lunedì 26 febbraio 2018

La Stampa 26.2.18
Xi Jinping come Mao
La presidenza è a vita
Cambia la Costituzione
La Cina abolisce i due mandati per emulare Mao
di Francesco Radicioni


La voce circolava da tempo tra gli analisti che tentano di decifrare quel che si muove nelle stanze del potere di Pechino. Ieri è arrivata la conferma ufficiale. Il Partito comunista ha proposto un emendamento costituzionale che cancella «il limite di due mandati consecutivi» per il presidente e il vice-presidente della Repubblica popolare. Per gli esperti è il segnale più forte che Xi Jinping vuole rimanere alla guida della Cina ben oltre la scadenza del suo mandato decennale nel 2023. La modifica della carta costituzionale sarà approvata dall’Assemblea Nazionale del Popolo - il Parlamento di Pechino - che inizierà la sua sessione annuale di lavori il prossimo 5 marzo.
Quest’annuncio è anche la conferma che negli ultimi 5 anni Xi Jinping è riuscito a consolidare il proprio potere al punto da riuscire a forzare quelle regole che avevano imbrigliato le ultime generazioni di leader cinesi. Una serie di norme istituzionali, di pesi e contrappesi che nell’ultimo quarto di secolo hanno consentito transizioni di potere ordinate e che sono state pensate dall’architetto dell’apertura e delle riforme, Deng Xiaoping, per scongiurare il ritorno del culto della personalità che aveva segnato gli anni di potere di Mao Zedong. Secondo l’accademico Su Wei, citato dal Global Times, le sfide che attendono la Repubblica popolare «nel periodo cruciale tra il 2020 e il 2035» hanno bisogno di una leadership «stabile, forte e coerente». Lo scorso autunno, durante il 19esimo Congresso del Partito comunista, era stato lo stesso Xi Jinping a dire che «la Cina è entrata in una nuova era». Il presidente cinese aveva poi elencato una serie di obiettivi ambiziosi che guardano fino al 2050 - centenario dalla fondazione della Repubblica popolare - quando la Cina sarà un Paese «prospero, con maggior fiducia in se stesso, dotato di esercito moderno e con una più alta qualità della vita». Per la retorica di Pechino, l’obiettivo del «grande rinascimento della nazione», la lotta alla povertà e alla corruzione, la riforma del sistema finanziario e le altre sfide interne e internazionali hanno bisogno di una figura in grado di compattare l’intero Partito comunista intorno alla propria leadership. Inoltre, il limite dei due mandati presentava il leader della seconda economia del mondo come un’anatra zoppa. Con la messa in soffitta di questo paletto istituzionale, ora molti temono che il leader della Repubblica popolare possa conservare l’incarico a vita.
Classe 1953, Xi Jinping è al potere da cinque anni e già nel corso del primo mandato è riuscito ad accentrare nelle proprie mani un potere immenso, come non si vedeva da decenni in Cina. Oltre a essere segretario del Partito comunista, presidente della Repubblica popolare e della potentissima Commissione militare centrale, Xi ha collezionato una decina di altri titoli e incarichi. «Ora il presidente cinese controlla tutto il potere economico, politico e miliare ed è persino più potente di Mao», dice il commentatore politico Johnny Lau Yui-siu, alla Rthk di Hong Kong. A ottobre, il Congresso del Partito comunista ha inserito «il pensiero di Xi Jinping per la nuova era del socialismo con caratteristiche cinesi» nello statuto del Partito, facendo così entrare il nome del leader cinese nel pantheon dei padri nobili della Repubblica Popolare. Alcuni giorni dopo, quando Xi ha presentato i membri del nuovo vertice del potere di Pechino è stato subito chiaro che - rompendo con la tradizione degli ultimi decenni - nella lista non era stato indicato un chiaro successore: i 7 membri del Comitato permanente del Politburo erano tutti esponenti della quinta generazione, la stessa di Xi Jinping.
All’inizio di marzo, l’Assemblea nazionale del Popolo approverà le modifiche e dovrà mettere il sigillo sulle nomine ai vertici dello Stato. Xi Jinping sarà confermato alla guida della seconda economia del mondo, mentre, secondo le indiscrezioni, è probabile che il nuovo vice-presidente sarà l’ex-zar della lotta alla corruzione, Wang Qishan. Se confermata, si tratterebbe di un’altra rottura con il passato: Wang, 69 anni, ha infatti superato l’età della pensione e con il Congresso dello scorso autunno si sarebbe dovuto ritirare dalla vita pubblica. Dopo l’annuncio, sui social è calata la scure della censura. Ieri sera non si poteva cercare su Weibo termini come «ascesa al trono» e «immortalità». Qualcuno sceglieva l’ironia e scriveva su WeChat: «Mia madre mi dice che devo sposarmi entro la fine del mandato di Xi. Ora posso tirare un sospiro di sollievo».

Corriere 26.2.18
Cina, via il limite dei due mandati
Xi Jinping resterà presidente a vita
di Guido Santevecchi


Xi Jinping resterà in carica ad oltranza. Sarà presidente della Cina fino a quando vorrà. Il Comitato centrale del partito comunista ha infatti proposto di rimuovere dalla costituzione il limite dei due mandati di cinque anni. Xi Jinping, 64 anni, è presidente dal 2013 e a giorni è attesa la sua «rielezione». Quando scadrà il mandato, nel 2023, potrà quindi ricandidarsi per la terza volta. Il progetto di Xi Jinping è chiaro: «Cina per sempre socialista, grande, moderna e bella».

Xi Jinping leader assoluto della superpotenza cinese fino a quando vorrà. È questo il quadro che si sta delineando a Pechino, perché il Comitato centrale del Partito comunista ha proposto di rimuovere dalla costituzione il limite di due mandati di cinque anni l’uno per la carica di presidente della Repubblica popolare cinese. La notizia è stata data dall’agenzia statale Xinhua e non c’è da dubitare che «la proposta» verrà accolta.
Xi Jinping, 64 anni, è presidente dal marzo del 2013 e nei prossimi giorni è attesa la sua «rielezione» da parte del Congresso nazionale del popolo che si aprirà il 5 marzo. Con questa revisione della costituzione, quando nel 2023 scadrà il suo secondo mandato, Xi potrà ricandidarsi per un terzo.
Lo scorso novembre, il 19esimo Congresso del Partito ha inserito il «Pensiero di Xi Jinping sul socialismo con caratteristiche cinesi per una nuova era» nello statuto comunista e ora la stessa formula verrà iscritta anche nella costituzione della Repubblica. Tra le parole d’ordine del leader supremo alcune sono delicate e quasi poetiche: la Cina, ha detto, dev’essere «oltre che grande, moderna, bella e armoniosa». Xi ha tracciato piani di sviluppo per la Cina fino al 2035 e anche fino al 2049, quando la Repubblica popolare compirà il primo secolo di esistenza. Ha nelle mani un Paese diventato grande potenza economica che reclama un ruolo di guida mondiale. Gli manca solo il titolo di statista globale. Con questa riforma che gli permette di restare al potere oltre i dieci anni, potrebbe intanto diventare presidente a vita.
Anche se il Global Times , quotidiano governativo di Pechino, anticipando le possibili critiche internazionali (il dissenso interno è un genere non previsto) scrive che la riforma non significa «mandato a vita». In un editoriale il giornale ricorda che il sistema di governo si basa «su una trinità formata dal segretario generale del Comitato centrale del partito, dal capo dello Stato e dal presidente della Commissione militare centrale». Tre cariche incarnate da Xi. È giusto che la trinità non venga scissa da limiti temporali, conclude il Global Times . A questo punto va aggiornata l’osservazione che da tempo fanno i politologi: che questo leader ha riunito gli stessi poteri di Mao Zedong. In realtà Xi è più potente, perché ai tempi di Mao la Cina era un gigante povero e arretrato, mentre ora è la seconda economia del mondo e ogni sua scelta influenza i meccanismi della globalizzazione.
Ma chi è quest’uomo di 64 anni, dal 2012 segretario generale comunista, dal 2013 presidente della Repubblica popolare e della Commissione centrale militare? È stato un «giovane istruito» che nel 1968, a 15 anni, fu mandato con migliaia di coetanei dalle città a zappare in campagna «per essere rieducato dai contadini più poveri», come ordinava la Rivoluzione culturale. Xi allora si portò dietro valigie piene di libri: i contadini che lo aiutarono a trascinarle pensarono che dentro ci fosse un tesoro. Erano volumi che lo studente-lavoratore divorava la notte, dopo aver spalato letame: lesse di tutto, da Victor Hugo a Hemingway e tre volte di seguito il Capitale di Marx. È un «Principe rosso», perché è figlio di un compagno di lotta di Mao, un predestinato al potere. Il futuro presidente, tornato a Pechino dopo sette anni nei campi, invece di divertirsi come fecero molti coetanei usciti dall’incubo maoista, si lanciò alla riconquista del posto che gli spettava nella nomenklatura. E così ha scalato la gerarchia.
Una volta installatosi come «trinità di governo» è diventato cacciatore di tigri: sotto la sua guida la battaglia anticorruzione ha punito in 5 anni 1,34 milioni di piccoli burocrati («mosche da schiacciare» le chiama Xi) e anche 280 alti funzionari a livello ministeriale o superiore («tigri da stanare», nella visione del leader). Xi è anche un nazionalista che ama farsi vedere in mimetica tra i soldati e prepara un esercito «capace di combattere e vincere una guerra moderna». È un uomo di visioni: ha offerto al mondo la Nuova Via della Seta per allargare i commerci e sostenere la globalizzazione (con caratteristiche cinesi, però).
Il progetto è chiaro: Cina «per sempre socialista, grande, moderna, bella», e con Xi Jinping presidente oltre il limite dei due mandati, fino a quando vorrà. O fino a quando non sarà chiamato a colloquio con Karl Marx, nel paradiso dei pensatori comunisti.

