Corriere 25.2.18
Cina
Xi Jinping presidente finché vorrà: così cambia la costituzione in Cina
La svolta verrà ratificata dal Congresso nazionale del popolo convocato per il 5 marzo a Pechino. Ora Xi è più potente di Mao, perché la Cina è superpotenza
Dopo Mao e Deng è l’ora di Xi: il pensiero dell’uomo nuovo di Pechino in 14 «principi»
Xi disegna la Cina fino all’anno 2049
di Guido Santevecchi, corrispondente da Pechino
qui
il manifesto 25.2.18
La piazza antifascista vince sulla violenza
Un lungo corteo riempie Roma contro «il pericolo nero». Dal palco Liliana Segre e Carla Nespolo usano parole giuste: mai più l’orrore
Carla Nespolo presidente dell'Anpi e Susanna Camusso dietro allo striscione "Mai più fascismi" che apriva il corteo
di Massimo Franchi
«Siamo in tanti, la piazza è piena: la pioggia non ci ha fermato». Alle quattro e mezzo sotto un’acqua che scende sempre più forte Carla Nespolo rivendica orgogliosa il successo della manifestazione. Ad ascoltarla c’è una piazza del Popolo gremita mentre nel retropalco sono già spariti tutti i politici del Pd venuti a fare passerella elettorale. Le ventitré associazioni – Cgil e Arci in testa – che hanno lanciato l’appello “Mai più fascismi” e che hanno organizzato una manifestazione tutt’altro che semplice per la distanza temporale dai fatti di Macerata non nascondono l’amarezza per chi ha fatto solo capolino a favore di telecamere.
ANCHE ALLA PARTENZA del corteo alle 13 e 30 da piazza Esedra del Pd non si era visto nessuno. L’orario insolito, specie per i romani, e i tanti pullman bloccati dalla polizia all’uscita dai caselli – «Ai veronesi hanno sequestrato il vino, pensa quanto arrivano incazzati», scherza qualcuno – producono un colpo d’occhio poco rassicurante. Col passare dei minuti le file si ingrossano e molti tirano un sospiro di sollievo. Il proverbiale servizio d’ordine della Fiom fa da cordone ai gonfaloni delle città con i sindaci, dove potrebbe arrivare anche Matteo Renzi – «Ci tocca pure difenderlo», è la battuta che va per la maggiore. In testa al corteo ci sono Anpi, Arci e sindacati. A fianco di Carla Nespolo c’è Susanna Camusso, poi l’ex presidente dell’Anpi Carlo Smuraglia. Dall’altra parte il leader Uil Carmelo Barbagallo mentre Annamaria Furlan è a casa con la febbre, sostituita dal segretario confederale Andrea Cuccello.
DIETRO DI LORO SFILANO le sezioni territoriali dell’Anpi con tanti fazzoletti tricolori al collo di quei pochi ragazzi rimasti che fecero la Resistenza. C’è Giuseppe da Pontedera, 84 anni che «era bambino ma si ricorda i fascisti e il dover scappare sulle montagne con tutta la famiglia» e che «oggi sente che per fermare il pericolo fascista bisogna agire subito» e ricorda con orgoglio che «Pontedera è stato il primo comune a vietare gli spazi pubblici ai neo fascisti». Più pessimista è Romolo, 89enne romano: «Il fascismo può tornare perché non lo abbiamo cancellato, tollerando anche l’Msi». Di fianco a lui c’è Giovanni, 85 anni che però «rimpiange la prima repubblica, almeno lì il livello dei politici era alto». «E difatti – il ragionamento lo continua Romolo – il vero rischio è che i movimenti neofascisti si saldino con i partiti: la Lega e i Cinquestelle».
IL MOMENTO PIÙ BELLO del corteo è quando improvvisamente si materializzano i bambini. Sono alunni della scuola primaria Di Donato Manin dell’Esquilino, una delle più multietniche di Roma. Accompagnati da molte madri i ragazzi portano uno striscione che anche in queste settimane nere dà speranza per il futuro: «Studiano insieme, tutti i bambini, tutti cittadini», il tutto mentre cantano il loro idolo Ghali, il ragazzo di origini tunisine che nel suo rap più famoso ritma: «Oh eh oh, quando mi dicon’: “Vai a casa”, Oh eh oh, rispondo: “Sono già qua”, nella canzone “Cara Italia”.
LE DUE SETTIMANE TRASCORSE dai fatti di Macerata hanno permesso a tutti di organizzarsi e usare la fantasia per caratterizzarsi. Il troncone dei pensionati dello Spi Cgil è colorato e pieno di capellini con la scritta che usano Trump: «Make Italia antifascista again» e cartelli che colpiscono per la loro sagacia: «Le guerre tra i poveri le vincono i ricchi», «Aiutiamoci a casa nostra», «C’è solo una razza, quella umana», «Il tricolore è di tutti».
ANCHE LA FP CGIL appena reduce dall’ultimo rinnovo dei contratti statali ha uno striscione per fatto apposta per l’occasione. L’acronimo è confermato, ma la seconda parola è cambiata: «Funzione partigiana».
ALDO TORTORELLA DELL’ARS si fa tutto il corteo, le 23 associazioni si dipanano lungo il serpentone in un clima festoso che contrasta con quello meteorologico.
AD UN CERTO PUNTO nel troncone della Cgil Marche arriva il sindaco di Macerata Romano Carancini. Le polemiche sulla richiesta di non tenere la manifestazione inizialmente convocata da Anpi e Cgil nella sua città sembrano superate, anche se in molti – come Carla, 40enne volontaria di Emergency – non hanno mandato giù la censura «della parola con la F»: «Il sindaco non ha mai avuto il coraggio di dire che quello di Traini è stato un gesto fascista e se anche è vero che la città in quei giorni era impaurita, manifestare per l’antifascismo è sempre giusto», spiega ancora piena di amarezza».
LE FORZE DELL’ORDINE osservano con un certo distacco lo snodarsi del serpentone che scende dal Pincio verso piazza del Popolo. Chi ha soffiato sul fuoco annunciando il «pericolo incidenti» è rimasto deluso.
MENTRE VA IN SCENA la passerella dei politici nel retro allestito con la solita impeccabile organizzazione dalla Cgil, sul palco l’attore Giulio Scarpati contornato da una ventina di ragazzi richiama «all’unità antifascista». Le lettere dei partigiani ai figli vengono lette con partecipazione dalle ragazze dei licei romani. Poi tocca al videomessaggio della neo senatrice a vita Liliana Segre, scampata ai campi di concentramento nazisti, scaldare la piazza. «Faccio appello a tutti, politici e operatori dell’informazione, anche se non voglio illudermi che ascoltino una vecchia nonna che ne ha passate tante: non dividete gli esseri umani, non offrite facili nemici in pasto a chi ha paura». È lei ad usare le parole giuste per spiegare cosa è successo: «La caccia all’uomo nero avvenuta a Macerata ci ha mostrato il baratro che abbiamo di fronte», un monito che si spera venga ascoltato non solo dalla piazza.
È UN’ALTRA «PRIMA» DONNA, Carla Nespolo a chiudere la manifestazione con un comizio sentito e appassionato mentre ancora scendono persone dal Pincio sotto la pioggia scrosciante. «In queste settimane – esordisce – ci sono stati troppi silenzi. Il fascismo è nemico della conoscenza, è nemico delle donne. Ribadiamo la richiesta dello scioglimento immediato delle organizzazioni neo fasciste applicando la XII disposizione transitoria della Costituzione che vieta la riorganizzazione del partito fascista. L’escalation della violenza di queste settimane nasce anche dal ritardo. Andremo avanti tutti insieme con la forza della nostra unità», conclude con a fianco ad Adelmo Cervi cantando “Bella ciao” facendo volare gli ombrelli e ballare la piazza.
Il Fatto 25.2.18
La sinistra che c’era è andata a destra
di Furio Colombo
La destra e la sinistra non esistono più. La frase, che circola anche nei migliori partiti, è come una benda gettata all’improvviso sugli occhi dei cittadini per costringerli a un gioco a mosca cieca. Dovunque cerchi, non trovi. L’epoca, affollata di computer e robot, non ha ricordi. Che senso ha cercare la destra del mercato e del capitale, se non esiste più (non conta niente) il sindacato della lotta di classe? Se sei italiano, però, prima di rispondere alla domanda su destra e sinistra, devi tener conto di un fatto.
L’Italia ha due destre, una di interessi economici e di difesa dei capitali, con la sua visione conservatrice. L’altra destra è ideologica, è fondata sulla violenza e sul potere, che trucca, tradisce, condanna, reprime, se ha il potere. Qual è la destra che non esiste più, al punto che vi dicono: la parola non ha più senso? Evidentemente la prima, che partecipava al gioco con la sinistra sapendo di avere sempre delle buone carte in mano, ma anche interessata (la pace sociale costa meno) a non rompere i ponti. Il fatto strano, almeno per l’Italia, è che è stata la sinistra ad alzarsi dal tavolo e ad abbandonare il gioco, imperfetto ma funzionante, delle due parti con interessi diversi e la comune convenienza. Mille convegni non hanno spiegato perché la sinistra se ne è andata o si è sempre più travestita da destra, arrivando a spingere più in là di quel che le imprese volevano. Qui è accaduto un effetto collaterale che forse la sinistra non aveva calcolato: il suo popolo, sentendosi non più rappresentato se n’è andato alla spicciolata, lasciando un largo spazio vuoto. Perché quello spazio vuoto sia tuttora celebrato come “il popolo della sinistra” non si sa. Certo che se c’è stato un tempo in cui la destra erano Agnelli e Pirelli e la sinistra erano Pertini e Berlinguer, stiamo parlando di un universo perduto. Ora c’è la sala vuota della Confindustria, ci sono i circoli chiusi del Pd e qualcuno ha la faccia tosta di organizzare la Festa dell’Unità dopo avere fatto morire, deliberatamente, il giornale di Gramsci. Il fenomeno però non è così simmetrico come sembra. Impossibile negare che la sinistra non c’è più, nel Paese in cui domina l’anelito di tagliare le pensioni e diminuire i salari (vedi Fornero e Whirpool). Ma, delle due destre, ne è rimasta una, quella ideologica e del potere, quella fascista. È viva negli Usa, con il suo presidente che vuole armare gli insegnanti, con il capo dell’estrema destra (alt right) Steven Bannon che è appena un passo dalla Casa Bianca, con i misteriosi contatti con Putin. È viva nei Balcani e nell’Europa dell’Est (dall’Ungheria all’Austria alla Polonia). E dove sembra che non ci sia fascismo compare un Breivik niente affatto povero e marginalizzato, un fascista abbiente e bene armato, che uccide in un paio d’ore cento giovani socialisti di una scuola di partito. Se pensate che il fascismo, per tornare a crescere, abbia bisogno di un popolo abbandonato dalla sinistra, ecco l’idea: dedicarsi a diffondere e far crescere la paura dell’immigrazione. Gli stranieri sono gente impura, non cristiana, sconosciuta, diversa, con cui vorrebbero obbligarti a dividere la vita fino a sottometterti. Poiché questo è ciò di cui bisogna occuparsi, anche con la forza, se necessario: qualcuno sta organizzando l’invasione di una immensa quantità di stranieri in Italia e dunque sta creando un grave pericolo per la pura razza italiana.
Se pensate di non aver notato nulla di così sconvolgente, ma solo povera gente terrorizzata da fame, guerra e dal pericolo di annegare in mare, se temete che ci sia una falsificazione o una esagerazione dei dati, ecco la vera notizia, il complotto. Come aveva previsto Umberto Eco ne Il pendolo di Foucoult, ne Il cimitero di Praga e nel bellissimo testo Il fascismo eterno, arriva la notizia del complotto. Qualcuno trama per la sostituzione dei popoli, i neri (i neri!) prenderanno, qui, nel nostro Paese di pura razza italiana, il posto dei bianchi. Naturale che i popoli non si sostituiscono da soli. Ci vuole il miliardario canaglia che, come è naturale in un mondo fascista, è ebreo. Si tratta di un certo Soros, e anche se persino Minniti o Salvini o Meloni o Lombardi (il cuore d’oro del M5S) non hanno ancora rivelato la causa di questo complotto (ci impongono di accettare nuovi schiavi o nuovi padroni?), il complotto c’è e vi partecipano persino (quando non sono in Siria a salvare bambini o in mare a salvare naufraghi) le Ong, compresi i “Medici senza frontiere” onorati dal presidente della Repubblica. E l’invasione continua. Non dite vanamente che l’invasione non c’è. Nessun partito importante in queste elezioni vi starebbe a sentire. Abbiamo dunque alcune certezze. La sinistra non c’è. Ma la destra, con il coraggio di dirsi fascista, c’è e conta.
il manifesto 25.2.18
La destra italiana, il «trumpismo» e noi
Usa/Italia. In Italia, se il programma «trumpista» - neologismo che dovremo imparare a usare e a declinare - dovesse realizzarsi, la crescita ulteriore del debito pubblico, proprio nella fase in cui la politica di Draghi del Quantative Easing si va spegnendo, ci porterà al dejà vu: spread alle stelle e Bruxelles che interviene pesantemente sul nostro governo che potrà ancora una volta giocare la parte della vittima
di Tonino Perna
L’Italia dopo la seconda guerra mondiale è stata una delle nazioni europee più fedeli alleate del governo nordamericano, la cui influenza sulla nostra società è stata costante e rilevante. Non solo sul piano politico-militare, ma anche su quello culturale e dei modelli di vita e di consumo.
L’unica variabile è stato il tempo. Alcune volte le mode politico-culturali sono arrivate da noi dopo alcuni anni, in altri casi il processo imitativo è stato molto veloce.
Se osserviamo la sfera della politica economica possiamo notare come nel caso della Reganomics, la sterzata liberista e il primo smantellamento del welfare che si è affermata negli States dalla fine degli anni ’70 del secolo scorso, è arrivata in Italia dopo tre lustri con la presidenza dell’ex Cavaliere.
