venerdì 23 febbraio 2018

La Stampa 23.2.18
Assad sfrutta i curdi per restare al potere
di Laura Mirakian


La battaglia di Afrin, incuneata nell’estremo lembo nord-occidentale del territorio curdo-siriano, era già scritta da tempo nella mente dei protagonisti. Nel 2015, l’assedio dell’Isis a Kobane, era finito in un massacro, dopo che la Turchia si era opposta al transito di rinforzi attraverso il proprio territorio. Nel 2016, l’operazione turca «Scudo dell’Eufrate», mirata al contempo contro Isis e combattenti curdi, era terminata su pressione americana in cambio dell’arretramento curdo a Ovest dell’Eufrate e del mantenimento di truppe nell’ area. L’operazione «Ramoscello d’Ulivo» si pone su questa linea di continuità. Assad ha deciso di muovere nonostante il pesante impegno militare su altri fronti: l’assedio di Goutha-Est anzitutto, e poi Homs, Hama, Idlib, Deir-er-Zour. Senza contare le vistose frizioni tra Israele e Iran sul teatro siriano, che nonostante la proverbiale prudenza dei militari israeliani, non prospettano nulla di buono, salvo che il dialogo dell’Europa con l’Iran non riesca a contenerne le ambizioni.
Come mai Assad ha deciso di muovere su Afrin, area periferica, apparentemente non strategica? Una lunga storia lega Damasco a questi curdi. Molti sono confluiti in Siria a fine Anni 80, fuggendo dalle persecuzioni di Saddam Hussein. Intorno a Damasco puoi scorgere miriadi di abitazioni abusive arrampicate sul dorso delle alture circostanti. Gli Assad hanno mostrato tolleranza, nel gioco incrociato di strategie regionali che il popolo curdo ha conosciuto nei decenni. Tolleranza che però non si è mai tradotta nella concessione della cittadinanza siriana. I curdi hanno ricambiato l’ospitalità con una discreta acquiescenza del loro incerto status. Talvolta questi «abitanti provvisori» hanno contattato le ambasciate occidentali a Damasco, ivi inclusa quella italiana, alla ricerca di un sostegno. Non per ottenere l’indipendenza, ma la cittadinanza siriana e un margine di autonomia: sarebbe come riconoscere, dicevano, che la Siria è il Paese di tutti, e che anche la comunità curda vi appartiene. Solo nel 2011, agli albori della crisi, Assad si decise a concedere la cittadinanza. Calcolando che i curdi non rappresentavano un pericolo ma una potenziale garanzia per l’integrità territoriale del Paese sul versante Nord. Ankara incassava il colpo, ma non rinunciava all’idea di allontanarli dalle frontiere, e magari installare una sorta di zona cuscinetto quale «sfera di influenza» turca sottratta ad Assad. Né probabilmente dismetteva l’obiettivo di liberarsi di Assad, nonostante le intese russo-turco-iraniane di Astana, mostratesi peraltro inconcludenti.
Era pressoché inevitabile che Assad finisse per scontrarsi frontalmente con Erdogan. Non sappiamo se il conflitto si estenderà fino al rischio di incrociare la vicina base americana di Manbji, o addirittura oltre l’area curda fino a Idlib. Dipenderà dal numero di morti che Assad ed Erdogan sono disposti a mettere in conto. Dipenderà dalle pressioni che Washington sta discretamente esercitando su Ankara. E dalla mediazione che Mosca starebbe tentando tra le parti. Mosca, aprendo un varco negli spazi aerei siriani, non ha ostacolato l’operazione turca e, pur considerando cruciale l’integrità della Siria, da tempo si interroga sull’asservimento assoluto di Assad: le elezioni presidenziali si avvicinano, i sondaggi rivelano un calo di consensi per questa guerra siriana. Tra Washington e Mosca dovrebbe esserci una convergenza quantomeno per spingere i contendenti nella direzione di un cessate-il-fuoco. In qualche modo, sul destino dei curdi del Rojava grava anche la tenuta dell’ambiguo e travagliato rapporto tra Stati Uniti e Russia.