Repubblica 26.2.18
Dove mira Xi Jinping
I piani dell’Imperatore da qui all’eternità
Sbaragliati i nemici, il leader ha campo libero: campione della globalizzazione, delle ricerche sull’Intelligenza artificiale e presto nella forza militare
Ma pesa il rischio di guerra commerciale
di Angelo Aquaro


Da qui all’eternità: o quasi. Il funzionario grigio che aveva sposato la reginetta dell’Opera, il dirigente di partito che fino a pochi anni fa per tutti era solo “il marito di Peng Lyuan”, da oggi è l’uomo solo al comando più potente del mondo: a 64 anni il dominus indiscusso di un miliardo e 450 milioni di sudditi, il custode di un tesoro da 11mila miliardi di dollari. Chiamarla ancora Repubblica, e per giunta Popolare, sarà dura. Sotto la guida di Xi Jinping che è già capo dello Stato, capo dell’esercito, segretario ma soprattutto “cuore” del partito, oltre a una manciata di cariche che ne hanno fatto “il presidente di tutto”, la Cina torna ai fasti dell’Impero che fu. Nel segno, ci mancherebbe, di quel “Socialismo con le caratteristiche cinesi per una nuova era”, cioè lo Xi-pensiero, che adesso viene introdotto, dopo essere stato incasellato in quella di partito, anche nella Costituzione dello Stato modificata per strappare l’ultima foglia di fico: il divieto a ricoprire la presidenza e vice presidenza per più di due mandati, ed evidentemente a superare anche il limite dei 68 anni. Da qui all’eternità: Xi per sempre?
La novella che ha accolto i cinesi al ritorno dalle lunghe vacanze del Capodanno lunare conferma le aspettative già plasticamente riassunte dalla parata che lo scorso ottobre aveva mostrato al mondo, al termine del 19esimo Congresso, i nuovi Magnifici Sette del Comitato permanente: scartando dalla tradizione, tra i Sei dietro Xi non c’era nessun erede designato. Insomma Xi era già il cinese più potente dai tempi di Mao: e sicuramente con un’agenda ancora più ambiziosa.
La sua Cina sempre più moderna, che dal salotto capitalista di Davos si presenta come il campione della globalizzazione contro il protezionismo di Donald Trump, che entro il 2030 sorpasserà gli Stati Uniti nell’Intelligenza artificiale e ancora prima, 2028, raggiungerà la parità dell’innovazione tecnologica, è la stessa Cina che con una spesa militare in aumento del 6-7% annuo, cioè in linea con la crescita del Pil, eguaglierà prestissimo la potenza di fuoco degli yankees. E c’era ancora qualcuno disposto a pensare che Xi Dada, zio Xi, potesse lasciare il lavoro a metà?
Era del resto evidente che in quel continuo ondeggiare tra “fang”, distensione, e “shou”, “stretta”, che contrassegna la storia della Cina comunista, Xi avesse scelto la via appunto che più “stretta” non si può. Perché nei vestiti dell’Imperatore s’è calato dopo aver fatto fuori i nemici con la scusa della più grande campagna anticorruzione, 5 anni di indagini, più di 1 milione e 340mila funzionari sotto accusa, dalle “mosche” dei villaggi alle “tigri” delle metropoli. Così s’è liberato prima di Bo Xilai e poi di Sun Zhengcai, i due boss di Chongqing.
Così ha fatto piazza pulita nell’Esercito popolare di Liberazione, il vero centro del potere: ultima vittima Zhang Yang, il generalissimo morto suicida dopo essere finito nello stuolo di stellette indagate. Non è un caso se anche la lotta alla corruzione entra adesso nella Costituzione, la Commissione di Supervisione Nazionale diventerà un’agenzia dello Stato, l’ennesimo braccio armato del presidente: e già si parla del ripescaggio, per la vicepresidenza della Repubblica, di Wang Qishan, l’ex zar anti-mazzette suo fedelissimo, che al Congresso era stato costretto a lasciare proprio per l’età. E vogliamo parlare del bavaglio su Internet che ha fatto (brevemente) arrabbiare perfino quel Jack Ma di Alibaba suo amico e ambasciatore? Della mortificazione di ogni dissenso e della vergognosa morte in carcere del premio Nobel Liu Xiaobo? O del rigurgito nazionalista che sbatte in galera chi non mette la mano al petto durante “La marcia dei volontari”?
Il Global Times, che è il megafono in inglese del Quotidiano del Popolo, si premura di specificare, excusatio non petita, che la rimozione dei limiti “non significa che la presidenza cinese avrà durata a vita”. Certo non significa neppure che non potrà non averla. Robert Lawrence Kuhn, il filosofo e politologo americano più ascoltato a Zhongnanhai, l’ex giardino della Città Proibita oggi bunker del partito, dice a Repubblica che «più che altro è un passo simbolico, anche se finale, nella ratifica del potere onnicomprensivo di Xi. La designazione come ‘cuore’ del partito e il suo pensiero nella Costituzione sono molto più importanti: vuol dire che un giorno potrà anche trasferire la presidenza e il partito ad altri, continuerà a mantenere il suo super potere per sempre».
Xi come Putin, più di Putin. Come Erdogan, più di Erdogan.
E il mondo che fa? Non può essere una coincidenza che proprio domani atterri in tutta fretta, a Washington, l’attivissimo Liu He.
L’economista svezzato ad Harvard è il capo in pectore della Banca centrale, nonché confidente di Xi, e la missione alla corte di Trump per scongiurare la guerra commerciale annunciata dagli Usa, una delle tante mine sulla strada dell’Ultimo Imperatore, sarà l’occasione per rassicurare gli amici-nemici sul nuovo corso. Da qui all’eternità?

Corriere 26.2.18
Bonino guida del Senato Il nuovo piano di Forza Italia
di Maria Teresa Meli


L’interesse con cui Silvio Berlusconi guarda a Emma Bonino e alla sua lista non si affievolisce, tanto più dopo che il leader di FI ha buttato un occhio agli ultimi sondaggi che riguardano +Europa. E perciò dalle parti di Forza Italia sta prendendo piede la tentazione di provare a giocarsi la carta della leader radicale. Ovviamente nel caso in cui dopo le elezioni nessuno schieramento dovesse avere la maggioranza in entrambi i rami del Parlamento. Come è noto, il primo delicato nodo della legislatura non sarà la formazione del governo, ma l’elezione dei presidenti delle due Camere. E per riuscire in questo intento, in mancanza di una maggioranza parlamentare, bisognerebbe per forza trovare un accordo trasversale tra i diversi schieramenti. E allora l’idea sarebbe quella di proporre al centrosinistra di eleggere Bonino sullo scranno più alto di Palazzo Madama. Una mossa del genere creerebbe sicuramente un certo imbarazzo al Pd, che per ovvie ragioni preferirebbe avere un proprio esponente su quella poltrona. Ma il partito di Matteo Renzi potrebbe difficilmente opporsi pubblicamente all’elezione alla presidenza del Senato di un’esponente più che autorevole della sua coalizione. Berlusconi, dunque, continua a mantenere la speranza che i parlamentari di +Europa possano facilitare la creazione di un governo delle larghe intese nel caso in cui il centrodestra dovesse fallire l’obiettivo di ottenere sia alla Camera sia al Senato la maggioranza dei seggi. Finora però non risulta nessun abboccamento tra FI e la lista capeggiata da Bonino. Anzi, gli esponenti più vicini alla leader radicale accolgono queste indiscrezioni con un niente affatto celato fastidio. Per Benedetto Della Vedova ormai «il centrodestra se la canta e se la suona». Di più: dentro +Europa cresce il sospetto che tutte queste indiscrezioni possano essere «amplificate ad arte» per frenare la rincorsa di Bonino.