È poi penetrata lentamente nel tessuto politico italiano contaminando progressivamente la cosiddetta «sinistra di governo» che come un camaleonte ha cambiato continuamente nome e colore nell’ultimo ventennio.
Di contro, dopo l’avvento di Trump alla presidenza degli States c’è stato un immediato processo di imitazione e oggi non è azzardato prevedere che il successo della alleanza politica di destra alle prossime elezioni, almeno come percentuale di voti, si basa su una forte convergenza con le parole d’ordine, obiettivi e programma politico di Donald Trump.
Non è più la destra forzaitaliota degli anni ’90, un po’ guascona e liberista ad personam, né quella secessionista di Bossi, ma un’alleanza di destra molto simile a quella che sta montando in tutta Europa e che trova in Trump il suo faro dorato. Infatti, al di là delle piccole differenze tra i tre soggetti alleati- Fi, Lega Nord e FdI- sostanzialmente i tre convergono sui capisaldi della politica «trumpista»: lotta senza tregua all’immigrazione, libertà di armarsi e uccidere se qualcuno minaccia la proprietà privata, flat tax per regalare ai ricchi il diritto di esistere come tali, e quindi rilanciare l’economia.
La maggiore differenza formale possiamo coglierla nel diverso colore del parrucchino (uno giallo oro, l’altro cangiante e tendente al marrone).
La differenza sostanziale sta nella collocazione internazionale e nel peso politico-economico e militare dei due paesi. Se il programma di Trump andrà avanti come sembra, allora gli Usa si troveranno a dover affrontare una crescita esponenziale del debito pubblico.
Poco male se, come è avvenuto finora i capitali di tutto il mondo continueranno ad arrivare nella Borsa di New York o ad investire in immobili e aziende a stelle e strisce.
Ma, se questa crescita del debito pubblico dovesse preoccupare la grande finanza allora è più che probabile una ulteriore svalutazione del dollaro e un relativo crollo, di grandi proporzioni, di Wall Street, con tutto quello che ne consegue.
In Italia, se il programma «trumpista» – neologismo che dovremo imparare a usare e a declinare – dovesse realizzarsi, la crescita ulteriore del debito pubblico, proprio nella fase in cui la politica di Draghi del Quantative Easing si va spegnendo, ci porterà al dejà vu: spread alle stelle e Bruxelles che interviene pesantemente sul nostro governo che potrà ancora una volta giocare la parte della vittima.
A questo punto tutti gli scenari sono aperti e la classe politica «sovranista» dovrà piegarsi ai tecnocrati della Ue o rivolgersi al presidente nordamericano, ricordandogli la loro fedeltà atlantica e marciando con un cartello appeso al collo con la scritta : «Yes , we Trump».
Il Fatto 25.2.18
Una Bonino per ogni stagione. È radicale, Renzi o B. è uguale
Parabole. Fu lei ad ottenere l’unico “posto” per i suoi in Europa, mentre in aula i colleghi votavano qualunque legge vergogna
Una Bonino per ogni stagione. È radicale, Renzi o B. è uguale
di Enzo Marzo
Non ditemi che vi siete meravigliati. La notizia che, prima tra gli alleati di Renzi, Emma Bonino, assieme all’ultraclericale Lorenzin, si è assunta la responsabilità di aprire a un governo con il pregiudicato incandidabile Berlusconi, era scontata. Noi ci avremmo scommesso qualche soldo. I radicali sono animali politici strani ma consuetudinari: spesso si impegnano in qualche battaglia civile sacrosanta, ma se si infilano in parlamento o nelle battaglie partitiche raggiungono vette di trasformismo e di avventurismo che non hanno uguali.
Forse non hanno colpe soggettive, il loro DNA è quello. Nel Novecento, alle epocali svolte reazionarie non sono venuti a mancare mai all’appello. Dopo la marcia su Roma i radicali presero armi e bagagli e, sorprendendo tutti, si vendettero a Mussolini per una manciata di ministeri, all’avvento di Berlusconi si precipitarono ad Arcore col cappello in mano per “aiutare” la nascente Forza Italia a realizzare la “rivoluzione liberale”. Rigonfi di cinismo e di presunzione si svendettero per un mucchietto di quattrini e qualche posto secondario. Ebbero persino la sfacciataggine di entrare in parlamento all’interno del gruppo di Forza Italia e così ebbero l’onore di sedere accanto al fior fiore del malcostume politico italiano. Ma i pannelliani avevano ed hanno stomaci forti. L’unica che ci guadagnò qualcosa fu proprio Emma Bonino, scelta da Berlusconi come commissario europeo dal 1995 al 1999. Avevano l’intento di insegnare a Berlusconi il liberalismo e ovviamente non ci riuscirono, però regalarono, per il mainstream, una patina “ideologica” a chi nel frattempo pensava rigorosamente solo a salvare le sue aziende in crisi, e sé stesso e i suoi accoliti dalle disavventure giudiziarie. Nacque allora il risibile mito del Berlusconi “liberale”. Nacquero allora le leggi ad personam e Raiset, e i radicali con grande in/dignità digerirono tutto. Loro, i presunti massimi difensori della legalità e della libertà di informazione. Non potevano insegnare il liberalismo a Berlusconi, non solo perché l’alunno aveva la testa dura, era disinteressato alla materia e pensava a cose più solide, ma anche perché ormai da tempo i radicali stessi avevano smarrito i principi di base. Non era stato Pannella, durante l’ipocrita predicazione antipartitocratica, a inventare per primo il “partito personale”? Non era stato lui a creare la lista con su, bello scritto, il nome del Capo? Non fu lui a precorrere tutti nell’organizzazione del partito totalitario sotto un padrone, carismatico o finanziario che fosse? Ostentando il disegno di “cambiare” Berlusconi, furono proprio i pannelliani a subire una metamorfosi. Senza vergognarsi neppure un po’, passarono dal liberismo della scuola italiana al neoliberismo selvaggio all’americana. Passarono da Ernesto Rossi al servizio del più disinvolto “padrone del vapore”.
Il loro tradimento non ha attenuanti, perché dopo Tangentopoli, con i comunisti e i socialisti a pezzi, i pannelliani avrebbero potuto costituire davvero il nucleo fondante di una sinistra liberale, democratica e laica. Non lo hanno fatto, anzi si sono intruppati col peggio del peggio dell’Italia d’allora. Tradirono per mettersi con Dell’Utri e Previti. Che conoscevano benissimo. Per qualche poltrona di nessun valore hanno mancato un’occasione storica che non si ripresenterà presto.
Dopo la scomparsa di Pannella, i radicali si sono divisi, e a quanto sembra proprio quelli che hanno seguito Bonino sono i veri prosecutori del trasformismo radicale. Già un segno inquietante quanto risibilmente sfacciato è venuto in occasione delle elezioni comunali di Milano, quando il boniniano Cappato, prima, fa fuoco e fiamme contro il candidato del Pd, Sala, additato come “incandidabile”, e solo dopo pochi giorni – fatto aumentare il prezzo, tra il primo e il secondo turno lo trasforma in santo, la fa diventare per miracolo non solo candidabile ma il migliore sulla piazza. I radicali invitano a votare Sala e incassano un assessorato. (…)
Infine arriviamo ai tempi nostri. I boniniani, nel momento della presentazione della lista si accorgono (solo allora) che la riforma elettorale di Renzi è pessima e li danneggia. Hanno ragione, ma ciò li spinge ad allearsi proprio con Renzi, aiutati da vecchi democristiani. Operazione del solito trasformismo di bassa lega? Certo, ma non solo: Emma Bonino non si accontenta e lancia la possibile alleanza con Berlusconi. Le è indifferente che oggi la mummia di Arcore sia alleato in coalizione, con un programma comune, con i sovranisti e i fascioleghisti. Ma che ci si vuol fare: i vecchi amori non si dimenticano mai. E non conoscono pregiudiziali. I radicali, quando ritornarono in parlamento nel 1976, volevano sedersi in “Montagna”, in alto a sinistra, ora siederanno compiaciuti in quello che Duverger definì “l’éternel marais”, nella palude, tra Giggino ‘a purpetta e Boschi, la costituzionalista.
Bonino, ventriloqua di Renzi, si propone come “pontiera” per le “larghe (quanto?) intese”, quelle che hanno distrutto la sinistra e hanno riabilitato un frodatore dello stato. (…) C’è da rimanere sgomenti di fronte a tanto cinismo. Quando gli storici del futuro dovranno scrivere la storia di questo periodo chissà a quale posto porranno Emma Bonino nella classifica dei politici che hanno la responsabilità della distruzione materiale e morale dell’Italia.
Corriere 25.2.18
Esiste davvero l’isteria di massa ?
La letteratura scientifica avvalora alcuni casi in cui la suggestione che investe un gruppo di persone avvia una reazione a cascata e si propaga senza controllo
di Danilo Di Diodoro
Si chiamerebbe «isteria di massa», ma il termine porta in sé qualcosa di sgradito e allarmante, per cui è stato proposto di chiamarla con termini meno negativi, come ansia di massa, malattia sociogenica (o psicogenica) di massa, attacco di sintomi multipli inspiegabili. Per fare un esempio di cosa si tratta, si potrebbe fare riferimento a quanto è successo a Cuba nel 2017, quando il personale dell’Ambasciata americana all’Havana ha iniziato a lamentare cefalea, capogiri, senso di fatica, nausea, insonnia, fischi nelle orecchie, difficoltà a concentrarsi, perdita di memoria, senso di confusione, perdita di udito e sintomi di un lieve traumatismo cerebrale. Un po’ alla volta sono stati coinvolti 24 impiegati dell’ambasciata, e la faccenda è finita al Dipartimento di stato che ha ipotizzato un azione verso il personale americano attraverso l’utilizzo di non meglio specificate onde sonore.
Il sociologo medico Robert Bartholomew, esperto di malattia psicogenica di massa, ha espresso dubbi sulla reale esistenza di un attacco del genere in un articolo pubblicato sul Journal of the Royal Society of Medicine . L’episodio avrebbe alcune caratteristiche che farebbero pensare a un possibile episodio di isteria di massa, dato anche che i sintomi sono incongruenti con gli effetti di onde sonore che non si sa da che genere di macchinari potrebbero essere state prodotte. «È una spiegazione plausibile» dice il dottor Bartholomew, «trattandosi di un disturbo nervoso caratterizzato da un rapido diffondersi di sintomi di malattia all’interno di un gruppo sociale coeso, e per il quale non viene riscontrata una causa organica». Tra l’altro, man mano che nuovi impiegati partivano dagli Stati Uniti per l’Havana, venivano avvertiti della misteriosa minaccia che avrebbe potuto creare sintomi di lunga durata, così che arrivavano già predisposti per lo sviluppo di disturbi simili a quelli degli impiegati che già ne avevano sofferto. Più caute le conclusioni di uno studio appena pubblicato su Jama ( Journal of American Medical Association ) da un gruppo guidato da Randel Swanson del Department of Physical Medicine and Rehabilitation, University of Pennsylvania di Filadelfia, che ha esaminato gli impiegati e ha osservato la presenza di un danno nei circuiti del cervello come se ne trova in chi ha avuto un trauma cerebrale, anche se in questo caso non c’è stato un trauma identificabile. L’editoriale che accompagna l’articolo, scritto dai neurologi Christopher Muth e Steven Lewis, supporta l’ipotesi del danno neurologico, anche non riesce a dare a completa spiegazione di come possa essersi prodotto. Nella letteratura scientifica psichiatrica abbondano segnalazioni di improvvisi fenomeni di isteria di massa, che tendono a riflettere alcuni aspetti culturali della società nella quale si manifestano.
Nel mondo contemporaneo si tratta spesso di episodi di improvvisa paura per fenomeni di inquinamento ambientale, diffusione di gas tossici, possibili attacchi bioterroristici. Compaiono sintomi come mancanza di respiro, nausea, mal di testa, vertigini e senso di debolezza, e cominciano a diffondersi in una sorta di catena umana inarrestabile. Secondo Sivasankaran Balaratnasingam del Northwest Mental Health Service di Karratha in Australia e Aleksandar Janca, dell’University of Western Australia, autori di un articolo di revisione sull’argomento pubblicato su Current Opinion in Psychiatry , «Gli episodi possono essere perpetuati da diversi fattori, quali l’esposizione fisica o visiva alle persone già colpite, dal livello elevato dello stato di eccitazione generale, dalla presenza sul posto di giornalisti, dalla possibilità che ci siano richieste di danno e compensazione, dal fatto che qualcuno emette una specifica diagnosi organica per quanto sta accadendo, dalla persistenza delle voci che corrono».
Sebbene esistano molte segnalazioni di episodi di questo genere, il fenomeno resta non del tutto compreso da parte degli psichiatri, che comunque lo inseriscono tra i disturbi somatoformi , caratterizzati da sintomi fisici ma che in realtà nascono da cause psichiche, soprattutto di tipo ansioso. L’iniziale percezione soggettiva di un sintomo viene collegata a una possibile causa, secondo un’interpretazione del tutto personale che rapidamente viene accettata da altri presenti, i quali iniziano a manifestare sintomi simili.Le scuole sono un luogo preferenziale di tale eventi, come è accaduto nel caso riportato sul Psychiatry Journal da Binoy Krishna Tarafder del Faridpur Medical College in Bangladesh e dai suoi collaboratori: dopo una merenda servita come ogni giorno agli studenti, alcuni iniziarono a sentirsi male, e nel giro di qualche ora furono coinvolti oltre 90 ragazzi che avevano notato uno strano sapore nella loro fetta di torta. Ci fu un parapiglia incredibile, con trasporti d’urgenza in massa al Pronto soccorso. Le analisi tossicologiche e microbiologiche effettuate sulla torta diedero esito negativo. Molti insegnanti avevano assaggiato la torta e stavano benissimo. Alla fine la diagnosi fu di un episodio di isteria di massa, e allora l’impegno dei sanitari fu profuso soprattutto nel cercare di rassicurare e rinviare gli studenti a casa.
Corriere 25.2.18
Il meccanismo
Coinvolti (forse) i neuroni specchio
di D. d.D.
