giovedì 15 febbraio 2018

La  Stampa 15.2.18
Dj Fabo, il caso Cappato alla Consulta
Né assoluzione né condanna, i giudici di Milano rinviano gli atti alla Corte costituzionale Ora per l’esponente dei radicali andrà valutata la legittimità del reato di aiuto al suicidio
di Fabio Poletti


Braccia al cielo dove è volato Dj Fabo. Braccia al cielo perché c’è un giudice a Milano che ha stabilito che a ognuno di noi «va riconosciuta la libertà di decidere come e quando morire» e adesso scelgano i giudici della Corte Costituzionale se aiutare qualcuno a farlo, come Marco Cappato dell’Associazione Luca Coscioni con Fabiano Antoniani, sia un reato oppure no. Il giudice Ilio Mannucci Pacini ci mette più di un’ora a leggere le sedici pagine dell’ordinanza che minuziosamente raffronta leggi, sentenze della Cassazione e dettami costituzionali senza dimenticare un quasi quarantenne tetraplegico e cieco che ha fortissimamente voluto rinunciare alla sua vita che non era più vita. Solo allora Valeria Imbrogna, golfone grigio e occhi lucidi, la fidanzata di Dj Fabo che non lo ha lasciato solo un minuto dopo l’incidente e che non si è persa un’udienza, alza finalmente le braccia al cielo e abbraccia Marco Cappato: «E’ una vittoria non solo per Fabo ma per tutti quanti. Sono molto contenta, è giusto così. Le scelte del mio Fabo sono state determinanti».
Contento è Marco Cappato dell’Associazione Luca Coscioni che in Svizzera a morire ha già accompagnato altre persone come Dj Fabo e ancora ne accompagnerà. Il giudice lo ha assolto dall’accusa di aver rafforzato il convincimento a morire di Fabiano. Non ce n’era bisogno. Fabiano se ne era convinto prima ancora di rivolgersi a lui. Ma non è per questa assoluzione che Marco Cappato è soddisfatto e ringrazia i giudici della corte d’assise ma non solo: «Grazie a Fabiano per avere fatto pubblicamente quello che decine di persone fanno clandestinamente ogni anno, onorando così il valore della legge. Aiutare Fabiano era un mio dovere, la Corte Costituzionale stabilirà se questo era anche un suo diritto, oltre che un mio diritto. Da 32 anni giace in Parlamento un proposta di legge per l’eutanasia. La politica ha avuto 32 anni di tempo ma può ancora fare qualcosa in attesa della decisione della Corte Costituzionale che avrà il valore di una legge per tutti gli italiani».
Nel corridoio tutto marmo del palazzo di giustizia milanese uno grida: «Viva la vita, abbasso la morte». È rimasto solo lui della pattuglia di cattolici che per qualche udienza ha megafonato davanti agli ingressi del tribunale contro l’eutanasia, il suicidio assistito, l’aborto e il divorzio mescolando le leggi e la fede. Qui oggi conta soprattutto la legge. Quella che fa dire a Massimo Rossi il difensore di Marco Cappato: «Vittoria bellissima della cultura giuridica del nostro Paese». Il pubblico ministero Tiziana Siciliana che pure non voleva questo processo impugnato dalla procura generale e aveva chiesto l’assoluzione del leader radicale è ammirata dall’ordinanza del giudice: «Completa, completissima. Nessuno può valutare la quantità di dolore a cui una persona deve essere costretta. Se ci si presenteranno altri casi ci comporteremo allo stesso modo».
Le sedici pagine del giudice Mannucci Pacini finiscono alla Consulta, a Palazzo Chigi, a Camera e Senato. Il processo non è più solo a Marco Cappato che ha «agevolato» DjFabo a morire in Svizzera ma diventa il processo a tutti i DjFabo che non vogliono più vivere una vita che non è più vita. Scrivono i giudici nell’ordinanza: «Deve ritenersi che in forza dei principi costituzionali e anche della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, all’individuo sia riconosciuta la libertà di decidere quando e come morire e che di conseguenza solo le azioni che pregiudichino la libertà della sua decisione possano costituire offesa al bene tutelato dalla norma in esame». Ai giudici della Consulta l’ultima parola. Il processo a Marco Cappato per ora si ferma qui. Nessuna legge fermerà tutti gli altri DjFabo.