Corriere 26.2.18
La ricorrenza
Sessantotto, il mito fatuo della storia immaginaria
di Davide Giacalone


Caro direttore, il mito del ’68 è fatuo, il reducismo spesso bugiardo, ma il residuato fossile è fra noi. Potente e impermeabile agli eventuali fasti del cinquantenario. Il ’68 italiano, del resto, è stato il più duraturo e mentre altrove la pagina si chiuse in un paio d’anni, qui s’è trascinata per lustri. Ancora dura, per certi aspetti.
I leader di allora, i capi del movimento, sono rimasti, a vario titolo, protagonisti della scena pubblica. I più acerrimi nemici del «sistema» si sono dimostrati i più adattabili nell’abitarlo. Avevano capacità e le misero a frutto, applicando a sé stessi l’avanzamento meritocratico. Per gli altri reclamarono la fine del merito e l’omologazione al ribasso. Esami di gruppo e voti politici hanno conseguito lo scopo di studi universitari non selettivi, in compenso li hanno svuotati. Cinquanta anni dopo abbiamo il più basso tasso europeo di laureati, un eccesso di lauree inutili, idolatria del valore legale del titolo di studio e blocco dell’ascensore sociale. A tutto danno di chi sta indietro e a tutto vantaggio di chi nasce avanti.
La stagione più tipicamente italiana fu la successiva, quella del ’77. Eco ancora potente del mitico maggio, ma già indirizzata verso l’annientamento: l’autodistruzione della droga e la distruzione del terrorismo. Si dimentica in fretta, ma il bollettino dei morti era quotidiano, anche senza il contributo di spacciatori nigeriani e bombaroli islamici. Fra indiani metropolitani e P38 si poté misurare lo spessore della disperazione e la follia ideologica. Già, ma come si può dimenticare quell’anelito di liberazione e cambiamento? Fosse stato urlo di libertà quel che dovrebbe ancora bruciare sulla pelle della memoria sarebbe il fuoco che consumò Jan Palach, a Praga. Estremo atto contro la inevitabilmente vincente invasione sovietica, che stroncò la primavera praghese con una repressione tanto concreta quanto immaginaria quella millantata dalle nostre parti. Ma non è così. Non è quella la memoria che si ricorda. Piuttosto la Rivoluzione culturale cinese e il libretto rosso, sventolato senza leggerlo. Altra pagina di macelleria, pagata dai liberi e dai giusti, come anche dai normali, mentre i carnefici venivano osannati da presunti militi della libertà e della giustizia.
Quel ’68 appartiene a un mondo che non c’è più, perché senza la guerra fredda non se ne spiegherebbe nulla. La sua storia è tramandata (a dispetto del luogo comune) non dai vincitori, ma dagli sconfitti della storia. Riusciti, però, a essere vittoriosi nella cronaca della propria ascesa. Il linguaggio di allora fu quello di chi detestò l’occidente democratico e le sue fallaci, imperfette e preziose libertà. Linguaggio tramandato fino all’odierna figliolanza, che persi i miti conserva i riti dei chierici aizzatori, del supporre l’esistenza di dominî finanziari occulti, del detestare le istituzioni internazionali della pace e della cooperazione, in nome d’identità popolari immaginarie. Certo linguaggio della presunta sinistra d’allora si ritrova, impoverito, ove possibile, in bocca a certa destra di oggi. Sempre che abbia un senso parlarne in questi termini.
Si volle l’immaginazione al potere e s’ottennero potenti immaginari. Si diede l’assalto al cielo e si espirò aria fritta. S’era realisti volendo l’impossibile, ma mettendolo in conto ai posteri, sotto forma di debito. Si disse che era proibito proibire, sapendo che consentendo lo sgomitare è il debole a capitolare. Di quell’impasto resta molto d’appiccicaticcio, fra le mani dei contemporanei. Ma è anche vero che cinquanta anni fa c’era pure chi lavorava e studiava, come ancora oggi c’è. Naturalmente. Non si celebra e non ha ricorrenze, ma il buon senso esiste .

Repubblica 26.2.18
Verso le elezioni del 4 marzo
La decisione degli indecisi
di Ilvo Diamanti


Ormai tutti sanno chi vincerà. Almeno, pensano di saperlo. A una settimana dal voto, tutti i sondaggi, condotti dai principali istituti demoscopici, sono d’accordo sul vincitore. Ma, prima ancora: sul perdente. Il Pd, naturalmente. Il vero dubbio, semmai, è se il centrodestra riuscirà, in seguito, a governare. Senza imboccare un percorso instabile. Come negli ultimi anni. Tuttavia, conviene usare prudenza prima di dare per scontato “il voto che verrà”. Perché i sondaggi non servono “a pre-vedere”. Ma a “vedere” gli orientamenti in atto. È sufficiente, al proposito, rammentare quant’è avvenuto cinque anni addietro. Alle elezioni politiche del 2013. Allora, il Pd, guidato da Pier Luigi Bersani, nelle settimane precedenti il voto, era ritenuto il vincitore certo. I principali istituti demoscopici gli attribuivano intorno al ( e, semmai, oltre il) 30%. Da solo. Dalle urne, però, sarebbe uscito un esito di sostanziale parità fra le due principali coalizioni. Il centrodestra e il centrosinistra intorno al 29%. Mentre, il Movimento 5 Stelle conquistò il 25% dei voti validi. Come il Pd e più del PdL (poco sotto il 22%). Ciò avvenne nella sorpresa generale. Degli elettori, ma, soprattutto, degli osservatori e degli analisti (me compreso). Infine: degli stessi protagonisti. Per primi: i leader e i militanti del M5S. Convinti di poter conquistare un “ buon” risultato. Ma non “quel” risultato. Una situazione analoga si verificò anche alle successive elezioni europee del 2014. A parti rovesciate. Allora, il Pd, condotto da Matteo Renzi, prevalse largamente su tutti. Nella sorpresa generale.
Un precedente significativo è, tuttavia, offerto dalle elezioni politiche del 2006. Quando l’Unione di Centrosinistra, guidata da Romano Prodi, due mesi prima del voto era “stimata” in vantaggio di (almeno) 6 punti. Salvo venire “rimontata” dalla CdL di Berlusconi. Prodi, infatti, riuscì a imporsi solo di poco. E ottenne una maggioranza fragile. Che costrinse il suo governo a una vita breve e travagliata.
In tutti questi casi, le “ attese” distorte, ma anche le scelte “ in- attese” degli elettori, si formarono con il concorso dei sondaggi. Che, anche nel periodo di silenzio imposto per legge, hanno continuato a circolare in rete, in modo “ mascherato”. Da “ Corse di cavalli”, “ Conclave”. E altre amenità. Non sempre divertenti. Comunque, in-verificabili. Quindi, rischiose.
D’altronde, l’epoca in cui si votava “per atto di fede” è finita da tempo. Insieme ai partiti di massa e alle ideologie che li ispiravano. Oggi gran parte degli elettori decide su basi tattiche, razionali. Spesso, a pochi giorni dal voto. Così, i sondaggi servono a indicare i probabili vincitori. E i probabili perdenti. Gli elettori li usano per scegliere. Chi sostenere, ma anche chi punire. Oppure per limitare il successo di un vincitore annunciato. Come il Pd di Bersani nel 2013. “Abbandonato”, alla vigilia del voto, da una significativa quota di elettori (6-7%), a favore di un outsider: il M5S. Perché tanto la vittoria del Pd era ritenuta sicura. Meglio, dunque, limitarne l’ampiezza. A sinistra, i leader troppo forti non piacciono. Gli stessi elettori, peraltro, tornarono a votare Pd alle europee del 2014. Per evitare che Grillo “si montasse la testa”.
Perché gli italiani hanno sempre preferito votare “contro” piuttosto che “per”. Nella Prima Repubblica, in nome dell’anti- comunismo. Poi dell’anti- berlusconismo. Infine, in tempi recenti, in nome dell’anti-politica. Che tuttavia, oggi, suscita, anch’essa, sentimenti di anti- antipolitica.
Così, fra gli elettori italiani cresce l’incertezza. O meglio: l’in- decisione. Quasi metà di loro, infatti, un mese prima delle elezioni si diceva “indeciso” (Atlante Politico di Demos per Repubblica). E oggi penso che circa un terzo non abbia ancora “deciso”. Ma stia pensando “contro” chi votare, stavolta. Un orientamento che, fino ad oggi, aveva favorito i 5S. Mentre in questa occasione pare beneficiarne Berlusconi. A favore del quale si esprimono anche alcuni di coloro che lo hanno contrastato da sempre. D’altronde, pensano, il centrosinistra non ha possibilità di vittoria. Allora, meglio il Cavaliere, che, almeno, ha esperienza di governo, piuttosto che Di Maio e gli specialisti dell’antipolitica.
Per queste ragioni, a una settimana dal voto, è difficile pre-vedere. Non solo perché i sondaggi si dimostrano inadeguati a fare previsioni. Elettorali. Ma perché gli elettori li usano per risolvere le proprie incertezze. Sulla base di premesse incerte. Con esiti — ancor più — incerti. Tuttavia, più che di in-certezza dovremmo parlare di in-decisione. Di decisioni ancora non decise… Gli in-decisi, infatti, sono presenti in tutta la popolazione. Soprattutto fra i più anziani e nelle classi popolari. Ma sono diffusi anche fra i giovani e fra le persone più istruite. Professionisti, funzionari e impiegati pubblici. In passato hanno votato il centrosinistra. Se non hanno ancora deciso non è per disinteresse o per dis- informazione. Ma per la ragione opposta. Perché ancora non hanno chiaro ciò che sia meglio. Per il Paese, per se stessi. Cosa convenga fare. Se punire il leader “ antipatico” del PdR, sostenere il premier. Im- populista, ma popolare. Oppure voltare pagina. Per modo di dire. Cioé: tornare indietro. Al passato che non passa. Sostenendo il Cavaliere, ancora in sella.
Di certo, rispetto alle occasioni precedenti, questa volta c’è una differenza. Significativa. Per il centrosinistra. In passato rimontato, quand’era pronosticato vittorioso. Mentre questa volta i sondaggi e le previsioni non lo favoriscono. Al contrario. Ma proprio ciò lo potrebbe, paradossalmente, favorire. Infatti, non è escluso che, una volta di più, gli “ in- decisi decidano”, tatticamente, di contraddire le previsioni. Sfavorendo i favoriti. Questa volta: il M5S. Ma soprattutto il centrodestra di Berlusconi, Salvini e Meloni.
Naturalmente, non dimentico che in altre elezioni, le ultime nel 2008, quando il centrodestra, favorito, vinse largamente. Ma, allora, l’onda berlusconiana ri- montava. Non c’erano incertezze. E gli in-decisi avevano deciso da tempo. Oggi viviamo nel tempo dell’in- decisione. E, dunque, nulla è deciso…

