La Stampa 1.2.18
Tragedia e interpretazione
Pareyson ci parla ancora
Un
grande convegno a Berlino per i cent’anni dalla nascita del filosofo:
l’attualità del suo pensiero “pluralista” nel mondo globalizzato
di Gianni Vattimo
A
ventisette anni dalla scomparsa (nato il 4 febbraio 1918, è morto il 9
settembre 1991) si può davvero dire, che per Luigi Pareyson, il tempo è
stato galantuomo. Solo pochi anni prima che una grave malattia lo
stroncasse, il suo pensiero aveva conosciuto un’ampia risonanza anche
extra-accademica; e da allora tale risonanza si è andata sempre più
ampliando e approfondendo, tanto che - in molti sensi - si può oggi
parlare di una portata anticipatrice, se non decisamente profetica,
della sua filosofia.
Il titolo di «pensiero tragico» che egli
impiegò spesso negli ultimi anni, per caratterizzare la propria
posizione teorica, aiuta a oltrepassare i limiti dell’orizzonte
accademico. Orizzonte sempre più problematico via via che anche i più
pervicaci difensori della filosofia come scienza specialistica, e
custode di una tradizione di testi che andrebbero tenuti rigorosamente
separati dall’attualità, vanno persuadendosi (magari solo per non essere
emarginati dall’industria culturale) che forse bisogna ritrovare un
rapporto meno evanescente con l’esistenza quotidiana, con la politica,
con la religione, con i nuovi problemi etici posti dalla scienza e dalla
tecnica.
Non poca filosofia italiana ed europea di questi ultimi
decenni percorre le strade che furono percorse, spesso con spirito
anticipatore, da Pareyson. Penso a certi filosofi della generazione più
«giovane» come Massimo Cacciari, i cui libri si muovono nella stessa
prospettiva; o a un altro filosofo della stessa generazione, Reiner
Schürmann (di cui, fra i più noti traduttori italiani, vorrei ricordare
il torinese Gianni Carchia). In termini e forme diverse, nomi come
quelli di Cacciari e di Schürmann, ma poi di tanti altri filosofi
francesi di scuola derridiana e heideggeriana, testimoniano oggi
l’attualità del pensiero tragico in circoli della cultura per lo più
giovanile. Proprio quelli che, nelle università e fuori, si rivolgono
sempre più spesso anche ai testi dell’ultimo Pareyson.
A tale
pensiero Pareyson arriva radicalizzando, anche molto al di là di un
classico dell’ermeneutica come Gadamer, il rapporto tra filosofia
dell’interpretazione e concezione dell’essere, che era già al centro
della meditazione heideggeriana. Se si riconosce, con Heidegger, che
l’esperienza che facciamo del mondo è sempre interpretazione - cioè un
incontro nel quale, come scrive Pareyson, «la cosa si rivela nella
misura in cui la persona si esprime» - e non invece un rispecchiamento
passivo dove il soggetto deve cancellarsi per riflettere fedelmente
l’oggetto, bisogna pensare anche l’essere in termini che non siano più
quelli della tradizione metafisica. Essere che si rivelerebbe dunque
come fondamento ultimo immutabile e tutto «dato», fuori da ogni
storicità autentica, giacché, come sanno i teologi che si sono accaniti
sul problema della predestinazione, se l’essere (o Dio) è tutto in atto
dall’eternità e per l’eternità, il divenire, la storia, la libertà
umana, sono pura inspiegabile finzione.
Per rendere possibile il
riconoscimento della verità come interpretazione - anche quella
scientifica, giacché ogni proposizione scientifica si verifica o
falsifica solo nel quadro di paradigmi di cui lo scienziato deve
disporre da prima, portandoli con sé dalla sua formazione, dalla sua
cultura, ecc., e che dunque «esprime» nel suo lavoro sperimentale -
occorre che l’essere sia pensato a sua volta come evento e non come
struttura fissa data una volta per tutte. Per Pareyson, ma anche per
Schelling, per Kierkegaard, per molti esistenzialisti cristiani (o
ebrei, come Lévinas), questo essere che non è l’ordine geometrico eterno
e immutabile, ma sorgente dell’interpretazione e della libertà, è il
Dio biblico, che è - a propria volta - atto di affermazione, positività
che si impone contro una possibilità negativa. Un Dio come questo porta
in sé il male, sia pure come preistoria che ha vinto. La tragicità
dell’esperienza umana, mai totalmente libera da limiti, mali, sofferenze
e violenze inutili, ha la sua radice più remota qui.
Che molta
filosofia europea di oggi si collochi sotto il segno della tragedia non
significa necessariamente che il pensiero tragico sia per tutti, anche
per i discepoli di Pareyson, la verità della nostra condizione attuale.
C’è un altro aspetto della sua eredità filosofica che circola largamente
nella riflessione di filosofi anche non tragicisti, ed è l’idea che la
filosofia sia essenzialmente ermeneutica dell’esperienza religiosa - il
che significa interpretazione di miti e scritture sacre (per Pareyson,
certo, della Sacra Scrittura giudaica e cristiana in modo eminente).
Pareyson
ci ha insegnato a riconoscere la continuità, e anche i possibili
conflitti, tra filosofia e tradizione religiosa; che si occupano della
stessa cosa, e che vivono entrambe di una «rivelazione» nella quale si
nascondono, ma anche si offrono, a infinite e sempre vive possibilità di
interpretazione. Se si pensa a quanto la questione della pluralità
delle culture, e cioè anche delle religioni e dei miti che le fondano,
sia decisiva per la società «globale» in cui ci troviamo sempre più a
vivere, si dovrà dire che (anche sotto questo aspetto) l’eredità
filosofica di Pareyson è tutt’altro che un patrimonio del passato.