Come faccia l’isteria di massa a diffondersi così rapidamente non è ben chiaro. Secondo gli psichiatri di Taiwan Yao-Tung Lee e Shih-Jen Tsai, autori di un articolo sulla patogenesi dell’isteria di massa, pubblicato sulla rivista Medical Hypoteses , potrebbero essere coinvolti i neuroni specchio. «Oggi si conosce bene l’esistenza del sistema neuronale rappresentato dai neuroni specchio, presente sia nelle scimmie sia negli esseri umani — spiegano —. Attraverso questo sistema, quando si osserva un’azione, le strutture nervose coinvolte nell’esecuzione delle azioni osservate sono reclutate nel cervello dell’osservatore, come se fosse lui a eseguire l’azione. Questo sistema consente a un individuo una conoscenza esperienziale dell’azione osservata, senza azioni motorie. «Questo vuol dire che negli essere umani il sistema dei neuroni specchio si attiva nell’osservare le azioni degli altri, il che aiuta a comprenderle, ma esiste una sorta di blocco motorio che fa sì che l’osservatore non compia egli stesso quelle azioni, il che non sarebbe appropriato». Secondo i due autori, nell’isteria di massa «è probabile che la componente inibitoria automatica del sistema di neuroni specchio possa non funzionare bene in alcune persone, dal che deriva un comportamento di imitazione collettiva, fino alla diffusione in vera e propria isteria di massa». Ipotesi confermata dal fatto che per contenere la diffusione è utile la separazione dalle persone colpite.
Corriere La Lettura 25.2.18Preistoria Perché i nostri cugini (dotati, ora lo sappiamo, di «talento artistico») sono spariti? Ipotesi su un giallo irrisolto
E il dinamico Sapiens spodestò l’ecologista Neandertal
di Claudio Tuniz
Questo è forse il giallo più affascinante di tutti i tempi. A un certo punto, intorno a 40 mila anni fa, scompare un’intera specie umana: i Neandertal. Come noi Sapiens , anche loro avevano attraversato diverse ere glaciali. Ma per noi era stato più facile, essendo vissuti perlopiù in Africa. Durante questi periodi, il nostro problema era la siccità; il loro era il freddo. Eppure essi popolavano, in Eurasia, anche territori gelidi come la Siberia e, allora, le isole britanniche.
Da più di un secolo ci chiediamo chi o che cosa abbia provocato la loro scomparsa. Sono stati forse i nostri progenitori Sapiens a portare a termine una specie di pulizia etnica ante litteram ? In questo caso ci baseremmo sulle tesi del «darwinismo sociale», una dottrina per cui i gruppi più «forti» sostituirebbero quelli più «deboli». Ma essi avevano un aspetto e una cultura non troppo diversi da quelli dei nostri primi antenati. Ed è difficile trovare prove di eccidi sistematici. Tra le migliaia di ossa neandertaliane, solo un paio mostrano tracce riconducibili ad atti di violenza da parte dei Sapiens . O forse è stato un virus sconosciuto, portato dall’Africa dai nostri antenati, a causare una strage? In fin dei conti eventi analoghi sono già accaduti, nella storia più recente, con l’arrivo dei colonizzatori europei in America e in Australia.
Altri chiamano in causa un indebolimento del campo geomagnetico terrestre, che ci protegge dalle particelle cosmiche. Questo avrebbe ridotto lo strato di ozono dell’atmosfera, facendo aumentare le radiazioni UV-B, dannose per una specie umana dalla pelle molto bianca e lentigginosa; meno per noi, che eravamo ancora piuttosto scuri. È stata posta sotto accusa anche la variabilità climatica dell’ultima era glaciale, causata da effetti astronomici e interruzioni delle correnti oceaniche. Forse i Neandertal non riuscivano ad adattarsi a quella specie di yo-yo ambientale? Oppure, pur essendo dotati di un cervello grande come il nostro, avevano capacità cognitive (linguaggio, memoria, simbolismo, apprendimento) che lasciavano a desiderare?
Nel libro Mio caro Neandertal (Bollati Boringhieri), la paleoantropologa Silvana Condemi e il giornalista scientifico François Savatier sostengono che tutte queste ipotesi — difficili da dimostrare — non sono comunque molto credibili, e che bisogna cambiare approccio per identificare i colpevoli della sparizione dei nostri fratelli con il cranio a palla da baseball. Lo fanno con un sottile humour francese, spiegandoci anche (non a caso) l’importanza delle rane e delle lumache nella dieta umana.
La discussione si basa su ricerche scientifiche recenti, che utilizzano metodologie avanzate: analisi paleogenetiche, Tac con luce di sincrotrone, radio-datazioni. I dati sono pubblicati su riviste scientifiche internazionali, in molte delle quali compare anche Silvana Condemi. Gli autori distinguono — con lodevole trasparenza — i fatti accertati dalle idee che riflettono il loro punto di vista, per le quali auspicano ulteriori ricerche.
Le pagine del libro — che si legge come un romanzo poliziesco — trasudano affetto per il «fratello perduto», con il supporto delle suggestive illustrazioni di Benoit Clarys. Spiegano che l’ipotesi della minore intelligenza dei Neandertal è ispirata dal pregiudizio inconscio che la nostra specie sia superiore alle altre. Un pregiudizio appena smentito dalla scoperta di straordinarie e antichissime pitture rupestri neandertaliane nelle grotte spagnole La Pasiega, Maltravieso e Ardales.
In verità sia il nostro successo che la loro estinzione non sono dovuti a fenomeni prodotti da singoli eventi o situazioni, e non dipendono del tutto dalle caratteristiche anatomiche e dalle capacità cognitive individuali. Sono invece il risultato di spirali di eventi in cui si combinano, in modo non lineare, meccanismi biologici, culturali, sociali ed economici.
Nel caso della nostra specie, questa spirale si è trasformata in un ciclone che ha investito l’intero pianeta, depredandolo e riducendone la biodiversità. Molti fattori lo hanno alimentato. La divisione del lavoro tra uomini e donne, ad esempio, ha costituito un grande vantaggio evolutivo dal momento in cui è stata estesa a tutta la società. Valorizzando le capacità individuali, essa ha aumentato enormemente i beni di cui potevamo disporre collettivamente, potenziando la formazione di più ampi gruppi sociali e poi una loro stratificazione.
Potrebbe essere entrato in funzione anche un vantaggio riproduttivo. Infatti, nuove strategie di caccia e di raccolta influenzarono la dieta dei Sapiens , e quindi la loro fertilità e la loro salute. Con una vita media più lunga e una popolazione sempre più numerosa, accelerammo le nostre innovazioni culturali e tecnologiche, trasmettendo il sapere in modo più efficiente. I Neandertal invece, avevano avuto un’esistenza stabile, priva di disuguaglianze, in totale equilibrio con l’ecosistema. Con una scarsa espansione demografica di lungo periodo, avevano conservato per migliaia di generazioni la loro tecnologia musteriana. La stabilità e l’equilibrio cessarono con il nostro arrivo.
Ma alla fine, come in ogni buon giallo, c’è un colpo di scena. I Neandertal non sono veramente scomparsi. Si sono dissolti nell’ondata di Sapiens che ha coperto tutto il pianeta. Secondo le analisi paleogenetiche, i geni di Neandertal che portiamo con noi deriverebbero dalle loro donne. C’è da augurarsi, come dice il testamento del Neandertal che conclude il libro, che questa eredità genetica possa aiutarci a ritrovare un equilibrio con il mondo, in armonia con gli altri viventi.
Corriere La Lettura 25.2.18
Democrazia a rischio estinzione
L’allarme. Due studiosi di Harvard segnalano il logoramento delle regole che servono a prevenire le svolte autoritarie
Ma esistono altri fattori di pericolo: lo strapotere della finanza, lo scadimento culturale, gli squilibri demografici
di Sandro Modeo
Democrazia a rischio estinzione
Tra le centinaia di volumi sulla «crisi» o la «fine» della democrazia, risalta, per ambizione e originalità, quello appena uscito di due studiosi di Harvard, Steven Levitsky e Daniel Ziblatt, How Democracies Die («Come muoiono le democrazie»). La premessa ovvia per avvicinarsi alla lettura è condividere, come minimo, il celebre elogio «in negativo» di Winston Churchill, per cui la democrazia sarebbe «la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte le altre che si sono sperimentate finora». Credere cioè che quella forma sia da difendere e preservare con tutte le forze, magari fatta la tara a quella «retorica democratica» (come recita un libro di Luciano Canfora) che ne enfatizza i pregi velandone i difetti. In questa prospettiva, il libro di Levitsky-Ziblatt è un buon punto di partenza: anche se, va detto subito, dall’esito ambivalente, con un convincente piano descrittivo sovrapposto a un più discutibile piano esplicativo.
Il piano descrittivo provvede infatti a un’inedita analisi comparata di tutte le democrazie degenerate in sistemi autoritari — specie dopo il crollo del Muro — non per lo shock di un golpe militare (con carri armati, leggi marziali, Costituzioni sospese o soppresse), ma per un’erosione progressiva (di diritti, libertà di stampa, dialettica interna) dovuta a «autocrati eletti» secondo i crismi costituzionali. È uno schema che elegge il suo archetipo nel Venezuela di Hugo Chávez, ma in cui sembrano rientrare, a gradi diversi, anche Paesi come Polonia, Ungheria, Georgia, Ucraina, Russia, Perù, Filippine, India, Sri Lanka e Turchia.
Per prevenire/contrastare simili degenerazioni — e qui siamo al piano esplicativo o al passaggio dalla diagnosi alla prognosi-terapia — secondo Levitsky e Ziblatt ogni democrazia dovrebbe possedere soprattutto due requisiti spesso, va da sé, in reciproco feedback : «coraggio condiviso» tra le forze politiche (che trascenda calcoli e interessi) nell’isolare e neutralizzare demagoghi e autocrati potenziali; e solidità costituzionale integrata da «norme non scritte» tra concorrenti che si combattano senza mai delegittimarsi e senza «polarizzare» i conflitti.
Gli esempi analizzati sono tanti: su un versante, spiccano Paesi capaci di arginare negli anni Trenta la penetrazione nazista, come il Belgio (dove i cattolici si alleano ai rivali storici socialisti e liberali pur di battere i «rexisti» di Léon Degrelle, sostenuti da Hitler e Mussolini) o la Svezia (dove il partito conservatore Avf espelle migliaia di supporter hitleriani); su un altro, gli Stati Uniti — fatalmente nucleo privilegiato dei due studiosi — dove il sistema di «pesi e contrappesi» tra i poteri e la forbearance (tolleranza) tra repubblicani e democratici ha garantito il superamento di tante fasi critiche e protetto da figure estremiste (dal senatore Joe McCarthy a George Wallace, il governatore razzista dell’Alabama anni Sessanta).
Il punto, secondo Levitsky e Ziblatt, è che l’ascesa del trumpismo (che completa, beninteso, un processo innescato negli anni Ottanta e destinato a proseguire dopo l’addio del tycoon ) sembra aver lesionato quei guardrail istituzionali-consuetudinari, con i repubblicani rei di non aver impedito la candidatura dello stesso Trump e non aver ratificato nel 2016 in Senato la nomina alla Corte Suprema, da parte di Obama, di un giudice democratico in luogo di un repubblicano appena deceduto, così disattendendo a una prassi di forbearance secolare.
Nella sua recensione di Levitsky-Ziblatt sul «Guardian», lo storico di Cambridge David Runciman — pur ammirandone il ventaglio comparativo — ne rimarca due limiti: la ricerca di costanti della degenerazione democratica in modo troppo astratto, quasi impermeabile ai momenti storici e ai contesti socio-economici e culturali (vedi proprio paralleli come quello tra Belgio anni Trenta e America attuale); la tendenza conseguente a sopravvalutare il peso «istruttivo» dei precedenti. In effetti, nel libro troppi fattori che contribuiscono allo svuotamento della forma democratica vengono rimossi o poco sviluppati: la sempre minore incidenza della politica rispetto ad altre «forze in campo» (finanza, per esempio), fonte di disillusione e astensionismo; l’indebolimento culturale del corpo elettorale (tanto da aver fatto invocare persino una verifica del suffragio universale); l’impatto generale e specifico delle tecnologie digitali (a partire dalle stesse procedure elettorali e dalla loro alterazione); la compatibilità della democrazia con Paesi in cui, realisticamente, sia preferibile un controllo autocratico (tipo quelli «sequestrati» dal radicalismo islamico). E a tutto questo si potrebbe aggiungere, a cornice, il peso degli squilibri demografici, tra eccessi (l’umanità nel suo insieme, tanti Paesi africani e asiatici) e deficit (i Paesi occidentali) che si riverberano su diverse questioni (dal mutamento climatico ai flussi migratori) e, a cascata, sulla stessa tenuta di tante democrazie.
In ogni caso, che prolunghi la sua agonia come scheletro formale, degeneri in demagogia diffusa (la famosa rivolta anti-establishment) o si sviluppi in nuovo elitarismo (le «epistocrazie» o governi della conoscenza-competenza), la democrazia sembra chiamata a una nuova variazione adattativa. Ma è anche possibile che la nostra specie si (auto)organizzi, nel medio-lungo periodo, in forme di governo ora inimmaginabili, rendendo l’elogio paradossale di Churchill una sequenza archiviata, o almeno eclissata.