Repubblica 26.2.18
Nazionalismo e cattolicesimo
Quei simboli e la radicalità di Salvini
di Chiara Saraceno


Era più grottesco e anticristiano Bossi che si inventava riti fondativi al dio Po o lo è più Salvini che giura abbinando Costituzione e Vangelo, con annesso sventolamento di un rosario, mentre conclude una campagna elettorale imperniata su messaggi di esclusione, quando non di odio, contro gli “altri”, gli “stranieri”? Se Bossi è stato maestro dello sberleffo contro ogni simbolo sacro (inclusa la bandiera, che voleva «buttare nel cesso») in nome di una più o meno velleitaria identità locale, Salvini da anni sta progressivamente appropriandosi di quei simboli per proporsi come difensore “dell’identità nazionale”. Lo sventolio di Vangelo e rosario, ma anche della Costituzione, proprio mentre proclamava che dell’antifascismo non poteva interessargli di meno, costituisce l’ultimo passo.
Rappresenta anche un salto di qualità.
Da un lato, c’è un abuso di simboli religiosi e di esibizione pubblica della propria religiosità, mai osato da un leader politico, mi sembra, neppure dalla Democrazia Cristiana negli anni della guerra fredda e delle campagne contro i comunisti che mangiavano i bambini. Se ne sono giustamente risentiti alcuni uomini di chiesa e intellettuali cattolici.
Ma che ne pensano i cattolici che votano Lega o i partiti che con la Lega sono alleati? Dall’altro lato, cattolicesimo e nazionalismo vengono esplicitamente fusi insieme per chiamare a un conflitto radicale tra “noi” e “loro”. Dove “loro” non sono solo gli stranieri, ma tutti coloro che non si riconoscono in un cattolicesimo usato come arma impropria per opporsi a ogni minoranza. Un atteggiamento non molto diverso da quello dei fondamentalisti islamici, di cui pure Salvini si dichiara strenuo nemico, ma da cui, a questo punto, lo separa solo il fatto che siamo ancora uno Stato democratico, retto da leggi democratiche e dove anche la Chiesa cattolica ha, pur faticosamente, non sempre e non del tutto, imparato a distinguere ciò che è di Cesare e ciò che è di Dio.
L’immagine di Salvini che sventola Vangelo e rosario dal pulpito insieme alla Costituzione in un tripudio di bandiere, ove quelle che sventolavano un tempo a Pontida oggi stanno felicemente a fianco di quelle di Forza nuova e dintorni, non è solo grottesca. È preoccupante per la testimonianza che dà della perdita di senso di simboli, parole, tradizioni, divenuti intercambiabili quando si tratta di identificare un nemico potendo contare su solide basi di ignoranza collettiva. Mentre ci affanniamo a discutere di fascismo e antifascismo rischiamo di non cogliere la metamorfosi culturale e valoriale di cui Salvini e il suo successo sono l’esempio più chiaro, ma vale anche per gli auto-proclamati antifascisti che utilizzano la violenza come forma di comunicazione e lotta politica, condividendo di fatto la stessa (in)cultura violenta del fascismo, o per Di Maio che può annunciare che istituirà un ministero per la meritocrazia, non essendo neppure stato capace di individuare candidati meritevoli in base agli standard del suo Movimento.
Ogni simbolo, ogni repertorio culturale e politico può essere utilizzato e interpretato a proprio piacimento. Ogni accostamento, per quanto teoricamente e storicamente contraddittorio e persino impensabile, può diventare verosimile: basta avere la spregiudicatezza di imporlo comunicativamente, facendo ammutolire i potenziali critici per superficialità, assuefazione o malinteso senso di superiorità.

Repubblica 26.2.18
Intervista a Fabrizio Barca
“Oggi tanta sinistra teme la parola uguaglianza. Non so ancora come voterò”
di Lavinia Rivara


ROMA Molti lo avrebbero voluto alla guida del Pd, ma lui si impegnò invece in un progetto di riforma del partito, che abbandonò nel 2016 dopo aver constatato, con giudizi durissimi, che nessuno al Nazareno ci aveva creduto veramente. Poi di Fabrizio Barca, economista, ex ministro della Coesione sociale per il governo Monti, si sono perse un po’ le tracce. Fino a qualche giorno fa quando, insieme a sette organizzazioni (dalla Caritas a Legambiente) e un gruppo di accademici, ha lanciato il “Forum Disuguaglianze Diversità”, un progetto per ridurre gli squilibri sociali ispirato al pensiero dell’economista Tony Atkinson e all’articolo 3 della Costituzione.
Un lavoro necessario «perché ormai – sostiene Barca - una parte rilevante della sinistra si vergogna della parola uguaglianza».
Perché ha scelto una militanza fuori dai partiti?
«Perché non sono più gli intermediari tra il Paese e le istituzioni. Invece la cittadinanza attiva, oltre due milioni di volontari, 500 mila dipendenti, ha una straordinaria vitalità.
Partiamo da pratiche di contrasto alla disuguaglianza per tradurle in proposte di sistema».
Lavoro e disuguaglianze sono in cima alle preoccupazioni degli italiani. È un allarme fondato?
«Lo è. La situazione ha cominciato a peggiorare dagli inizi degli anni ’80, la forbice della ricchezza, come dimostrano gli indici macroeconomici, si è allargata sempre di più, e la crisi ha accelerato il processo già in atto.
Così ora abbiamo disuguaglianze di reddito, ma anche di accesso ai servizi: perfino l’aspettativa di vita dipende dal quartiere in cui vivi. E c’è la disuguaglianza di chi ha la sensazione di essere fuori dalla storia, di chi vive nelle aree rurali, nelle periferie».
Eppure uguaglianza e lavoro restano ai margini di questa campagna elettorale. Lei, da uomo di sinistra, come se lo spiega?
«La ragione è culturale, è il cambiamento del senso comune.
La parola uguaglianza è diventata sinonimo di appiattimento del merito, che ormai viene identificato con la ricchezza, il successo. Invece è proprio per liberare il merito delle persone che devo partire da una condizione di uguaglianza. Ma una parte rilevante della sinistra oggi non ha il coraggio, quasi si vergogna, di usare la parola uguaglianza.
Mentre lo fa la borghesia più avanzata: Economist e Financial Times ormai parlano spesso della necessità di ridurre le disuguaglianze territoriali per evitare che si scatenino voglie di autoritarismo, che altri Trump e altre Brexit ci travolgano. Perché disuguaglianze profonde producono paura e rabbia, e voglia di poteri forti».
Come nasce il forum, quali sono i suoi obiettivi?
«La scintilla iniziale è un’idea della fondazione Basso. Al centro della nostra visione comune c’è la disuguaglianza di ricchezza, contro la quale la redistribuzione non basta, non servono misure tampone, i bonus. È necessario pre-distribuire, cioè intervenire dove la ricchezza si forma, nel mercato, nel progresso tecnologico, orientandoli con politiche pubbliche. E ridare potere negoziale al lavoro».
È quello che voi chiamate programma Atkinson. Faccia degli esempi.
«Chi finanzia la ricerca tecnologica? L’amministrazione pubblica. Quindi può chiedere che si tenga conto dell’impatto sociale dell’innovazione. Allo stesso modo lo Stato può stimolare le banche affinché non prestino solo a chi ha già soldi. E può aumentare la tutela dei piccoli risparmiatori, oggi privi di ogni potere».
Ha condiviso la scissione della minoranza Pd?
«Non ho visto differenze politiche tra chi è rimasto e chi è uscito, nessuna interpretazione diversa della società e delle politiche da praticare».
Ma ha ancora la tessera del Pd? E lo voterà?
«Sì, sono ancora iscritto. Ma ancora non so come voterò. E comunque non lo dirò».
La scissione nel Pd?
Non ho visto interpretazioni diverse della società e delle politiche da fare tra chi è rimasto e chi no
Fabrizio Barca
Economista, ex ministro della Coesione sociale nel governo Monti, ha lanciato negli scorsi giorni il “Forum Disuguaglianze Diversità” per ridurre gli squilibri sociali

Repubblica 26.2.18
Nel Pisano
La laurea non c’è e la sindaca Pd ammette la bugia
di Laura Montanari


