ma esseri pensanti, che debbono discutere, soppesare le varie
opzioni, convincersi, prima di decidere. Un grande uomo politico
inglese, e uno dei più acuti osservatori dello sviluppo della
democrazia, Edmund Burke, disse nel 1774 ai suoi elettori di Bristol che
il Parlamento non è un «congresso di ambasciatori d’interessi diversi,
l’un l’altro ostili», che agiscono come mandatari, e che la legislazione
è questione di ragione e di discernimento e i deputati non possono
essere teleguidati da un mandato imperativo dei loro elettori. Questo è
ancor più vero in Italia, dal momento che il Parlamento invade
continuamente l’area di azione del governo e dell’amministrazione, nella
quale sono necessarie competenza, esperienza e preparazione tecnica.
Insomma,
se chiediamo all’idraulico o al falegname, al chirurgo o all’ingegnere
che sappiano fare (e bene) il loro mestiere, perché la competenza non
dovrebbe essere uno dei criteri per scegliere coloro che debbono
svolgere una funzione molto più importante e gravida di conseguenze per
la collettività, di quella del falegname, dell’ingegnere, del medico? La
politica non è e non dovrebbe essere un mestiere, perché essere eletti
deputati non vuol dire trovare un impiego e non è auspicabile che i
politici siano tali a vita. Tuttavia, essa è una professione, ed è anche
una professione difficile, che bisogna imparare e saper esercitare.