Corriere La Lettura 25.2.18
Affluenza Non ha senso parlare di partito dell’astensione: troppo varie le ragioni, «fredde» o «calde», che la motivano
Le donne frenano la fuga dalle urne
di Gianfranco Pasquino
Il partito degli astensionisti non esiste. Non è mai presente sulle schede elettorali. Non riesce a tradurre i voti che ottiene neppure in una manciatina di seggi. Nel prossimo Parlamento italiano non ci sarà nessun rappresentante del partito degli astensionisti e, dopo avere versato qualche lacrima di coccodrillo, gli eletti passeranno al business as usual (traduzione: farsi i fatti loro). Quel sistema politico continuerà a funzionare più o meno come prima, salvo cambiamenti che non saranno certamente quelli voluti dall’inesistente partito degli astensionisti e neppure dai suoi sottogruppi , le «correnti» degli astensionisti. Anche se è vero che persino i partiti esistenti sono spesso attraversati da non poche e non marginali differenze di opinioni, gli astensionisti non fanno partito poiché le loro motivazioni, calde (rabbia, rifiuto) o fredde (apatia, disinteresse) hanno un solo punto di convergenza: non andare alle urne. Ciascuno degli astensionisti ha sue proprie motivazioni su cui non cerca il consenso degli altri. Potrà farsene un vanto: «Non voto da più di vent’anni». Sbandierare orgogliosamente che «nessuno si merita il mio voto». Tentare di usarle come un’arma: «Vi delegittimo tutti/delegittimo il sistema». Oppure dolersene: «Purtroppo, non mi offrono alternative accettabili». E rattristarsene: «Ero fuori Italia per lavoro, per studio, per una vacanza prenotata»; «non riesco più fisicamente ad andare alle urne». Oppure ancora rivelando il suo isolamento sociale e geografico: «Nessuno mi viene a chiedere il voto» ; «non ho più parenti, amici e colleghi con i quali parlavamo di politica e ci convincevamo reciprocamente ad andare a votare». Questa pluralità di motivazioni, che non chiamerò «accozzaglia», coglie probabilmente tutto l’arco delle giustificazioni possibili. Mostra quanto sia superficiale, sicuramente fuorviante, sempre inutile parlare di partito degli astensionisti.
Oltre che dalle loro motivazioni, gli astensionisti sono divisi anche per istruzione e reddito, età e genere. Insomma, il non voto è ancora più problematico del voto. Eppure, come rivela la bella analisi di Dario Tuorto L’attimo fuggente (il Mulino), sappiamo molto sugli astensionisti italiani, su chi sono, su come sono cambiati nel corso del tempo, su quali novità sono emerse. Alcuni elementi sono comuni a un po’ tutte le democrazie contemporanee. In generale, le persone con livello di istruzione medio-alto e con un reddito buono votano di più delle persone meno istruite e con basso reddito, dal lavoro precario o disoccupate. I non votanti rivelano minore interesse per la politica, hanno poche informazioni e non si sentono dotati di efficacia politica, ovvero pensano di non riuscire a influenzare le scelte dei governanti. Nel passato, non solo in Italia, gli uomini votavano più delle donne, forse anche perché possedevano in misura maggiore interesse, informazione, convinzione di contare. Oggi, questo è l’elemento di maggiore novità, più visibile in Italia che altrove, sono le donne delle fasce d’età fra i 18 e i 30 anni a votare di più (o ad astenersi meno) dei loro coetanei. Fra le varie ragioni, potrebbe essere così perché le giovani donne hanno interesse, informazione politica e voglia di partecipazione che derivano dal provare sulla propria pelle persistenti discriminazioni di opportunità, di reddito, di condizioni di vita.
Le variabili personali hanno grande peso nello spingere verso il voto o l’astensione, ma contano moltissimo anche le variabili strutturali che attengono al sistema politico. Lasciando da parte l’obbligatorietà del voto, in Italia abolita nel 1993, ma ancora vigente, ad esempio, in Australia e in Belgio, le due variabili più importanti sembrano essere quelle relative ai partiti e ai sistemi di partito e alla competitività delle elezioni. Non c’è dubbio che, un po’ dappertutto, il declino dei partiti è accompagnato dalla diminuzione della partecipazione elettorale e viceversa. Dove e quando i partiti non hanno più la volontà/capacità di andare a cercare gli elettori, di convincerli e, letteralmente, di portarli alle urne, l’astensionismo trova terreno fertile. Se i partiti non offrono chiare alternative di programmi e persone, molti elettori penseranno che non vale la pena di andare alle urne. Vinca l’uno o l’altro, le loro condizioni di vita e quelle dei loro figli non cambieranno. In elezioni poco competitive, quindi, il tasso di partecipazione sarà piuttosto basso, qualche volta, come nel voto per il Congresso degli Usa, nella maggioranza dei collegi sarà molto al di sotto del 50 per cento. Esistono molti casi del genere anche in Europa. L’allarme dovrebbe riguardare non tanto la bassa partecipazione, soprattutto se abituale, quanto piuttosto l’eventuale crollo, come, ad esempio, in Gran Bretagna: dal 71 per cento del 1997 al 59 del 2001. Talvolta ci si dovrebbe allarmare anche per un’impennata di partecipazione elettorale, prodotta probabilmente da un leader populista nel contesto del declino dei partiti tradizionali.
Alla ricerca di una spiegazione «elegante e parsimoniosa» dell’astensionismo negli Usa, i politologi americani Lyn Ragsdale e Jerrold G. Rusk hanno individuato nel libro The American Nonvoter (Oxford University Press) una variabile che, da sola, sembra offrire una spiegazione ad ampio raggio e molto convincente. In particolare nelle elezioni presidenziali Usa il tasso di partecipazione elettorale è aumentato o diminuito a seconda della natura della competizione. Se e quando le previsioni indicano alta probabilità di vittoria di un candidato, la partecipazione rimane relativamente bassa. Quando, invece, le previsioni segnalano che l’elezione è fortemente competitiva e l’esito nient’affatto scontato, allora la partecipazione elettorale cresce in maniera significativa. In estrema sintesi, l’analisi storica comparata dal 1920 al 2012 di Ragsdale e Rusk conduce ad affermare che l’incertezza sull’esito riduce considerevolmente le percentuali di astensionisti e porta alle urne molti elettori che credono di avere l’opportunità di determinare l’esito voluto o di scongiurare quello sgradito. Nel contesto italiano delle elezioni di marzo, il cui esito è, anche a causa di una pessima legge elettorale, solo parzialmente scontato (nessuna maggioranza assoluta per nessuno dei tre maggiori contendenti), chissà se l’ incertezza motiverà almeno altrettanti elettori del 2013 (75 per cento) ad andare alle urne, oppure se la tendenza all’astensionismo, seppure lenta e limitata, continuerà? Chi non voterà, comunque, non conterà.
Corriere 25.2.18
Dai grandi raduni popolari alle «repliche» di oggi. Così è cambiata la protesta
di Marco Imarisio
Dai grandi raduni popolari alle «repliche» di oggi Così è cambiata la protesta di Marco Imarisio Negli anni Settanta il giudizio universale non passava per le case. «Perché in casa ti allontani dalla vita, dalla lotta, dal dolore e dalle bombe», cantava Giorgio Gaber. Sappiamo come è andata. La sconfitta del terrorismo, il riflusso, il crollo dei muri e delle ideologie. La piazza è ancora importante, ma si è trasformata nel tempo. In quell’epoca che nessuno di buon senso dovrebbe rimpiangere, la partecipazione, contarsi, il corteo di massa, muovevano quasi sempre da premesse drammatiche come gli attentati e le stragi fasciste. Erano un punto fermo in un Paese che viveva il suo momento più buio. La storia dell’Italia repubblicana è punteggiata da prove di forza popolari. Le piazze piene del 2 giugno 1946 furono il sigillo sul risultato del referendum. La manifestazione e gli scontri del 30 giugno 1960 a Genova segnarono il capolinea del governo Tambroni appoggiato dal Msi. Il lungo decennio dell’eversione e delle tensioni sociali venne scandito da manifestazioni enormi e identitarie. Fu quasi una nemesi la fine di quella stagione, chiusa da un piccolo corteo di appena 40 mila persone, ma forse erano anche meno, che sfilarono nelle strade di Torino per chiedere la riapertura della Fiat. Nel nuovo secolo c’è stata la breve parabola del movimento No global, che aveva comunque una tendenza minoritaria, perché rappresentava una parte di quella nuova generazione di sinistra che nel luglio 2001 fu costretta al ritorno a casa dalla violenza e dal sangue di Genova. Al netto delle manifestazioni contro la guerra in Iraq del 2003, il comizio del 22 marzo 2002 da due milioni di persone del leader della Cgil Sergio Cofferati al Circo Massimo contro la modifica dell’articolo 18 fu l’ultima, grande manifestazione politica della nostra epoca recente. Quelle di oggi sembrano copie sbiadite delle piazze del passato. E non solo nei numeri. Non esiste più un sentire comune di sinistra, come dimostrato dai mille distinguo in ordine sparso sull’attentato di Macerata agli immigrati, e dai cortei di ieri, a ognuno il suo. Il riaffacciarsi dei movimenti razzisti e neofascisti non è certo da sottovalutare, anche se in questi giorni è in atto una discreta opera di drammatizzazione a fini elettorali del fenomeno. Ma la protesta violenta è ormai un boomerang. Lo scorso 16 febbraio nel centro di Bologna ci sono stati duri scontri per impedire un raduno di venti militanti di Forza Nuova in una piazza irraggiungibile da chiunque. Venerdì a Torino sono state lanciate bombe carta contro gli agenti di Polizia, per fermare un comizio di CasaPound che si teneva nel seminterrato di un hotel. I due eventi «neri» non potevano certo produrre proselitismo, ma avevano l’unico valore di una prova a se stessi di esistenza in vita, fatta nell’implicita speranza che qualcuno reagisse. Le immagini che resteranno invece sono quelle dei casseur, degli agenti feriti. Quelle manifestazioni, come quella No Expo del primo maggio 2015 che devastò il centro di Milano, dominate da una estetica della violenza che sembra ineludibile come un atto dovuto, hanno l’effetto collaterale di creare un fronte contro l’intero movimento di protesta. Qualunque essa sia, a prescindere dalle sue ragioni. Perché oggi, per fortuna, da qualunque parte arrivi la violenza fa ancora paura. Nell’anno di grazia 2018 forse ci vorrebbe meno rabbia pavloviana, e più immaginazione.
Corriere 25.2.18
Grasso, leader di Leu
«Sostenere Di Maio? La vedo dura Troppi impresentabili nelle liste»
Il leader di Liberi e Uguali: noi combatteremo, c’è una enorme questione morale
di Monica Guerzoni
«Noi siamo coerenti con i principi della sinistra, il Pd li ha traditi». Pietro Grasso, leader di Liberi e uguali, in una intervista con il Corriere spiega che la sua forza politica difficilmente potrebbe sostenere un governo M5S: «Ai nostri valori non rinunciamo. Gentiloni? Da lui politiche in continuità con Renzi».
ROMA «Ho anche cantato “Bella ciao”».
Presidente Pietro Grasso, era al corteo antifascista con il Pd, ma alle urne arrivate divisi. Non le dispiace?
«L’antifascismo è un valore comune tra Liberi e uguali e Pd, che va ben oltre il centrosinistra. La divisione è sulle politiche degli ultimi anni. Noi siamo coerenti con i princìpi della sinistra, mentre il Pd li ha traditi».
Avete rinunciato a lottare uniti contro le destre per rancori personali?
«No, non c’è odio e non ci sono problemi personali. A Londra ho visto Corbyn e ci siamo trovati d’accordo su lavoro, sanità, casa, diritto allo studio. Per contrastare la destra è necessario che la sinistra faccia cose di sinistra, non scelte che vanno verso lidi di destra. Riforme come il Jobs act e la buona scuola hanno tradito la sinistra, mentre il leader laburista in Gran Bretagna ha fatto perdere consensi alla destra».
Mai al governo con il Pd?
«Nel programma e nelle parole di Renzi non c’è autocritica. E dire che bastava un segnale. Abbiamo chiesto di reintrodurre l’articolo 18 e di eliminare i superticket sanitari, ma niente. Da Nicola Zingaretti invece i segnali su mobilità, sanità e lavoro li abbiamo avuti, quindi lo sosteniamo, senza pregiudiziali».
Zingaretti sarà l’uomo del dialogo tra voi e il Pd?
«Alle Regionali certamente, poi si vedrà».
Sosterrebbe un bis di Gentiloni?
«Ha portato uno stile diverso, ha dato serenità al Paese e ai rapporti con i partiti. Ma le politiche sono state in piena continuità con quelle di Renzi, basti ricordare le otto fiducie sulla legge elettorale o il mancato voto di fiducia sullo ius soli. Se poi le politiche dovessero cambiare...».
Un governo con il M5S potrebbe mai avere i voti di Liberi e uguali?
«La vedo difficile, noi ai nostri princìpi e valori non siamo disposti a rinunciare. Ma lei ha capito cosa pensano i Cinque Stelle su Europa, immigrazione, diritti civili? Cambiano sempre idea e su troppi temi guardano a destra».
Lei vorrebbe al governo Boldrini, ma non Bersani e D’Alema. Perché?
«Questo gioco lo lasciamo fare a Di Maio, che va a presentarsi al Quirinale e viene ricevuto dal segretario generale. Non è una cosa seria, ma una forma di propaganda. Che senso ha? I tempi della Costituzione devono essere rispettati, non si può fare campagna coinvolgendo così pesantemente il ruolo prezioso e delicato del Quirinale».
Concorda con D’Alema, che ha aperto al governo del presidente?
«Se lo scopo fosse cambiare la legge elettorale saremmo responsabili, perché siamo una sinistra di governo».
La preoccupa tutta questa violenza in vista del voto?
«Mi preoccupa che ci siano forze che si ispirano al fascismo e inneggiano all’odio razziale, prosperando sul disagio e cavalcando le paure. Un atteggiamento irresponsabile e, in alcuni casi, fuori dalla Costituzione. L’antifascismo è un valore che non può essere sporcato da atti violenti e la violenza va condannata, sempre. La manifestazione di Roma è stata una grande lezione di democrazia».
La questione morale è un tema impopolare?
«C’è un’enorme questione morale e Leu la combatterà, in Parlamento e nel Paese. Per me è un tema centrale, le nostre sono liste pulite. Siamo gli unici ad aver parlato di mafia, corruzione, evasione fiscale. Lunedì a Napoli lo ribadirò con forza, il costo dell’illegalità cade tutto sui cittadini. Vedere politici pronti ad accettare mazzette per il traffico di rifiuti in Campania è inaccettabile. Ogni giorno emerge un impresentabile nelle liste del M5S. Chi vota Cinque Stelle vota anche loro, che faranno gola per ogni inciucio futuro».