Si è portata addosso quella bugia per ventinove anni, Giamila Carli, sindaca Pd di Santa Luce, comune agricolo di 1700 abitanti, in provincia di Pisa. Se l’è portata come una seconda pelle, fino a qualche giorno fa, quando l’ha chiamata un giornalista del Tirreno e lei è stata costretta a far cadere la maschera confessando che in effetti, la laurea in Giurisprudenza non l’ha mai avuta. Eppure quel titolo di studio è comparso a lungo sul suo curriculum, senza indicazione dell’ateneo e nemmeno dell’anno di laurea.
Una vaghezza sospetta che è diventata piano una prova. E Giamila Carli che fa parte della segreteria provinciale del Pd, che è stata ex vicesindaca di Cecina e da due anni governa Santa Luce (ha avuto oltre il 64% dei voti), ha dovuto scrivere in fretta una lettera pubblicata ieri sul quotidiano per spiegare che «c’è una storia nella storia».
C’è «uno sbaglio certo e chiedo scusa a tutti» e c’è il pentimento: «Mi dispiace». Ma poi resta altro da spiegare: «Quella bugia nasce dal fatto che non volevo deludere i miei genitori, mio padre era operaio, mia madre casalinga — racconta al telefono — ci tenevano moltissimo alla mia laurea e io non ho avuto il coraggio di dire loro la verità». Cioè che si era fermata a quota 17 esami. «Sono rimasta prigioniera di una bugia» spiega tornando col pensiero al 1989, anno della fanta-laurea. Scrive che attraversava «un momento buio che ha segnato cuore e anima, la depressione legata a un distacco e la paura di affrontare la famiglia».
Mentre il percorso universitario si fermava, Giamila proseguiva con successo l’attività politica che, sostiene, l’ha salvata dal “male di vivere”: «All’impegno politico ho dedicato la mia vita». Assicura la sindaca di «non aver mai utilizzato il titolo a fini personali» e di non averne fatto sfoggio: «Ho commesso un errore, grave che affronterò responsabilmente». Si scusa col Pd «per aver contravvenuto alla dovuta trasparenza» e con la gente per ha violato il decreto sulla trasparenza che prevede che un amministratore pubblico debba, fra l’altro, rendere noto il curriculum, quello vero.
Ora Giamila ha rimesso il mandato al partito per l’incarico alla segreteria provinciale, ma non si dimetterà da sindaca: «Ho cose importanti da portare avanti, sto risanando il bilancio di un Comune che ho ereditato in pre-dissesto». La lettera si conclude citando una frase di Cesare Pavese e un sempreverde «e ora ha da passà ‘a nuttata».

Il Fatto 26.2.18
Le cattedre “reazionarie” abbandonano la sinistra
Ex roccaforte - Il Pd, con l’ultima legislatura, ha perso l’egemonia sul voto di 700 mila docenti
di Virginia Dalla Sala


Beata continuità. Lo si raccontava già nel 2015: il Partito Democratico ha perso con l’ultima legislatura il voto dei docenti, almeno 700 mila in Italia. E se da un lato è semplice decretare la fuga dal Pd, non lo è altrettanto capire dove si riverserà il loro voto. O meglio, idee e orientamenti sono multiformi, i programmi dei partiti sulla scuola generici e privi di una visione strutturale. Oltre i democratici, non c’è una destinazione univoca del voto. “Frammentario” è la parola più usata da sindacalisti e rappresentanti degli insegnanti. La scelta sarà semplicemente “reazionaria”. La scuola, infatti, ha perso la sua rappresentatività moderata e progressista mentre ha iniziato a covare la rabbia dovuta al tradimento della legge 107.
L’origine dello scontento è la riforma della Buona Scuola: respinta e osteggiata già quando era un embrione (è stata votata nel 2015), nel tempo ha solo confermato tutte le sue criticità. Dalle chiamate dirette all’alternanza scuola-lavoro, passando per il caos della mobilità dei docenti. Ha dato materiale a chi ne era direttamente colpito, ha creato nuova insoddisfazione, ha fornito strumenti a chi ha potuto usarla contro il governo durante la grande stagione dei ricorsi: “Il governo ha portato avanti la riforma in modo autoritario, fuggendo da qualsiasi confronto costruttivo”, spiega chi è vicino al mondo ministeriale e associazionistico. Peggio di non sentirsi rappresentati c’è la sensazione di non essere neanche ascoltati.
Inutili anche le oltre 50 mila assunzioni arrivate dopo il concorsone del 2016: “Tra i precari – spiega Sara Piersantelli, fondatrice del Coordinamento Nazionale Tfa – c’è solo una piccola parte che riconosce un merito al governo Renzi e ritiene che per lo meno abbia ricevuto un posto a tempo indeterminato e la fase transitoria per accedere al mondo della scuola. Per la maggior parte, invece, il concorso e l’assunzione sono stati percepiti come un atto dovuto arrivato, oltretutto, troppo tardi”. E quando oramai era inevitabile: il rischio era che gli alunni trovassero le cattedre vuote e fossero costretti a subire la discontinuità didattica. “Ovviamente i problemi dei docenti e della scuola sono sempre esistiti – spiega la Piersantelli – ma negli ultimi quattro anni sono stati affrontati tanti cambiamenti in una sola volta e tutti troppo velocemente. Si faceva il buco e si metteva la toppa, a volte anche con incompetenza provocando un altro buco. È ovvio che così si perde fiducia”.
Stesso ragionamento per l’aumento salariale introdotto con l’ultima firma del contratto nazionale. Bloccato da decenni, per tutti è stato percepito come un atto dovuto, per molti come un fallimento per la sua entità considerata insufficiente. Nessuno spazio, per la gratitudine.
Dove andranno a finire allora questi voti? Guardare ai programmi è inutile. Storicamente, il corpaccione del mondo della scuola è legato alla sinistra non radicale, formato da moderati e progressisti (con sacche vicine al mondo cattolico, come ad esempio nella scuola primaria. Orientamento che si confermerà in parte per il mancato ricambio generazionale).
Il voto dei docenti, da sempre, è stato legato più al senso di appartenenza che ai programmi e alle promesse sull’istruzione. L’insegnamento è infatti visto prima di tutto come una vocazione (per lo meno da chi, la maggioranza, non lo ha vissuto come un rifugio statale e garantito): senza prospettive di carriera e di guadagno, non ci sono interessi quantificabili su cui far leva. La legge 107, la Buona Scuola appunto, è però riuscita a capovolgere questa dinamica ed è stata vissuta come un tradimento di valori.
Il primo contraccolpo elettorale è arrivato con il referendum costituzionale, quando i docenti hanno deciso di votare No. Ora ci sarà la conferma del 4 marzo. Secondo gli ultimi sondaggi (Ipsos per il Corriere della Sera), insieme agli impiegati il voto dei docenti dovrebbe riversarsi sul M5S, così come quello degli studenti. Solo al secondo posto c’è la scelta del Pd e al terzo c’è la Lega. Frammentazione, appunto, con una interpretazione condivisa: quello della scuola è un voto di “reazione”, non di convinzione. “Chi non si sente più rappresentato dalla sinistra – spiega un sindacalista di vecchio corso – si sposta automaticamente a destra o sui Cinque Stelle perché lì trova il solo sfogo alla rabbia che ha accumulato”. Sostiene che proprio il fallimento della politica di questi anni abbia contribuito anche a ingrossare le file dei comparti sindacali che si occupano di scuola, tanto dei sindacati confederali che dei nuovi, concentrati quest’ultimi prevalentemente sui ricorsi, centinaia negli ultimi anni, attraverso i quali costringono i docenti (soprattutto precari) ad avere la loro tessera. Più volte, da ambienti ministeriali, è stato fatto notare che i ricorsi si moltiplicano quando “si fanno le cose”, come ad esempio concorsi per assumere migliaia di persone. I rischi (e calo del consenso) a quanto pare sono scomodi annessi.

Repubbblica 26.2.18
Il reportage
Il duello rosso
Il compagno Pier e la sfida a Errani che divide Bologna
La base Pd: è Casini che ha votato per noi Il candidato Leu: incarno la sinistra
di Michele Smargiassi


BOLOGNA C’è un infiltrato nel circolo Passepartout di via Galliera. Entra zitto zitto, la faccia affondata nel parka grigio, mormora: «Devo stare attento, qui è pieno di comunisti…». Ma la segretaria l’ha riconosciuto: «Buongiorno presidente!». Pierferdinando Casini si toglie il cappuccio.
Una ventina di militanti ridono, tutti, tranne il ritratto di Berlinguer sul muro. «Scherzo, non devo mica farmi la plastica facciale, qui sono a casa», assicura e stringe mani il candidato più improbabile del Pd. Il democristiano doc che ha trasformato la campagna elettorale di Bologna nel gioco dei quattro cantoni. Il campione naturale della capitale rossa, l’ex governatore Vasco Errani, si è spostato a sinistra, è andato con Leu, e Casini zac!, ha preso il suo posto sulla scheda. Oppure, a raccontarla dall’altro lato: il Pd azzarda la carta centrista Casini, e la sinistra-sinistra di Leu gliela taglia con la briscola Errani. Chi vincerà all’ultima mano? Quale fedeltà sceglieranno gli elettori più fedeli della città più fedele? La fedeltà al partito, alla persona, alla memoria, alla ragion politica?
Se la politica fosse un circo, Casini sarebbe il trapezista.
Anni 62 portati da attore televisivo, in politica da quando aveva i calzoni corti, in Parlamento da trentacinque anni, formidabile nell’intuire il momento giusto per mollare una presa e acchiappare l’altra, cominciò passando da Bisaglia a Forlani, mai un volteggio sbagliato, mai una caduta nella rete.
Errani invece sarebbe il domatore. Stessa età, 62, volto e icona del buongoverno, eroe del post-terremoto emiliano, tranquillo ed elegante in mezzo alle belve, mai un grido, mai un gesto eccessivo, in Regione ha governato per quindici anni con maggioranze amplissime e stabili mentre a Roma l’Ulivo andava in frantumi, mediatore abile, decisore di mano ferma, uscito indenne dalle fauci dell’inchiesta giudiziaria, finita in nulla, che lo spodestò prima del tempo.
Se la politica fosse lineare, Errani avrebbe già vinto. Gli basterebbe fare appello, come fa, alla bandiera. «Le radici non sono acqua», dice nelle interviste. «Io sono un riformista radicale. Casini è un moderato. Non si riscrive così la storia di una città». Ne ha fatto uno slogan indovinato: «Votate per le idee che avete».
Altrimenti, lo dice coi versi di Lucio Dalla (dopo tutto si vota nel giorno del suo compleanno): “Bologna con il suo rosso sui muri / che a poco a poco sparisce”.
Ma la politica a Bologna gira come una trottola. Te lo fa capire Lina, la segretaria del circolo Passepartout, lapidaria: «Renzi ha difeso Errani quando era in difficoltà, e lui se n’è andato. Casini in questi anni è stato leale col Pd. Allora io scelgo Casini». E “il presidente”, guascone suadente, conferma: «Dal 2008 ho fatto l’opposizione a Berlusconi, poi ho sostenuto il governo Monti, poi Letta, Renzi, Gentiloni… Cosa devo dimostrare ancora?
Ho votato tutto… Dov’è che sarei incompatibile?». La professoressa democratica in prima fila annuisce: «Non siamo noi che votiamo per lui, è lui che ha votato per noi».
Dieci minuti a piedi ed ecco Errani, nella sala affrescata del Baraccano dove i muri parlano da soli di politica, tanti convegni hanno ascoltato.
Eccolo questo piccolo tenace ravennate che parla di sanità e di welfare come ha sempre fatto, scegliendo le parole come se le pescasse con le pinzette dal vocabolario. Molti si chiedono, forse anche lui, che cosa ci faccia in Leu assieme ai Fratoianni e ai Casarini. Ma è chiaro, Errani si è spostato solo per rimanere dov’era, nella storica sinistra pragmatica governante emiliana, di cui il suo amico fraterno Bersani è il patriarca. «Io non sono un nostalgico degli scontri Pci-Dc», dice fumando sotto i portici, «ma la cultura politica che abbiamo praticato in questa terra, chi la rappresenta? Se tutti possono rappresentare tutto, la politica è morta».
C’è una foto che gira sui social, Casini che parla davanti a una iconostasi di ritratti rosso fuoco: Togliatti, Gramsci, Di Vittorio, Matteotti. L’ha scattata un militante, Stefano Fava, con divertito sbigottimento. È diventata virale, come si dice, pure Casini l’ha scaricata sul cellulare e ora la mostra sornione: «Ma quale imbarazzo… Nei circoli del Pd tutti vogliono farsi un selfie con me, se questo è l’imbarazzo…».
Tra quei ritratti Casini si muove a suo agio, rispettosamente indifferente come un turista davanti ai santi di una religione ormai tramontata. La sua strategia comunicativa: de-ideologizzare «un passato che è passato« in nome della «battaglia comune contro i barbari», soprattutto la Lega di Salvini, enfatizzando lealtà (“abbattere Renzi è abbattere il Pd”) e incollando il tutto con un noi inclusivo stracittadino, sciarpa rossoblu del Bologna e battute in dialetto.
Del resto il Pd bolognese sta tirando al massimo lo storytelling sdrammatizzante del “compagno Pier”, perfino Renzi ha dato una mano, «qui a Bologna siete riusciti a far diventare comunista perfino Casini…». Si rispolvera l’eterno flirt bolognese fra i rossi e i bianchi, tacendo che il Pci dialogava con cattolici come Dossetti, Andreatta e Prodi, mentre Casini era il rampollo di una Dc dorotea ostile anche sotto le Due Torri. Soprattutto, da quella narrazione evapora un ricordo doloroso come un ascesso: Casini fu il mandante del più potente ceffone che la sinistra italiana abbia mai incassato, la presa di Bologna da parte del centrodestra nel ’99, affidata al suo protegé, il macellaio Guazzaloca.
In fondo, anche oggi Casini divide compagni da compagni.
“Ma no, guardi”, ti contraddice davanti a un caffè, “non sono mica io a spaccare la sinistra, a Bologna. Quando si parla di Bersani nei circoli del Pd, mi creda, io sono il più tenero nei giudizi…”. In fondo ha ragione, il divorzio tra antichi compagni è stato consumato prima dell’adulterio. Qualcosa di più profondo sta avvenendo nella Bologna dei muri che stingono: anche qui, nella terra dei progetti, la politica si è ridotta all’opposizione amico-nemico.
Anche per i militanti non conta più chi sei e cosa vuoi fare.
Conta da che parte stai.
Domenica ci si conta.

Il Fatto 26.2.18
La “ribelle” fotogenica che divide i palestinesi
Ha schiaffeggiato un soldato israeliano, ma è un’eroina quasi solo in Occidente. Tra i giovani arabi, traditi anche dalla loro Autorità, prevale la disillusione
di Francesca Borri


Per gli attivisti internazionali, mobilitati in tutta Europa, è la nuova Mandela. La nuova Malala. Per gli israeliani, invece, che da un mese ormai non parlano d’altro, è un’attrice. La Knesset ha commissionato un’indagine per capire se davvero Ahed Tamimi, 17 anni, capelli biondi e occhi chiari, e nessun hijab, sia palestinese. O non sia forse pagata, insieme a tutta la sua famiglia, per animare le manifestazioni del venerdì di Nabi Saleh, un agglomerato di case vicino Ramallah che dal 2010 si oppone all’espansione dell’insediamento di Halamish; dei suoi 600 abitanti, 350 sono stati feriti. E 50, ora, inclusa la madre di Ahed, hanno disabilità permanenti.
Il 18 dicembre Mohammed Tamimi, 14 anni, finisce in coma per un proiettile alla testa. Si salverà, ma con mezzo cranio in meno. Un’ora dopo, sua cugina Ahed nota un soldato all’ingresso di casa. Gli dice di andare via, comincia a strattonarlo: e gli tira uno schiaffo. Il video diventa virale. E il 19 dicembre, in piena notte, l’esercito torna ad arrestarla.
Da allora, Ahed è in carcere per assalto alle forze di sicurezza. Solo un paio di settimane prima, Trump aveva deciso di trasferire a Gerusalemme l’ambasciata Usa in Israele. E si erano avuti scontri e morti un po’ ovunque. Ma alla fine, l’Intifada che tanti si attendevano non è mai iniziata. Ma se per gli attivisti internazionali è un’eroina e per gli israeliani “una che andrebbe punita al buio, senza testimoni né telecamere”, come ha scritto il noto editorialista Ben Caspit, chi è Ahed Tamimi per i palestinesi?
Ehab Ewedat, 23 anni, Hebron
“Ma che senso ha uno schiaffo? Cosa cambia? I miei, se mi avessero visto discutere con un soldato, si sarebbero precipitati a tirarmi via: non sarebbero certo stati lì a filmare come la madre di Ahed. Genitori così istigano i figli. E consapevolmente o meno, finiscono per usarli e strumentalizzarli, privandoli del diritto di essere bambini. Esattamente quello che fa Israele. Vivo a Hebron, che non è molto diversa da Nabi Saleh, perché è l’unica città in cui i coloni non vivono in insediamenti, ma in mezzo a noi, casa per casa: e quindi gli scontri sono quotidiani. Gli attivisti sono molti, fondamentali, certo. Ma diciamo la verità: sono anche uno contro l’altro, tutti in competizione tra caccia a fama e finanziamenti. Da quando sono arrivati gli internazionali, è diventato tutto una specie di sceneggiata. Di attrazione turistica. Sembra che la resistenza consista nello sfidare i soldati ai checkpoint. Nell’intossicarsi un po’ di gas. Ma è tutto molto più complesso. Perché non siamo contrapposti: siamo interconnessi economicamente e amministrativamente. E il mondo invece pretende di congelarci nell’immagine del ragazzo con la kefiah e la fionda, e da noi si aspetta solo il sacrificio in nome della terra, speculare a quello dei coloni, che per stare inchiodati alla terra, abitano in luoghi assurdi, colline di sassi in cui a stento sopravvivono le capre. Resistere è restare qui, ma vivendo una vita vera. E invece adesso Ahed sarà rilasciata, e inizierà a girare per conferenze in tutto il mondo”.