Lei sogna un grande partito unico della sinistra. Non c’è il rischio che in Parlamento Mdp e Si si dividano?
«Oggi Speranza, Fratoianni e Civati fanno una manifestazione insieme a Firenze. Siamo insieme perché abbiamo una visione comune del Paese e dal 5 marzo inizierà il percorso per fondare un nuovo partito unico. Non saremo soli».
Leu viaggia ben al di sotto delle due cifre?
«I risultati li vedremo il 5 marzo e saranno una sorpresa. Abbiamo girato tutta l’Italia, incontrato migliaia di persone e tanti mi hanno detto “ora so per chi votare”. C’è bisogno di un’autentica forza di sinistra, che si batta per l’uguaglianza».
Ha sentito le critiche alla sua capacità di allargare e intercettare consenso?
«Berlusconi, Salvini, Renzi e Di Maio vanno in tv a promettere cose mirabolanti, fomentare cinicamente le paure, proporre soluzioni irrealizzabili. Illusioni alimentate da bugie, dietro le quali poi emergono episodi di corruzione, affarismo, familismo».
Lei, invece?
«Io non sono e non sarò mai così. È arrivata l’ora della serietà e della concretezza, per questo mi sono impegnato con spirito di servizio. È tempo di ricostruire la sinistra, radicale nei contenuti e con una cultura di governo».
Corriere 25.2.18
Reportage dalla Siria L’armata di Putin
«L’attacco Usa, 100 russi morti» La guerra ombra vista dal fronte
La testimonianza sulle bombe di Deir ez-Zor
dall’inviato a Deir ez-Zor Lorenzo Cremonesi
L’ attacco americano è cominciato con precisione micidiale verso le dieci della sera del 7 febbraio ed è durato quasi ininterrottamente sino all’alba del giorno dopo. Una pioggia di missili e bombe lanciate da jet e droni che non ha lasciato scampo ai soldati di Bashar Assad assieme ai loro alleati russi e alle milizie sciite, tra cui diversi gruppi scelti dell’Hezbollah libanese. Pare che qualcuno tra loro con le prime luci del nuovo giorno abbia provato a sventolare bandiera bianca dal terreno sconvolto dalle esplosioni, i mezzi in fiamme (tra cui una ventina di carri armati) e i resti dei cadaveri scomposti. Ma la zona che abbiamo visto anche noi da lontano è caratterizzata da grandi colline di terra sabbiosa, qualche fattoria isolata e campi coltivati delimitati da spazi alberati che declinano dolcemente sino alle rive dell’Eufrate, qui già largo e maestoso. La visuale è difficile.
«Sapevamo che gli americani avrebbero attaccato. Erano settimane che parlavamo con i loro comandi. Il piano era stato architettato a dicembre, quando le truppe pro-Damasco hanno attraversato l’Eufrate sul ponte di Deir ez-Zor da sud verso nord attestandosi nell’area del villaggio di Salahia, larga 15 chilometri e profonda 3. Una chiara violazione delle intese non scritte tra noi e loro: nessuno avrebbe dovuto oltrepassare il fiume per invadere il campo degli altri. Ma hanno approfittato del fatto che eravamo occupati a combattere con quel che resta dei militanti di Isis, che scappano verso la nostra sponda perché noi facciamo prigionieri e i filo-Bashar no. La cosa che ci ha colpito è stato scoprire l’alto numero di russi tra i cadaveri. Non li abbiamo ancora raccolti tutti. Valutiamo siano tra i 100 e 150 su circa 300 morti. Gli altri sono per lo più Hezbollah», ci racconta Polat Jan, che è un alto responsabile dello Ypg (le forze militari curde siriane) comandante per il settore di Deir ez-Zor. Ieri il ministero degli Esteri di Mosca ha ammesso che «diverse decine» di russi sono stati feriti in combattimento.
Così, in circa tre ore di intervista, questo ufficiale 37enne originario di Kobane fornisce dettagli inediti di quello che la stampa americana ha platealmente bollato come «lo scontro militare più grave tra Stati Uniti e Russia dalla fine della Guerra fredda» e probabilmente dai tempi del conflitto in Vietnam. Per raggiungerlo abbiamo percorso circa 350 chilometri da Kobane, attraverso Raqqa (l’ex capitale di Isis) e sino a questa zona, dove soprattutto curdi e americani stanno cercando di cancellare una volta per tutte le ultime province del «Califfato». Il suo racconto è in armonia con le ricostruzioni che sia il Washington Post che il New Yorker hanno proposto di recente. «Non ci è chiaro quanti russi tra i caduti siano mercenari contractor della compagnia privata Wagner di Mosca, oppure soldati regolari. Certo è che hanno uniformi simili e le stesse armi, meno sofisticate di quelle degli americani, ma certamente ottime per i livelli delle forze locali», dice l’ufficiale. È però chiaro cosa volessero ottenere: impadronirsi della grande raffineria «Coneco», gli oleodotti vicini e posizionarsi per prendere i maggiori pozzi petroliferi e di gas di tutta la Siria che da sempre sono la ricchezza di Deir ez-Zor. «Erano arrivati a 300 metri dalla Coneco. Noi curdi avevamo perso quattro posizioni nelle ore appena precedenti l’attacco americano».
Al Pentagono chiariscono ufficiosamente che il blitz è avvenuto nel quadro di una strategia sia Usa che russa di «tastare» l’avversario. «I russi passando il fiume miravano a capire quanto noi fossimo disposti a sostenere i curdi. Il nostro attacco poteva essere anche di minore intensità e avrebbe sortito il medesimo risultato di costringere le colonne in avanzata a ritirarsi. Ma era importante lanciare un segnale forte», spiegano i comandi Usa alla tv Nbc.
Al momento tutte le infrastrutture energetiche della zona sono bloccate. Isis le ha danneggiate l’estate scorsa, dopo che gli era diventato impossibile utilizzarle. Ma la compagnia nazionale petrolifera siriana ne avrebbe già promesso una parte dei proventi a Yevgeny Prigozhin, quello stesso oligarca russo dai trascorsi criminali oggi accusato negli Stati Uniti di avere interferito nella campagna elettorale americana del 2016 con la «guerra delle false informazioni» e soprattutto proprietario della «Wagner». Circa 3.000 suoi mercenari sarebbero ormai da tempo impegnati in Siria con stipendi mensili sui 3.000 dollari, molto simili a quelli che paga ai suoi in Ucraina e in Africa. Un impegno cresciuto col tempo. Putin sa bene che dopo il disastro afghano degli anni Ottanta, dove l’esercito russo perse migliaia di uomini e la campagna sanguinosa in Cecenia, la sua opinione pubblica è poco propensa ad accettare le avventure militari all’estero. Da qui il suo plauso all’attività di Prigozhin, esperto nel reclutare ultranazionalisti e veterani dei corpi speciali. Nel 2015 vennero inviati a rafforzare la guardia alle basi aeree e della marina russa nelle zone di Tartus e Latakia. Ma poi nel 2016 e 2017 sono stati in prima linea nella battaglia di Palmira. Le pattuglie dello Ypg li hanno visti stazionare attorno alla loro enclave di Afrin, prima che Putin ne ordinasse il ritiro quando il 20 gennaio la Turchia ha lanciato l’offensiva militare in chiave anti-curda. «A noi è sembrato assurdo che i russi abbiano deciso di attraversare l’Eufrate. Un vero suicidio per chi conosceva il terreno e le regole che ci eravamo dati. Ci è parso ovvio che gli ordini arrivassero da Mosca. A nostro avviso, il massacro dei russi resta un episodio centrale del braccio di ferro tra Mosca e Washington in Siria».
Corriere 25.2.18
Gli archeologi italiani riportano alla luce la «Pompei africana»
di Michele Farina
Si scava per ritrovare il porto sulla Via degli Aromi
S comparsa secoli fa, «per una gigantesca inondazione forse accompagnata da un terremoto». E ora un tesoro alla volta, metro dopo metro, nel deserto dell’Eritrea torna alla luce una perla leggendaria del mondo antico.
Adulis è il nome greco dato al porto del regno di Axum, grande emporio Africa-Europa sulle rive del Mar Rosso, punto cruciale sulla Via degli Aromi. «Una straordinaria città di pietra, in una parte del pianeta dove è raro trovarne» racconta orgogliosa Serena Massa, docente all’università Cattolica di Milano e direttrice scientifica della missione italo-eritrea che guida questo progetto di riscoperta.
La stagione degli scavi (a sei km dal mare) è appena finita, per via del caldo si riprenderà a fine anno. E’ tempo di studiare e godersi le scoperte, fare l’esame al carbonio sugli scheletri ritrovati, tenendo conto che «siamo solo all’1% del lavoro». Fango e limo hanno ricoperto tutto. Questo rende difficile progredire ma «è anche una fortuna: la fine repentina di Adulis, che ha portato gli storici a tessere il paragone con Pompei, ha preservato le sue bellezze».
Scoperti finora i resti di tre chiese cristiane del V-VI secolo d.C.: «E’ stupefacente — commenta Serena Massa — ritrovare chiese bizantine oltre i confini dell’Impero, così splendidamente decorate. Un segno di quanto fosse connesso il mondo di allora».
La terza basilica è stata ritrovata proprio quest’anno. «Non abbiamo ruderi in elevazione — racconta Massa — E dunque ci basiamo sulle carte antiche». E sui taccuini del mercanti: il monaco-commerciante del VI secolo Cosma Indicopleuste descrive Adulis, «dove si potevano trovare corni di rinoceronti e zanne di elefante, cannella, spezie e i carapaci di tartaruga che finivano per adornare le case degli aristocratici romani».
Oggi, accanto ai campi di mais dove contadini eritrei praticano un’agricoltura di sussistenza, dalla terra affiorano marmi antichi che venivano da Bisanzio, «alcuni segnati con la stessa firma che si ritrova nella Santa Sofia di Costantinopoli», decorazioni «della più raffinata cultura bizantina del VI secolo» fatti arrivare per la «compagine cosmopolita» che allora prosperava in città.
Da quelle pietre, in Africa, emerge l’idea di un mondo Nord-Sud «che aveva rapporti molto più stretti di quanto potremmo immaginare», dice la direttrice Massa. Sul campo, con 5 litri giornalieri di acqua potabile a testa fatta arrivare da lontano, una decina fra archeologi e architetti italiani (all’avventura collabora anche il nostro ministero degli Esteri): i restauratori del Politecnico di Milano, gli esperti dell’Orientale di Napoli e del Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana accanto a colleghi e studenti dei musei di Asmara e Massaua, «senza i quali il progetto non andrebbe avanti». Con loro si danno il cambio (turni di due settimane) 40 operai «forniti» dal governo, ragazzi e veterani della guerra d’indipendenza. L’anno prossimo si spera che Asmara dia il via libera all’uso di un escavatore, per accelerare le operazioni. C’è una città sepolta da riportare in superficie.
«I turisti già cominciano ad arrivare», dice la dottoressa Massa. Da una parte i turisti, dall’altra i migranti. Chissà cosa scriverebbe sul taccuino il monaco-mercante Cosma, giungesse oggi sul confine eritreo. Da cui arrivano come frecce ragazzi in fuga, non cannella e tartarughe.
Corriere 25.2.18
Congelata la legge polacca sulla Shoah
La Polonia ha deciso di congelare la controversa legge sulla Shoah, che prevede pene fino a tre anni di carcere per chi associ l’Olocausto alla nazione polacca per esempio parlando di «campi di sterminio polacchi». Lo riferisce il Jerusalem Post che cita come fonte il ministero della Giustizia di Varsavia. Una delegazione del governo polacco sarà nei prossimi giorni in Israele per concordare una versione emendata di questo provvedimento voluto dal governo nazional-conservatore di Morawiecki. La nuova norma, che nelle intenzioni di Varsavia dovrebbe difendere la verità storica ma traduce in legge pericolose tentazioni revisioniste, ha sollevato le proteste di Israele, Ue, Stati Uniti che hanno messo in guardia dal tentativo di «riscrivere la Storia». Ieri Donald Tusk, già premier polacco e oggi presidente del consiglio Ue, è tornato ad avvertire Morawiecki — che nei giorni scorsi aveva «parlato di responsabilità degli ebrei» — sulle conseguenze di questi «eccessi antisemiti»: «La Polonia sta perdendo la sua reputazione agli occhi del mondo» ha detto.
Corriere 25.2.18
Le due aggressività dell’uomo
Evoluzione Omicidi, guerre, stalking: è la forma «proattiva». Scatti d’ira e raptus per ansia o paura: è la forma «reattiva»Perciò aveva ragione Hobbes (siamo violenti per natura) ma anche Rousseau (siamo buoni per natura, diventiamo violenti dopo)
Le due aggressività dell’uomo
di Giuseppe Remuzzi
Evoluzione Omicidi, guerre, stalking: è la forma «proattiva». Scatti d’ira e raptus per ansia o paura: è la forma «reattiva»Perciò aveva ragione Hobbes (siamo violenti per natura) ma anche Rousseau (siamo buoni per natura, diventiamo violenti dopo)
Le due aggressività dell’uomo
L’essere aggressivo (o violento se preferite) è parte della natura umana? Forse sì e avrà quasi certamente a che fare con l’evoluzione. Vediamo come. Ammettiamo per un momento che fossero i più violenti a prevalere sugli altri; così si sarebbero selezionati — e trasmessi alle generazioni successive — i geni associati all’aggressività, mentre quelli degli individui più miti col tempo si sarebbero persi. Ma potrebbe essere successo anche il contrario: che fossero i più violenti a uccidersi fra loro (cosa peraltro del tutto plausibile): questo avrebbe selezionato per lo più i geni di chi è meno portato ad aggredire.
Ma così siamo al punto di prima, l’uomo è per natura violento o no? La risposta a una domanda tanto semplice non è per nulla scontata e la scienza finora non ci ha proprio aiutato. Ma forse qualcosa si muove: in un lavoro pubblicato il 9 gennaio negli Stati Uniti sulla rivista «Proceedings of the National Academy of Sciences» (Pnas), l’autore, Richard Wrangham, sostiene che il dibattito su questi temi sia stato viziato dal fatto che filosofi, sociologi e antropologi in passato partivano dal presupposto che tutte le violenze fossero uguali.