Mariam Barghouti, 24 anni, Ramallah
“Una nuova Intifada? L’unica vera battaglia dei palestinesi, in questi mesi, è stata per il 3G. Gli scontri sono quotidiani, sì. Ma ormai tirare pietre non è che uno sfogo. Non abbiamo più nè leadership nè strategia. Fatah e Hamas sono reti clientelari al servizio degli israeliani. Oslo ha cambiato tutto. L’idea era rinviare la discussione sulle questioni più difficili, come gli insediamenti, o i rifugiati, e iniziare intanto a costruire questo famoso stato palestinese: nella convinzione che lo sviluppo economico avrebbe allentato le tensioni, e semplificato i negoziati. Ma non c’è sviluppo possibile se non controlli le frontiere, le importazioni e le esportazioni. Né le infrastrutture, se non controlli risorse come l’acqua e persino le tasse vengono riscosse da Israele. La ricchezza che vedi è un’illusione. Qui tutto è fondato sui debiti, prestiti e mutui. Se lavori trenta ore al giorno, non hai tempo per un’Intifada, il settore privato è minimo, le sole opportunità di lavoro sono Israele o la pubblica amministrazione. E, in entrambi i casi, sei prima sottoposto a uno screening di sicurezza. Prima di assumerti, si assicurano che tu non sia politicamente impegnato. Però, onestamente, con tutte le nostre responsabilità, è anche vero che tra gli attori di questo conflitto, siamo quelli nella posizione più difficile. State sempre a chiederci perché non iniziamo una nuova intifada. E la mia risposta è: Oslo e tutto quello che ha generato. Ma voi eravate i garanti di Oslo. E allora? Voi che avete molta più forza, molto più potere, molte più opzioni di noi, perché non tirate uno schiaffo a Israele?”.

Khadija Khweis, 40 anni, Gerusalemme
“Io vivo a Gerusalemme, e il mio obiettivo è non essere arrestata. È quello che Israele cerca: un pretesto per cacciarmi da qui. Ora si parla tanto dello stato unico. Con tutti questi insediamenti, si dice, non c’è più spazio per due Stati, il processo di Oslo ormai è fallito. Ma Gerusalemme è il laboratorio di questo famoso stato unico da cui siete tanto affascinati, per gli israeliani è la città che più di ogni altra è indivisibile. E il risultato è che mi è vietato anche solo avvicinarmi alla moschea di al-Aqsa. Gerusalemme è come Hebron. La nostra vita è segnata da mille incidenti, mille logoranti soprusi quotidiani che non finiscono sulla stampa internazionale. E la polizia non interviene mai. In questo stato non siamo cittadini. Nel 1980 Israele si è annesso Gerusalemme, ma non ci ha esteso la cittadinanza. Non abbiamo diritto di voto. abbiamo solo un permesso di residenza permanente revocabile se non stai qui per più di 7 anni o se Gerusalemme non è più il centro della tua vita. Per esempio se lavori nella West Bank. Paghiamo tutti le stesse tasse, ma solo il 52% delle nostre case è allacciato all’acquedotto. Questo è lo stato unico. Neppure la resistenza è più una sola. Ahed ha scelto quello che era giusto per il contesto di Nabi Saleh. Ma qui saresti arrestato e basta. Arrestato e cacciato via. E comunque abbiamo bisogno di molto più che un’Intifada. Finora solo Hezbollah ha tenuto testa a Israele. Ma con una guerra, non con uno schiaffo”.

Yahia Rabee, 21 anni, Birzeit Student Council
“La storia di Ahed per un palestinese non è niente di speciale. Ahed è perfetta per voi, più che per noi: è bionda, senza hijab, con quell’aria così europea, così poco araba. Ma distrae da quella che è la priorità: l’Autorità palestinese. L’occupazione non è cambiata. Israele è sempre lo stesso, e anche noi siamo sempre gli stessi, nessuno si è arreso. Ma ora tra noi e Israele c’è una barriera in più, quella dell’Autorità palestinese, che spende un terzo del suo bilancio in sicurezza. Fa questo, di mestiere. Reprime. E abbiamo tutti paura. Ci arrestano e ci consegnano a Israele. In cambio, e ormai non è un segreto, di monopoli e rendite di posizione nei settori più vari dell’economia, dall’edilizia al commercio, dalle telecomunicazioni alle banche. I figli di Mahmoud Abbas, Yasser e Tareq, sono a capo di un impero che fattura milioni di dollari. E le loro aziende hanno infinite connessioni con l’Autorità palestinese. Ma se ti azzardi a scrivere di questo anche solo su Facebook finisci in carcere o ucciso. Questo è un regime autoritario. Il Consiglio legislativo non si riunisce dal 2007. Mahmoud Abbas governa per decreti: e il suo mandato è scaduto nel 2010. Non esistono più spazi di espressione e organizzazione. E così è difficile avviare una nuova Intifada. Sono tutti sfiduciati. Ti dicono: ‘Abbiamo tentato di tutto’. E non ha funzionato niente. E però non è vero: in cambio di Gilad Shalit, abbiamo ottenuto il rilascio di 1.027 prigionieri. Perché la violenza è un linguaggio che Israele comprende bene. Ed è quello con cui ci intenderemo”.

Sami Hureini, 21 anni, At-Twani
“In realtà, qui quello preso a schiaffi sono io. Da quando ero piccolo. Da quando andavo a scuola, e i soldati dovevano scortarci, e difenderci dai coloni. Dalle pietre e dagli sputi. Hanno fondato prima un insediamento, e poi anche un avamposto, lì dentro, dentro quel bosco, sono ovunque. E sono armati. Altro che schiaffo: se mi avvicino, mi sparano. Anche se onestamente, non è solo questo. Soprattutto per la mia generazione. Sono cose blasfeme, ma la verità è che vogliono andare tutti in Israele, funziona tutto molto meglio, è tutto molto più avanti. E l’unico lavoro possibile non è il commesso o il muratore. E onestamente, lo stato unico non sarà mai uno stato a maggioranza araba, come sperano in tanti. Perché se davvero un giorno gli equilibri demografici dovessero cambiare, a Israele sarebbe sufficiente chiedere all’Europa di lasciare entrare i palestinesi senza visto. E partirebbero tutti. Comunque, detto questo, non ho la minima intenzione di tirare uno schiaffo a un colono. Sono gli israeliani ad avere bisogno della violenza per restare qui, non io.
Anonimo, 31 anni, Nablus
Immagino ti abbiano già detto tutto… Che non abbiamo una leadership. E che comunque abbiamo tutti una sorella, un fratello in carcere, e quindi che novità è? E poi abbiamo il mutuo da pagare. Anzi, tre mutui. E ti hanno detto, no? Che se parli, qui, ti arrestano. E che tanto è inutile: tiri uno schiaffo a un soldato, e allora? Israele ha il nucleare. Non scriverai il mio nome, vero? Che non voglio guai. Ma al fondo, la verità è che Ahed ha coraggio, e noi no. E stiamo qui a trovare scuse.

Repubblica 26.2.18
La storia
A Gerusalemme
“Israele ci tassa? E noi chiudiamo il Santo Sepolcro”
Cattolici, greci ortodossi e armeni: no alle imposte sulle attività commerciali
di Omero Ciai


La Chiesa del Santo Sepolcro a Gerusalemme è chiusa da ieri per protesta. La sorprendente decisione di impedire ai turisti la visita a uno dei luoghi più importanti della cristianità è stata presa dalle tre autorità delle Chiese cristiane (greco-ortodossa, cattolica e armena) per protestare contro il governo israeliano e il Comune di Gerusalemme che studiano una legge per tassare tutte le “attività commerciali”, come hotel e negozi legati ai luoghi santi, di proprietà della Chiesa.
Parlando alla stampa il patriarca greco ortodosso, Teofilo III, il custode di Terra Santa, Francesco Patton, e il patriarca armeno, Nourhan Manougian, hanno spiegato di avere scelto la chiusura a tempo indeterminato per opporsi «a una campagna sistematica di Israele volta a danneggiare la comunità cristiana». «Noi, capi delle Chiese responsabili del Santo Sepolcro e dello status quo che governa i vari luoghi santi di Gerusalemme - ha spiegato Teofilo III - seguiamo con crescente preoccupazione questa campagna sistematica che mira a indebolire la presenza cristiana in Israele».
La Chiesa del Santo sepolcro, che sorge sul luogo dove si crede che venne sepolto Gesù, si trova a Gerusalemme est, nella parte araba occupata da Israele.
Di fronte a una protesta così estrema, come quella di chiudere uno dei luoghi sacri dove ogni anno si recano in pellegrinaggio centinaia di migliaia di persone, il sindaco di Gerusalemme, Nir Barkat, si è difeso attaccando. «La Chiesa del Santo Sepolcro - ha spiegato Barkat - e gli altri luoghi di culto e di preghiera resteranno esenti da tasse municipali. Ma è ingiusto e irragionevole che aree commerciali, come alberghi, sale di ricevimento, residenze, negozi o ristoranti, siano esenti dalle tasse solo per essere di proprietà della Chiesa».
Secondo Barkat, la città perde ogni anno milioni di euro di risorse che potrebbero essere spesi nei servizi ai cittadini.
Mentre per i responsabili delle Chiese cattoliche nuove tasse metterebbero a rischio la loro capacità di agire e di condurre il proprio lavoro che, spiegano, non è soltanto di natura religiosa, ma prevede anche servizi sociali ai bisognosi. La legge per tassare le “attività commerciali” delle Chiese cristiane è in discussione alla Knesset, il parlamento israeliano. Ma subito dopo l’annuncio della chiusura del Santo sepolcro, è stato deciso di rinviare la discussione sul provvedimento.
Così da una parte ci sono le autorità cristiane che considerano alcune norme contenute nella nuova legge anche «razziste e discriminatorie» perché prevedono la possibilità di confiscare terreni di proprietà della Chiesa venduti a privati.
E dall’altra il sindaco di Gerusalemme che accusa anche lo Stato israeliano di avere impedito per molti anni al Comune di tassare le attività commerciali della Chiesa.
«Non accetterò oltre - ha detto il sindaco - che gli abitanti di Gerusalemme si facciano carico di quelle cifre» che finora, l’impossibilità di tassare la Chiesa, ci ha sottratto. Non è la prima volta che il Santo Sepolcro viene chiuso dalle autorità religiose per protesta. Accade anche nel 1990 perché vicino alla Basilica era sorta una nuova colonia ebraica.

Corriere 26.2.18
Anteprima Con «Il monastero delle ombre perdute» (Einaudi Stile libero) Marcello Simoni ripropone il suo personaggio che agisce nel Seicento
Torna l’inquisitore illuminista
Girolamo Svampa, il domenicano che indaga sui fatti e mette in dubbio le superstizioni
di Alessia Rastelli


«Se il Sant’Uffizio nasce nel XIII secolo, è a cavallo del Concilio di Trento che giunge al suo massimo potere. Ed è proprio a partire da questo momento che intraprende, in modo tanto sistematico quanto spietato, una guerra intesa da un lato a uniformare la devozione cristiana e dall’altro a castrare ogni residuo folklorico (paganeggiante) sopravvissuto alle epoche precedenti».
Così su «la Lettura» Marcello Simoni introduceva, poco più di un anno fa, l’idea di ambientare nuovi romanzi ed enigmi oltre l’amato e fecondo Medioevo, cui ha dedicato le sue prima saghe bestseller. Oltre lo stesso Concilio di Trento (1545-1563), per approdare in una Roma secentesca, sotterranea e barocca, di gabinetti alchemici, cripte, palazzi cardinalizi, dove le vittime dell’Inquisizione non sono solo le streghe ma anche scrittori e tipografi, illustratori, attori, compositori: divulgatori del libero pensiero.
La prima tappa è stata la pubblicazione, nel novembre 2016, de Il marchio dell’inquisitore , per Einaudi Stile libero. E adesso arriva, per lo stesso editore, Il monastero delle ombre perdute (in libreria da domani), secondo thriller storico che ha per protagonista Girolamo Svampa, domenicano al servizio del Sant’Uffizio. Con lui tornano padre Francesco Capiferro, segretario dell’Indice, e il fedele bravo Cagnolo Alfieri. Alle prese, questa volta, con un’indagine su un uomo trovato morto nelle catacombe di Domitilla, dove è stata avvistata una donna dal volto di capra. Il sospetto è che l’omicidio sia frutto di stregoneria. A scovare il cadavere è una giovane fanciulla, Leonora, appartenente a una famiglia molto vicina ai potenti Gonzaga. E dunque fin dall’inizio l’intrigo si complica: giochi di potere, complotti orditi (anche) dai vertici della Chiesa, avvelenamenti, si sommano a segni diabolici e sospetti di eresia.
Capitoli brevi, numerosi protagonisti e colpi di scena, rigorosa documentazione storica, caratterizzano, come i precedenti, questo libro di Simoni, la cui scrittura si fa qui più ricercata. Quasi sempre l’autore entra nello stato d’animo dei personaggi non svelandolo direttamente, ma descrivendo i gesti del corpo, le reazioni fisiche. E in questo mostra di mettere a frutto le sue qualità migliori: di osservatore e narratore («Il volto aveva l’inespressività di una maschera di cera, il corpo la pesantezza di un vecchio», fin quasi alla meta-dichiarazione che svela la tecnica: «Nel corso della conversazione aveva assunto sempre più la posa del soldato, in una sorta di metamorfosi che denotava un bisogno di sfogarsi non tanto a parole quanto a gesti»).
Ben disegnata, con forti chiaroscuri, è la figura del protagonista. «Fra’ Girolamo non è diventato frate domenicano per vocazione, ma per necessità», dice nel libro uno dei suoi superiori, monsignor Niccolò Ridolfi. Per vendetta, aggiungiamo, contro un infame membro del Sant’Uffizio. Ed è qui la chiave del fascino dello Svampa. Un inquisitore tutto raziocinio, che non crede nei sospetti ma solo nei fatti, e che mette in dubbio, lui per primo, le superstizioni che accendono roghi e bruciano idee.
Abile è anche il coinvolgimento nell’intreccio fittizio di personaggi storici, che consente di assaporare la trama su più livelli di lettura e rimandi ad altro. A chi abbia studiato anche soltanto a scuola Giambattista Basile (1566-1632) e le sua fiabe popolari in dialetto napoletano, raccolte ne Lo Cunto de li cunti , incuriosisce vedere il letterato, ingenuo e sognatore, in veste di amante. Così come il lettore freme quando Basile finisce pericolosamente al centro dell’indagine: la causa è proprio un cunto , una storia in cui una maga maledice una fanciulla e ordina che le si trasformi «la faccia in quella d’una capra».
Figure storiche vissute nel «secolo di ferro» sono pure le affascinanti sorelle di Basile: celebre fu in particolare Adriana, cantante lirica di straordinaria bellezza, madre di Leonora, la giovane che nel libro scopre l’omicidio, anche lei realmente esistita, anche lei soprano. Ma centrale nel volume è soprattutto Margherita. Quest’ultima «aveva sempre trovato la sorella maggiore più bella di lei — si legge a metà del libro — ma pur invidiandola non era mai riuscita a odiarla. E questo per merito della dote assai più preziosa di cui il Creatore le aveva fatto dono. A Giambattista l’estro, a Adriana la suadenza e a lei il talento per l’intrigo». Metà dark lady , metà aiutante del protagonista, Margherita è un personaggio che deve svelarsi ancora completamente. Indizio quest’ultimo, come anche il finale, che ci lascia presagire un nuovo romanzo della serie.

Corriere 26.2.18
Il saggio di Michela Ponzani e Massimiliano Griner (Rizzoli)
Ortensia e le altre, la libertà delle donne di Roma
di Alice Patrioli


Roma, I secolo a.C.: 1.400 matrone vengono obbligate a contribuire alle spese militari, in loro difesa si alza la voce di Ortensia, figlia dell’oratore Quinto Ortensio Ortalo e oratrice lei stessa. La sua argomentazione suona lucida, coerente e attuale: perché le donne dovrebbero pagare per le spese di una guerra condotta dagli uomini quando sono escluse da ogni incarico pubblico? La voce di Ortensia è una delle prime che s’incontrano nel volume Donne di Roma (Rizzoli) di Michela Ponzani e Massimiliano Griner: nelle pagine del saggio, avvincente e ben documentato, si susseguono ritratti di donne che dall’antichità fino ai nostri giorni hanno vissuto, amato, sofferto e combattuto nella città dei Cesari e dei Papi.
L’universo femminile di Roma a volte prende corpo e nome — quello di Bellezza Orsini, processata per stregoneria o di Beatrice Cenci, condannata per parricidio — ma più spesso resta nell’anonimato delle generazioni di donne sottoposte all’arbitrio degli uomini: giovani madri costrette ad abbandonare i propri figli perché nati fuori dal matrimonio, mogli richiuse nei manicomi dai mariti perché il loro comportamento non corrispondeva a quello prescritto dalle norme sociali. Bisogna attendere il 1848, con la sua portata rivoluzionaria, perché le donne romane sperimentino una libertà di parola e di pensiero mai conosciuta prima e i giorni della Repubblica romana per vederle prendere posto sulle barricate in aiuto degli insorti.
Lo stesso coraggio, benché accompagnato da un dilemma interiore ben più complesso, anima le partigiane che combattono nei Gap: tra tutte, Maria Teresa Regard, nome di battaglia «Piera», e Carla Capponi, insignita della medaglia d’oro al valor militare. Nella Resistenza le donne combattono non solo per la liberazione dal nazifascismo ma per una liberazione, più ampia e completa, dallo stato di minorità imposto loro dalla società maschile.
Nella Roma e nell’Italia del dopoguerra la partecipazione femminile all’attività politica è ormai avviata e porterà a importanti conquiste sociali. È del 1963 la legge che stabilisce la possibilità per le donne di accedere a tutte le carriere e le professioni pubbliche: la voce non di una, ma di molte Ortensie potrà di nuovo farsi ascoltare.