Non è affatto detto che le cose stiano così, ci potrebbero essere diversi tipi di violenza, e allora alla domanda se l’uomo sia naturalmente violento o lo diventi, una prima risposta potrebbe essere: «Dipende dal tipo di violenza di cui parliamo». Le teorie in voga fino a poco tempo fa facevano comunque riferimento a una diatriba fra filosofi piuttosto antica e che è sempre stata presa per buona e su cui si sono costruiti tutti i ragionamenti successivi.
Prima ancora di Darwin, Thomas Hobbes pensava che gli uomini fossero nient’altro che animali e come tali naturalmente violenti e si rendeva necessario porre un freno alle loro tendenze distruttive cercando di tenerle a bada in qualche modo; questo è stato possibile, nel corso dell’evoluzione, grazie a condizionamenti culturali sempre più sofisticati e ancora di più al fatto che la società puniva i violenti, ed è stato così fin dai tempi più remoti. Rousseau, al contrario, sosteneva che gli uomini fossero d’indole pacifica, resi eventualmente aggressivi dalle circostanze, quelle che derivavano dalla modernità come per esempio la condizione sociale, la sovrappopolazione, certe ideologie, e forse ancora di più la disponibilità nel tempo di armi sempre più sofisticate e tecnologia che uccide. Uno si sarebbe aspettato che dopo Darwin filosofi e scienziati avrebbero trovato il modo teorico e perché no, magari anche sperimentale, di riconciliare due posizioni tanto lontane.
Nulla di tutto questo. Evoluzionisti erano Thomas Henry Huxley e Peter Kropotkin, manco a dirlo uno dalla parte di Hobbes e l’altro seguace convinto delle idee di Rousseau; ne nascono due scuole di pensiero, da una parte quella che si chiamerà di Hobbes-Huxley e dall’altra il paradigma di Rousseau-Kropotkin. E si va avanti così per anni fino ad arrivare a Raymond Dart (cui dobbiamo la scoperta dell’Australopiteco) che scriveva «siamo carnivori e cannibali, ammetterlo è ripugnante ma è così ed è la nostra mente che non può sottrarsi a una propensione naturale alla violenza». Insomma quello che ci porta a uccidere è una spinta propria della natura umana che potrebbe anche essere servita ai nostri antenati per sopravvivere e a noi per arrivare fin qui.
L’idea di Dart è tutt’altro che infondata. Konrad Lorenz in un libro molto popolare sull’aggressività pubblicato nel 1962, aveva fatto notare come solo ratto e uomo, fra tutte le specie animali, uccidono i loro piccoli. Ma allora aveva ragione Hobbes, siamo una specie violenta tenuta a freno dalle regole del vivere civile e non già come sostenevano Rousseau e Kropotkin gente pacifica corrotta dall’organizzazione della società. Forse, ma quello che Lorenz non sapeva o di cui non aveva fatto in tempo ad accorgersi, è che anche gli scimpanzé — i più vicini a noi fra i primati non-umani — sono violenti al punto di uccidersi fra loro.
È proprio confrontando il comportamento degli scimpanzé con quello dell’uomo e poi con quello di tutti gli altri animali che il lavoro di «Pnas» avanza un’ipotesi suggestiva: le due teorie quella di Hobbes-Huxley e quella di Rousseau-Kropotkin potrebbero essere riconciliate considerando semplicemente che c’è aggressività e aggressività. In una parola, per certi versi i nostri comportamenti assomigliano a quelli degli scimpanzé, in altre circostanze ci comportiamo come tutti gli altri animali. Qualche esempio? Gli scimpanzé ogni tanto organizzano imboscate nei confronti dei loro simili senza essere stati in alcun modo provocati, per lo più quando sono in tanti e quando sono sicuri di avere la meglio. Wrangham chiama questo tipo di aggressività (ma il termine non l’ha inventato lui) proactive , è quel tipo di violenza che si esercita senza una vera ragione e, ancora più importante, è sempre violenza premeditata. La cosa che colpisce di più è che l’aggressività proactive è propria degli scimpanzé e dell’uomo ma salvo che per i bonobo nessun’altra scimmia e nessun altro animale è capace di aggressività proactive . Nell’uomo forme di proactive aggression sono, per esempio, il bullismo e poi quello che ormai tutti chiamano stalking , ma anche l’omicidio, quello premeditato che uno compie da solo o in gruppo. Si tratta di forme di violenza ingiustificata che nell’uomo sono anche più frequenti e più violente di quanto non siano negli scimpanzé o nei bonobo (vicini anche loro agli scimpanzé e che come gli scimpanzé hanno un antenato comune con l’uomo vissuto fra 6 e 10 milioni di anni fa).
C’è poi un altro tipo di aggressività, quella «reattiva», che esplode di colpo, in rapporto a stati d’ansia, frustrazione, paura; questa dipende da un’attivazione repentina del sistema nervoso simpatico che la corteccia corticale non riesce a controllare o per lo meno non del tutto. All’uomo capita quando ci si comincia ad insultare per motivi anche futili, succede al bar per esempio oppure alla guida di un’auto, poi l’alterco degenera e si viene alle mani; forme di aggressività reattiva sono anche le violenze domestiche e i delitti passionali. L’aggressività reattiva — che al contrario dell’altra non è mai premeditata — l’uomo la condivide con tutti gli altri animali; è ben noto che non c’è animale che non diventi violento quando deve competere con gli altri per il cibo per esempio o per il partner o quando difende i piccoli o quando è costretto a lottare per marcare il suo territorio. Capita anche agli scimpanzé? Certo e loro, quanto ad aggressività reattiva, sanno essere molto più violenti degli uomini. «Immaginate — scrive Martin Daly nell’editoriale che accompagna il lavoro di “Pnas” — che vi chiudano in un aereo con dieci scimpanzé; cosa pensate che succederebbe? Ve lo dico io, nessuno di voi arriverebbe a destinazione con le dita delle mani e dei piedi ancora attaccate: gli scimpanzé sono talmente aggressivi che vi morsicherebbero dappertutto al punto da staccarvi i lobi dell’orecchio». Si tratta di aggressività reattiva, scatenata in questo caso dalla paura dell’altro, che negli scimpanzé è spiccatissima, mentre lo è molto meno nell’uomo.
Ma perché dovrebbe essere così importante, come sostiene Wrangham, distinguere fra i due tipi di aggressività e farlo comparando le scimmie all’uomo? Intanto per capire come ci siamo arrivati nel corso dell’evoluzione; dall’antenato comune scimpanzé, bonobo e uomo hanno preso l’aggressività proattiva che come abbiamo visto hanno solo loro e nessun altro animale. L’aver capito però che noi superiamo sia scimpanzé che bonobo nell’aggressività proattiva mentre siamo assai meno inclini di loro in quella reattiva dimostra che le due forme di violenza si sono evolute in modo relativamente indipendente e questo è certamente un passo avanti; anche se ancora non sappiamo come questo sia potuto succedere.
Non solo, ma aggressività proattiva e reattiva sono sostenute da meccanismi neurologici diversi, coinvolgono sistemi ormonali e mediatori chimici specifici, e sono controllate da geni diversi.
Chi ha avuto la pazienza di seguirmi fin qui potrebbe pensare che siano solo curiosità accademiche per quanto interessanti. No, c’è un risvolto molto pratico. Anche se aggressività proattiva e reattiva possono coesistere nello stesso individuo, è più frequente il caso di persone con forme di aggressività prevalentemente proattiva o prevalentemente reattiva e saper distinguere tra questi fenotipi sarà prezioso per affrontare il problema delle basi biologiche di fenomeni quali bullismo, violenza domestica, omicidi, stragi di massa e ancora di più guerre. E a prevedere i comportamenti e la risposta ai farmaci; per esempio gli adolescenti con forme di aggressività proattiva ricadono più spesso negli stessi comportamenti, tendono a non trarre vantaggio dalle cure, hanno più spesso disturbi psichici; le manifestazioni di aggressività proattiva poi raramente si riducono in età adulta. Teniamo conto che è proprio quest’ultima la forma di violenza più pericolosa per la società e purtroppo è quella che conosciamo di meno anche perché non ci sono modelli animali; e un’altra cosa che si dovrà capire è perché aggressivi e proattivi sono soprattutto i maschi.
Serviranno altri studi, nel frattempo il lavoro di Wrangham ci offre l’opportunità di riconciliare la teoria di Hobbes con quella di Rousseau: la forte tendenza dell’uomo all’aggressività proattiva infatti ricorda le idee di Hobbes-Huxley mentre la modesta propensione ad aggressività reattiva (se comparata a quella degli scimpanzé) riflette le idee di Rousseau-Kropotkin.
C’è di più: resti fossili che risalgono a 200 mila anni fa dimostrano che nell’uomo l’impronta anatomica del cranio associata all’aggressività era ridotta rispetto alle epoche precedenti, e questo fa pensare a eventi — che risalgono probabilmente alla seconda metà del Pleistocene — capaci di tenere sotto controllo l’aggressività reattiva.
Quanto all’aggressività proattiva è probabile che scimpanzé e uomini ne abbiano tratto vantaggi evolutivi, cioè più territori conquistati (con le guerre per esempio), maggiori risorse e nei tempi più recenti più soldi e più benessere per chi vinceva.
L’aggressività reattiva invece sarebbe stata tenuta sotto controllo dall’organizzazione della società soprattutto attraverso il ricorso alla pena capitale che era già in voga 60 mila anni fa, prima che l’Homo Sapiens lasciasse l’Africa per avventurarsi in Europa e nelle Americhe.
A questo punto è perfino possibile ipotizzare che la pena capitale fosse servita per eliminare gli individui più aggressivi selezionando geneticamente chi era meno portato alla violenza. Si sapeva da tempo che i nostri antenati eliminavano gli individui che violavano le regole, adesso si scopre che succedeva migliaia e migliaia di anni fa prima ancora che comparisse l’Homo Sapiens. La teoria della pena di morte per eliminare i più aggressivi però si scontra col fatto che chi uccideva gli altri, era a sua volta aggressivo, e molto; e questa non è aggressività reattiva, ma proattiva perché pianificata con cura. Complicato vero? Sì e c’è ancora moltissimo da capire, si tratta di comparare l’uomo con gli animali più simili a lui e farlo con modelli che tengano conto dei reperti archeologici e delle informazioni che verranno dallo studio dei geni (oggi lo si può fare partendo persino da reperti fossili).
Per adesso comunque alla questione da cui siamo partiti, se l’uomo sia naturalmente violento o se lo diventi per i condizionamenti della società, la risposta giusta è sì e no: l’uomo è un animale dotato di violenza proaggressiva, questo è sicuro e di questi tempi lo vediamo quasi ogni giorno; quanto ad aggressività reattiva lo siamo meno di tutti gli altri animali e anche meno degli scimpanzé ma il perché non lo sappiamo ancora.
Corriere La Lettura 25.2.18
Pink Floyd , e il male se ne vaPsichedelica, certo. E anche di più: la band inglese ha insegnato che dalla sofferenza si può risorgere
di Massimo Zamboni
Le note sospese di Echoes che introducono l’entrata si accompagnano alla foto in bianco e nero di uno sconosciuto a fianco di un furgoncino Bedford; un classico mezzo di trasporto anni Sessanta per musicisti all’esordio, stipato di strumenti. Una fascia bianca personalizza la fiancata e cercando attentamente si potrebbe leggere il nome del gruppo: Tea Set. Molto british ma decisamente anonimo. Nessuno li conosce, né ha mai conosciuto i nomi usati dal gruppo in precedenza: Sigma 6 nel 1963, The Abdabs nel ’64, Leonard’s Lodgers sempre nel ’64. Non si potrebbe pensare da questi pochi indizi di essere alla presenza di un’esperienza artistica senza eguali e che già dall’anno successivo assumerà un nome che diverrà incancellabile nel panorama rock. Sarà il cantante Syd Barrett a scovare quel nome, ispirandosi ai due bluesman preferiti, Pink Anderson e Floyd Council. Siamo nel 1965, nascono i Pink Floyd, e basta fermarsi a osservare i volti, rapiti più che curiosi, dei visitatori del Macro di Roma che ospita la mostra loro dedicata per capire a cinquant’anni da allora con quanta forza la loro opera abbia schiuso mondi sconosciuti a più di una generazione.
Sia detto per inciso che il Macro appare una splendida location per questa The Pink Floyd Exhibition , tanto che resta difficile capire dove termini la mostra e dove cominci invece la struttura museale, i cui ambienti, dai bagni agli ascensori al guardaroba all’auditorium, paiono emanazioni dell’immaginario praticato dalla band inglese.
Benvenuti in uno straniamento collettivo che dura un paio d’ore, favorito dall’essere incapsulati in un mondo di cuffie per l’ascolto, ed è un piacere ritrovarsi parte di una folla affascinata e condotta verso le medesime sensazioni. Che non sono di consumo o di facciata come si potrebbe temere quando si parla di rockstar irraggiungibili, perché i reperti esposti sanno raccontare senza infingimenti o esagerazioni; anzi, alimentando un senso di complicità che lega chiunque abbia amato le loro canzoni.
La mostra percorre le loro vicende, da quando, compagni di infanzia — come già avviene a Beatles e Rolling Stones — e successivamente studenti di architettura, per un pugno di anni formano e sciolgono una serie di gruppi musicali cercando una svolta alla loro urgenza artistica. La svolta si chiamerà Syd Barrett, primo cantante, chitarrista e compositore del gruppo. «Saremmo stati un gruppo blues senza Syd, uno dei tanti gruppi che suonano Louie Louie », ammette con insospettabile franchezza Roger Waters. Proprio Barrett porta con sé un carico di freschezza e follia capace di indirizzare completamente i primi due album e gettare le basi per gli imprevedibili sviluppi futuri.
C’è tutta la stagione londinese e giovanile dentro alle prime canzoni, dagli abiti alla rivolta ai nuovi strumenti alle frequentazioni con l’intera scena artistica. Incideranno il primo lp agli Abbey Road Studio, mentre nella sala accanto un gruppo di ragazzi già famosissimi sta registrando un album ambizioso che dedicheranno a un certo Sgt. Pepper. Nonostante l’immediato successo di canzoni come Arnold Layne o See Emily Play comincia ad affermarsi come loro marchio di fabbrica il rifiuto di rinchiudersi nei tre minuti di un singolo radiofonico, privilegiando invece composizioni lunghe dove l’improvvisazione prende il comando. Accompagnano le loro apparizioni con un set luminoso che, sviluppando intuizioni immaginifiche mutuate dall’illustratore Aubrey Beardsley o da Lewis Carroll le mescola alle suggestioni amplificate dall’Lsd, verso territori inesplorati. Le didascalie della mostra insistono spesso su una parola, idiosincrasia , per definire le liriche stralunate di Barrett che si aprono verso universi popolati da creature bizzarre, gatti indiavolati, spaventapasseri e gnomi. Musa del gruppo, Barrett, fino a che un interesse troppo prolungato per le tentazioni del periodo e una vita mentale senza riguardi al prezzo da pagare porteranno allo scoppio la sua capacità di tenuta. « P ression blew his brains out », la pressione gli spegnerà il cervello, raccontano i compagni.
A tre anni dall’esordio Barrett è fuori, ma il chitarrista e cantante che viene arruolato per affiancarlo prima e sostituirlo a breve si dimostra da subito impareggiabile. Con l’arrivo di David Gilmour i Pink Floyd trovano l’assetto che li consegna alla storia. Otto album nei primi sei anni, l’ottavo si chiamerà The Dark Side of the Moon (1973): 50 milioni di copie vendute, 3 anni consecutivi nelle classifiche e ancora oggi, a più di 40 dall’uscita, il più venduto tra i classici del rock.
Un pubblico di tante età affolla le sale, dove si susseguono interviste, manifesti, commenti, memorabilia, ma soprattutto si costituisce il senso pieno di un’esperienza che potrebbe ancora oggi scombinare le coordinate di qualsiasi musicista. Le foto esposte e i filmati che scorrono restituiscono la bellezza dei loro volti non contraffatti, che vediamo invecchiare senza paura nel percorso della mostra e chiariscono il carattere unico delle loro personalità, quasi aliene in un mondo musicale che ha sempre affiancato il talento con il glamour esibito: nulla possiedono della fantastica strafottenza di un Jim Morrison, di un Hendrix, nessun front man che si esponga fisicamente, nulla sappiamo delle loro vite private, mai sono entrati in cronache rosa o nere. Superato l’attimo sgargiante degli inizi, i loro vestiti si accodano alla media, diventano mimetici rispetto a una normalità che li rende splendidi. Una t-shirt nera per Waters, jeans sdruciti per gli altri, non per moda, ma per lavoro . « After all, we’re only ordinary men » cantano in una canzone straordinaria, Us and Them , «alla fine siamo solo uomini ordinari».
A quest’ordinarietà è dedicato uno dei filmati autenticamente più commoventi: il dialogo a distanza tra i due grandi duellanti del gruppo, Waters e Gilmour, entrambi chiamati in separata sede a interpretare davanti a una telecamera uno dei loro capolavori, Wish You Were Here . Ognuno nello studio casalingo, una chitarra acustica, voce roca e trattenuta per Waters, voce che non invecchia per Gilmour: due anziani che si confrontano e si integrano alla perfezione, una stima sottesa che trascende qualsiasi possibile incomprensione del passato. Anche la strumentazione esposta assume valore più che documentale. Strumenti che diventano ideali, per i suoni che hanno generato, il basso Fender Precision di Waters o i suoi amplificatori Web usati per Live at Pompei , la consunta Fender Esquire usata per Money o Wish You Were Here (ma volti ipnotizzati osservano Gilmour suonare Shine on You Crazy Diamond con questa stessa chitarra esposta ai nostri occhi), la Fender Strato V57, la Fender Duo 1000 a doppio slide acquistata durante il tour negli Usa del 1970. Da queste chitarre sono state estratte le note definitive del rock novecentesco. E le batterie di Nick Mason, le tastiere Rhodes di Richard Wright, i sintetizzatori Prophet, il Vcs3 che rivoluzionerà gli arrangiamenti di The Dark Side of the Moon .
Ancora Gilmour ci spiega come si usa un Vcs3: si suona un sequenza di note con un dito, poi si accelera la scansione, basta fare così, «tutto qui, in sostanza». Impossibile non confrontare i numeri generati dal successo di quell’album con le sue parole pacate. E il fascino di Richard Wright che racconta in che modo nasce una canzone come Breathe (in the Air ) : «Gli altri dicevano che mancavano ancora un po’ di minuti per completare The Dark Side , allora ho buttato giù questi due accordi sul piano [li suona, ndr ] poi dovevo ritornare al primo accordo e c’è un modo convenzionale di farlo [lo ascoltiamo] ma mi è tornato in mente un accordo che avevo sentito in Kind of Blue di Miles Davis; ho pensato di metterlo lì in mezzo, e ha funzionato». Una facilità di approccio che ha una parentela molto più ravvicinata di quanto si possa immaginare con stilemi musicali del periodo immediatamente successivo, il punk in primo luogo, che al contrario proprio nell’esibito disprezzo per il gigantismo floydiano trova il proprio sfogo. E così si sorride alla foto del cantante dei Sex Pistols, John Lydon, che indossa la t-shirt con la scritta I hate Pink Floyd . Nessuna possibile vicinanza quanto a ricerca e composizione, ma certo lo scenario dei testi di Waters affronta la desolazione del mondo con un estremismo e una lucidità che qualunque guerriero con la cresta e la giacca di cuoio invidierebbe. E proprio lo stesso Lydon confessa, nella didascalia che lo riguarda, il suo amore segreto per i Floyd.
Altro incantamento lo riserva la sala dedicata all’ascolto di The Great Gig in the Sky , lì dove lo schermo propone l’ologramma con il prisma di The Dark Side of the Moon che rotea nella notte di una galassia spinto dall’improvvisazione solista di Clare Torry. Un ottimo momento per sedersi, pensare a ciò che si è visto, dare ordine a suoni e immagini che sono depositati come patrimonio collettivo, ben oltre l’infiammazione da fan. Si prosegue sovrastati dalle strutture delle esibizioni live successive, dai Marching Hammers , i martelli che marciano, e dagli enormi burattini gonfiabili che riempiranno cielo e palco nel tour di The Wall ; si entra nel mondo orwelliano di Animals che consegna al visitatore pecore sospese, «Algie» il maiale volante, il frigorifero con i vermi, la inflatable nuclear family composta da «padre, madre, divano, due figli e mezzo» nella descrizione che ne fa Waters.
Tutta quest’architettura iconografica rimanda a una sigla precisa, e tra i grandi meriti della mostra c’è proprio questo rimarcarlo: Hipgnosis Studio, di Storm Thorgerson e Aubrey Powell. Sono loro a inventare letteralmente l’immagine dei Pink Floyd, dando corpo alle fantasie del gruppo per confezionare alcune tra le copertine più leggendarie della storia del rock. Il prisma di The Dark Side , gli uomini d’affari in fiamme di Wish You Were Here , i 700 letti da ospedale sulla spiaggia («non chiedetemi — dice Thorgerson — quanto è costato questo scatto, mi vergogno a dirlo»), il maiale volante sulla centrale elettrica di Battersea («Abbiamo rischiato di causare il più grande disastro aereo della storia — racconta il batterista Nick Mason — quando il maiale è sfuggito dal controllo e si è infilato nello spazio aereo di Heathrow»), le teste metalliche di The Division Bell . C’è tutto questo nelle sale del Macro, oltre a testi manoscritti, faraonici progetti di palco, il manifesto del contestato concerto su palcoscenico galleggiante a Venezia nel 1989 per la festa del Redentore. Fino a un ultimo ritaglio di giornale che si interroga sulla popolarità universale del gruppo; del tutto fuori norma in effetti, i Floyd non compongono canzoni d’amore né storie quotidiane in cui identificarsi né emergono come supereroi. Se la psichedelia iniziale li lega a una scena musicale facilmente identificabile, le tematiche seguenti scavano in parole come follia, avidità, alienazione, imprigionamento, vecchiaia, alterazione, morte.
Eppure in qualche modo misterioso — riflette il critico che recensisce — le loro canzoni sono «rassicuranti», trovano il modo di farci sentire che c’è sempre una soluzione nel dolore. Con questi pensieri si accede alla Performance Zone conclusiva dove si tolgono le cuffie, ci si accoccola a terra al buio davanti a un grande schermo per assistere alla reunion della band al Hyde Park nel 2005, in occasione del Live 8 , dopo 24 anni di separazione. Dove 4 musicisti più che adulti sanno che ipnotizzeranno 200 mila persone allo stadio e milioni di ascoltatori sparsi su cinque continenti. Li affrontano in camicia azzurra e i mocassini ai piedi, un paio di t-shirt da poco, l’orologio al polso, rockstar planetarie cui basta intonare Breathe per zittire il mondo. Quando al Macro parte il solo di chitarra di Comfortably Numb , il buio della sala maschera la commozione di tutti. Quelle note di chitarra che forse qualunque ragazzino smaneggione potrebbe replicare, quel suono, trasmettono qualcosa di indecifrabile che ci indennizza per tutto ciò che non saremo mai né mai vedremo, riempiendoci di una nostalgia verso il futuro difficile da contenere. There’s no pain, you are receiding . Il dolore è sparito, stai guarendo.
Corriere La Lettura 25.2.18
Psicologia, il centro antibullismo
Si abbassa l’età e aumentano le femmine: il nuovo bullismo
di Jessica Chi
Quando ha aperto, dieci anni fa, nel 2008, è stato il primo Centro multidisciplinare sul disagio adolescenziale dedicato alle vittime di bullismo, all’interno del reparto di Pediatria dell’Azienda ospedaliera Fatebenefratelli, oggi «Casa Pediatrica» dell’Asst Fatebenefratelli Sacco di Milano. All’epoca, il centro diretto dal pediatra Luca Bernardo, è frequentato da poco più di un centinaio di giovani pazienti, soprattutto maschi adolescenti. Per la prima volta in Italia si cerca di dare una risposta a un fenomeno non nuovo, ma dal profilo allarmante perché in crescita. E, per la prima volta, si prova a intervenire su vittima e su bullo, entrambi accomunati dallo stesso disagio: fragilità emotiva e debolezza.
«Il bullo c’è sempre stato — spiega a “la Lettura” Luca Bernardo — ma negli ultimi cinque anni abbiamo riscontrato nei ragazzi maggiore rabbia, aggressività, mancanza di empatia. Prima il bullo aveva dai 14 ai 16 anni; oggi è un bambino tra i 7 e gli 8 anni». Il fenomeno si affaccia dunque su un nuovo contesto sociale, in cui dilaga un malessere diffuso dovuto alla crisi dei ruoli e alla caduta dei modelli di riferimento, oltre al rifiuto delle autorità e delle istituzioni. E poi ci sono il web e le tecnologie che là dove non sono utilizzate correttamente hanno amplificato il problema.
Oggi il centro, che dopo due protocolli d’intesa con il Miur diventa il primo Centro di Coordinamento nazionale cyberbullismo (Conacy), ha cambiato volto: i pazienti superano il migliaio e si è pericolosamente abbassata la fascia d’età di vittime e di bulli (l’età prescolare nel 2008 non era quasi contemplata). Il fenomeno dei baby bulli è piuttosto recente. «Al centro stiamo iniziando a ricevere bimbi di 4-5 anni che non sanno di essere bulli ma stanno utilizzando gli stessi metodi che produrranno bullismo e successivamente cyberbullismo», afferma Bernardo. Da un convegno sul bullismo tenuto a Milano nel novembre 2017 ( Hot Topics in Pediatria e Neonatologia ) è emerso un altro dato inquietante: nella scuola dell’infanzia, è vittima di bullismo un bimbo su due e l’età non supera i 5 anni. Luca Bernardo e Francesca Maisano in L’età dei bulli (Sperling & Kupfer) spiegano così il fenomeno: tra i 3 e i 5 anni il bambino è già in grado di fronteggiare diverse situazioni relazionali. Ma se nei primi anni di vita non è stato sostenuto dai genitori nel processo di regolazione delle emozioni, può sviluppare un bullismo precoce: non prova empatia, non sa chiedere aiuto e un’emotività incontrollata può sfociare in dinamiche offensive.
C’è poi un altro aspetto su cui riflettere: il bullo si sta trasformando in una bulla (il 55% delle femmine rispetto al 45% dei maschi; mentre dieci anni fa le ragazze erano solo il 25%, come indicato nel grafico accanto).
«L’aumento di bulle è legato soprattutto all’aspetto virtuale delle violenze — spiega Francesca Maisano, psicoterapeuta dell’età evolutiva e referente al Conacy della prevenzione e del contrasto sul bullismo e cyberbullismo e di tutti i fenomeni illegali in rete sul disagio adolescenziale — perché sul web le offese sono verbali, e questo tipo di attacco è tipico delle ragazze». Mentre le aggressioni del bullo sono soprattutto dirette, sia fisiche che verbali, la bulla «tende ad agire con modalità più subdole». Ma anche la violenza fisica è aumentata tra le ragazze, perché legata a modelli violenti (come situazioni familiari che tendono a imitare)». Oggi una ragazza su tre è presa di mira da una coetanea, che subisce una violenza psicologica molto più devastante di quella fisica. «Il cyberbullismo passa attraverso lo smartphone — aggiunge Maisano — che agisce su visioni e immagini. Anche le vittime sono in prevalenza femmine: siamo in una società narcisista dove conta l’aspetto esteriore e i corpi delle ragazze sono messi più alla berlina (basti pensare al fenomeno del sexting , la condivisione di contenuti a sfondo sessuale)».
Tra i tipi di violenza, è sicuramente il cyberbullismo a essere in crescita: «Il bullo ha capito che la piazza del paese, la palestra o la classe, è una piazza molto modesta — prosegue Bernardo — e la persecuzione in rete ora avviene 24 ore su 24. Ma chi dà a questi ragazzi la patente per navigare?». Questo è il bullismo, non ci sono vincitori: perde la vittima, il bullo, perdono i genitori e la scuola. Per questo la prevenzione è fondamentale, «ma non solo» — conclude Bernardo — «ci sono delle responsabilità che nessuno vuole prendere. Sono due anni che abbiamo intrapreso una battaglia per ottenere una corresponsabilità da parte di chi gestisce i social. Qualcosa deve cambiare».
il manifesto Alias 25.2.18
Storia
Dopo lo spasmo che partorì, violentemente, l’Europa
Nell’imponente volume che lo storico inglese dedica a «La cristianità in frantumi» (Laterza ) trovano posto non solo le élites e le mutazioni del potere politico, ma anche le lotte contadine e dei poveri criminalizzati
di Vincenzo Lavenia
Nel 1648 un terribile terremoto colpì Istanbul, interrompendo il flusso degli acquedotti e la preghiera nelle moschee e dando inizio a un rivolgimento di palazzo che mise in crisi l’Impero ottomano e portò alla deposizione del sultano, all’uccisione e allo smembramento del cadavere del ministro Ahmed Pascià e a una strage: fatti che fecero dire agli ulema più infervorati che, in quel modo, Dio intendeva castigare la Sublime Porta per avere deviato dagli insegnamenti del Profeta. Lo ricorda Mark Greengrass in un ponderoso volume coraggiosamente reso disponibile al lettore italiano, La cristianità in frantumi Europa 1517-1648 (traduzione di Michele Sampaolo, Laterza, pp. 836, euro 38,00); un’opera che, tra i suoi scopi principali, non ha quello di raccontarci gli accadimenti occorsi nella capitale turca (nel libro chiamata curiosamente Costantinopoli), bensì di tracciare un profilo storico dell’Europa nella prima età moderna. Apparso per Penguin nel 2014, copre un arco di tempo significativo a ridosso di due centenari concomitanti: quello della Riforma e quello dell’inizio della Guerra dei Trent’anni.
Punto di avvio strutturale
La ricorrenza delle tesi di Wittenberg moltiplica le biografie di Lutero (solo in lingua inglese, di recente, ne sono state scritte una dozzina, alcune già tradotte); quella della crisi boema, che avrebbe portato al più grande massacro europeo dell’epoca moderna, ben raccontato in queste pagine, promette nuovi studi che avranno probabilmente scarsa fortuna in Italia (la guerra dei Trent’Anni, più della Riforma, è vista come un brutto affare tedesco).
Greengrass inganna un po’ con il suo titolo, che sembra promettere una storia religiosa; in realtà parte dalla struttura (la demografia, l’abitare, il mangiare, la produzione agricola, il rapporto tra città e campagna, il denaro e il commercio, la servitù e la nobiltà, la fissità sociale e la rivolta), per poi allargare lo sguardo al resto del mondo negli anni in cui la coscienza europea prese atto dell’esistenza di un ignoto continente e cominciò a cartografare la terra sulla spinta della famelica aggressione coloniale in Asia, in Africa e in America. La tesi del saggio, infatti, non si risolve nella constatazione che nel Cinquecento cessò di esistere la cristianità come idea universale di appartenenza alla Chiesa latina e come senso della storia terrena della Città di Dio, ma sostiene che la concezione dell’Europa nata dai rivolgimenti di quel tempo non sarebbe stata possibile senza la prima globalizzazione seguita ai viaggi e alle conquiste occidentali. È una tesi che l’autore non dimostra, per la verità, fino in fondo ma che gli permette di includere ampi squarci sulla mondializzazione delle reti commerciali, sui conflitti coloniali e sulle missioni religiose della prima età moderna, tenendo conto di tutti i nuovi orientamenti storiografici (dalla storia delle donne a quella dell’informazione e dell’opinione pubblica, dall’attenzione alle immagini alla storia degli imperi) per raccontarci in modo tradizionale un paesaggio ben noto con incursioni inedite.
Oltre alle pagine dedicate all’America coloniale fino al Cile o l’Impero ottomano (che, come minaccia, fu un elemento costitutivo dell’idea di Europa, secondo Greengrass), sono particolarmente acute le parti dedicate al Regno di Polonia-Lituania e all’Ucraina, che divennero aree deboli nel momento in cui, intorno alla metà del Seicento, lo Stato dinastico e fiscale si rafforzò: allora il potere contrattuale della nobiltà, la fragilità di una corona elettiva e il pluralismo religioso di quell’area finirono per soccombere, con tanto di massacri della popolazione ebraica che ricordano la lunga durata di un problema, l’anti-giudaismo, ancora presente in quella regione del continente.
Sollecitato dall’attualità L’attenzione che l’autore dedica all’est dell’Europa segnala come il libro non sia estraneo a sollecitazioni che gli derivano dal presente: Greengrass è un inglese esperto di storia francese, prima che la Brexit diventasse un rozzo discrimine tra presunti europeisti e anti-europeisti, dunque analizza il momento in cui ebbe origine la moderna divisione degli europei (che, non c’è dubbio, deriva in larga parte dalla frattura della Riforma) senza alcuna concessione alle derive identitarie dei nostri giorni. Tuttavia, scegliere il 1517 e non il 1492 come data di inizio significa sottovalutare (o porre in secondo piano) l’egemonia cattolica della prima età moderna e il senso che ebbe per tutta l’Europa la brutale cancellazione della convivenza tra islam, ebraismo sefardita e cristianesimo in Castiglia, in Aragona e in Portogallo (in questo caso in senso contrario rispetto alla storiografia degli ultimi anni).
Non a caso Carlo V figura più come imperatore che come sovrano di Spagna, e il cuore del libro è l’Europa composta dalla Francia, dalla Germania, dalle Fiandre e dalla stessa Inghilterra. Quanto alla Moscovia, l’autore puntualizza che lo stereotipo della crudeltà e del dispotismo russi nacque grazie ai resoconti degli occidentali del Cinquecento (non ultimo l’inglese Giles Fletcher), ma non sembra discostarsi troppo dall’idea che quella terra, anche al di qua degli Urali, avesse alcune affinità con l’Europa senza tuttavia condividerne i «valori».
Quali fossero questi valori non è dato comprendere leggendo il libro, che nonostante alcuni limiti si impone come una sintesi priva di asse portante ma tra le migliori in circolazione, attenta a riferire non solo la storia delle élites e delle mutazioni del potere politico, ma anche quella delle aspirazioni e delle lotte dei contadini massacrati nel 1525, o quella dei poveri criminalizzati alle soglie del mondo moderno. Quanto alla conclusione, Greengrass prende le distanze in modo implicito dalla tesi esposta da Geoffrey Parker in un libro del 2013 – Global Crisis: War, Climate Change and Catastrophe in the Seventeenth Century– dove si batte l’accento sugli effetti globali del cambiamento climatico, che nel corso del Seicento afflisse con la glaciazione tutto l’emisfero settentrionale.
Dopo un ciclo inedito di guerre, di rivolte e di catastrofi culminato negli anni quaranta del XVII secolo, il «violento spasmo» – scrive Greengrass –, come un parossismo si concluse con una sorta di «ritorno alla status quo» e senza un nuovo ordine internazionale o un’effettiva eclissi della cristianità.
In polemica con Schmitt
L’obiettivo polemico, insomma, sono le tesi dei seguaci di Carl Schmitt, prima ancora che la storia comparativa di Parker, anche se il fabula docet di Greengrass risulta piuttosto debole e non rende giustizia a un libro peraltro tanto ricco di sfumature: La cristianità in frantumi è un affondo nel passato remoto che ci segnala fino a che punto i conflitti abbiano distrutto l’Europa, ma ci regala anche piccoli squarci di ottimismo quando riferisce storie come quella che accadde nel 1564 in una Lione che presto sarebbe stata martoriata dalle guerre di religione: in occasione di una visita del re Carlo IX, i magistrati fecero sfilare i bambini, figli di protestanti e di cattolici, tutti insieme, mano nella mano, per ricucire le fratture della comunità. Nell’Europa di oggi, non più cristiana, attraversata da parossismi xenofobi e affetta da una crisi di credibilità, con la guerra alla sue porte, c’è da augurarsi che qualcuno ricordi questo piccolo episodio, benché privo di esiti positivi.
Repubblica 25.2.18
La filosofia a fumetti meglio di quella vera
di Maurizio Ferraris
LA MERAVIGLIOSA VITA DEI FILOSOFI
AUTORE: MASATO TANAKA
EDITORE: A. VALLARDI
PREZZO: 16,90 EURO
PAGINE: 351 TRADUTTORI: F. DI BERADINO, R. G. VERGAGNI
La meravigliosa vita dei filosofi di Masato Tanaka ha un titolo ingannevole, visto che il suo autore non è un Diogene Laerzio redivivo. Non abbiamo a che fare con delle vite dei filosofi, ma con una storia popolare della filosofia che isola settanta pensatori scomponendone accuratamente le dottrine, e che, complessivamente, appare di gran lunga più attenta all’aspetto concettuale che a quello biografico. Ingannevole, sia pure involontariamente, è anche il nome dell’autore: cercando su Google, le uniche occorrenze che ho trovato si riferiscono a un wrestler giapponese che, qualora fosse anche l’autore di questo libro, si rivelerebbe davvero versatile.
Alla fine del lavoro, Tanaka - che la scheda editoriale definisce “un artista” - ringrazia per la consulenza filosofica Tetsuya Saito, però anche in questo caso le occorrenze di Google si riferiscono principalmente a un campione di hockey su ghiaccio. Ciò detto, questo libro è interessante per almeno quattro motivi. Il primo, e scontatissimo, è quello di una riuscita operazione di divulgazione filosofica. In questi ultimi anni abbiamo assistito a molte forme di popolarizzazione della filosofia, segno di buona salute e di popolarità della disciplina.
Libri sulla filosofia implicita dei fumetti, dei cartoni animati, dei film. E fumetti di storia della filosofia o di presentazione di singoli filosofi. Il libro di Tanaka rientra nel secondo genere, con la specificità che non abbiamo propriamente a che fare con fumetti, bensì con schemi e disegni accompagnati da testi, dunque, e che potremmo forse chiamare, in omaggio alla cultura di Tanaka, “filosofia per ideogrammi”.
C’è indubbiamente una sfida propriamente concettuale nel ridurre in breve un pensiero complesso, e nell’insieme l’operazione, che ovviamente è più facile per i filosofi già canonizzati che per i contemporanei, ancora in buona parte da capire e dunque da schematizzare, è riuscita.
Il secondo, ugualmente scontato, è quello di una borsa valori della filosofia. Come sempre avviene nelle storie della filosofia (a fumetti o no), chi riesce a entrarci ha fatto bingo.
Prevedibilmente, gli italiani sono poco rappresentati: due su settanta, e precisamente Tommaso d’Aquino e Toni Negri. Niente Croce e Gentile (il che, in una prospettiva cosmopolitica, è più che comprensibile), niente Machiavelli e Vico (il che, sempre in una prospettiva cosmopolitica, lo è meno). Ma non insisto su questo punto per evitare il gioco del chi c’è e chi manca in dizionari, enciclopedie e storie.
Il terzo, ancora più interessante, è di etnografia della cultura.
L’autore è giapponese, e vedere la specialità europea (almeno se crediamo a Husserl) guardata da un’altra prospettiva ha un effetto straniante. Da questo punto di vista, è sorprendente vedere, nella bibliografia conclusiva, la mole di libri giapponesi dedicati alla filosofia occidentale.
Ed è ancora più sorprendente, ma fa riflettere sulla differenza culturale, vedere annoverato, tra i settanta filosofi, Gesù Cristo, rappresentante del concetto di “agape”, amore fraterno, che è molto meno suo che non di Paolo di Tarso. Per inciso, Cristo ha in mano una croce e non una bandiera nazionale come tutti gli altri filosofi, probabilmente per evitare l’imbarazzo di scegliere tra una bandiera israeliana e una palestinese (detto di passaggio, Talete, Anassimandro e Anassimene hanno una bandiera greca, ma dovrebbero impugnarne una turca).
C’è un quarto uso che personalmente considero interessantissimo e molto filosofico, che consiste nel misurare cosa resta di un discorso complesso quando viene sintetizzato in poche righe e qualche schema. Il caso esemplare è Derrida, la cui dottrina — come spiega Tanaka — consiste nel sottrarsi alle schematizzazioni e alle semplificazioni.
Ora, come schematizzare e semplificare Derrida? L’operazione non è semplice, è il caso di dirlo, e genera un interrogativo: riuscire a semplificare Derrida è un fallimento o un successo?
Probabilmente né l’uno né l’altro perché Derrida è uno di quei filosofi che elaborano idee profonde e ricche, ma non intendono elaborare una dottrina. Tanaka fa del suo meglio, mettendo in campo una grande volontà di capire e di spiegare, e ovviamente fallisce in un obiettivo peraltro irraggiungibile. Ma c’è modo e modo di fallire, e quello di Tanaka suscita simpatia, visto che la sua impresa, anche in questo caso, è caratterizzata da buona volontà e dal tentativo di accostarsi ai filosofi, anche quelli più complicati, con uno sguardo cordiale e privo di pregiudizi. Per capire e apprezzare la positività di questo fallimento basterà confrontarlo con le pagine dedicate a Derrida da Sir Anthony Kenny, illustre studioso di Aristotele, Tommaso, Cartesio e Wittgenstein, presidente della British Academy e vicerettore dell’Università di Oxford nella sua Nuova storia della filosofia occidentale.
Un concentrato di orgoglio e pregiudizio che rivaluta comparativamente l’onestissimo fallimento di Tanaka, cui ben si addice il detto di Beckett “Ho provato, ho fallito.
Non importa, riproverò. Fallirò meglio”.
Masato Tanaka ha scritto una mini enciclopedia a disegni. Un’opera di semplificazione che poteva arrivare solo dal Giappone.
E che funziona per quattro buone ragioni. Meno una