Repubblica 15.2.18
Processo a Cappato
Il confine tra legge e dignità
Così il principio dell’autodeterminazione diventa il pilastro sul quale ricostruire il nostro ordinamento
di Michela Marzano


Ogni persona è libera di decidere come e quando morire: è un principio cardine non solo della Convenzione dei diritti dell’uomo, ma anche della nostra Costituzione. Ce lo ha ricordato ieri la corte d’assise di Milano, riconoscendo che Marco Cappato non ha rafforzato la volontà di Dj Fabo di porre fine alla propria vita, e chiedendo al tempo stesso alla Consulta di pronunciarsi sulla legittimità costituzionale del reato di aiuto al suicidio. Una decisione storica, quindi, nonostante l’apparente neutralità, visto che il processo a Cappato è stato sospeso in attesa che si pronunci la Corte Costituzionale. Solo la Consulta può d’altronde stabilire fin dove può spingersi il diritto all’autodeterminazione di ciascuno di noi e quale sia la relazione esatta tra la dignità della persona e l’autonomia individuale.
Al di là della mancanza di coraggio da parte di un pezzo importante del mondo politico italiano, la vicenda di Fabiano Antoniani e la decisione di Marco Cappato di accompagnarlo in Svizzera, ci costringono a riflettere sullo spazio che la nostra società è disposta a dare al desiderio profondo di chi, costretto dalla sorte a ritrovarsi in un limbo di sofferenza e di impotenza, vorrebbe solo mettere fine a una vita che, di vita, ha ormai molto poco. È una questione delicata sia dal punto di vista giuridico sia, soprattutto, dal punto di vista etico. Ma dalla quale non è più possibile esimersi, visto che sono numerosissime le persone che aspettano che il proprio diritto all’autodeterminazione, nel momento in cui decidono di accedere al suicidio assistito, sia finalmente preso in considerazione.
In nome di quale principio si può d’altronde obbligare un’altra persona a comportarsi come alcuni pensano che si debba comportare? In nome di quali valori si può anche solo pensare di cancellare la soggettività altrui e di imporre agli altri la propria concezione del mondo e dell’esistenza?
La vita è sempre sacra, si sente ripetere da chi, forse, non si è mai dovuto confrontare con quella sofferenza profonda e quell’assenza di speranza — perché non c’è più nulla da fare se non aspettare che finisca quella «notte senza fine», come diceva Dj Fabo parlando della propria esistenza dopo l’incidente — che talvolta tolgono alla vita ogni dignità. Uccidere è un reato, si sente dire da chi, forse, non ha mai fatto lo sforzo di capire la differenza che esiste tra il “far morire” e il “lasciar partire”, il privare della vita chi, quella vita, la vuole vivere e il liberare dal peso dell’esistenza chi, quell’esistenza, l’ha già abbandonata da tempo.
«Ho visto polmoni respirare da soli su un tavolo, macchine che sostituiscono cuori… ma è vita questa? » , si era chiesta la pm Tiziana Siciliano durante la requisitoria, chiedendo ai giudici o l’assoluzione di Marco Cappato o l’eccezione di legittimità costituzionale. Il cuore del problema, per lei, era proprio il senso che ha il termine “vita” quando non si ha più la possibilità di esercitare la propria dignità. Non è allora anodina la scelta della corte d’assise di trasmettere gli atti alla Consulta: significa aver deciso che la questione dell’autodeterminazione non è più solo il cardine dell’etica contemporanea, ma anche il pilastro attorno al quale ricostruire il nostro ordinamento giuridico. Certo, l’ultima parola spetterà al legislatore. Ma come potrà il legislatore tirarsi indietro una volta stabilito che è in nome della dignità umana che nessuno può giudicare cosa possa essere o meno degno per un’altra persona, compreso l’accesso al suicidio assistito?

Repubblica 15.2.18
Che cosa può accadere
“Ora sul fine vita è possibile una rivoluzione”
Il giurista Pellegrino “ Ma dipenderà dal coraggio della Corte”
di Vladimiro Polchi


ROMA «La Consulta ha in mano una grande occasione: la sua decisione potrebbe allargare nel nostro Paese i limiti posti alla libertà di autodeterminazione su quando e come morire».
L’avvocato Gianluigi Pellegrino, esperto di diritto amministrativo e costituzionale, ha appena finito di leggere l’ordinanza dei giudici milanesi nel processo a Marco Cappato. Una decisione dalle molteplici implicazioni, che può aprire a una “rivoluzione”: rendere legale il suicidio assistito anche nel nostro Paese. Ma tutto dipenderà dal «coraggio della Corte costituzionale».
Come valuta la decisione della Corte d’assise di Milano?
«È un bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto. L’ordinanza rende espliciti i limiti del ruolo di supplenza che hanno dovuto assumere i giudici di fronte all’incapacità delle istituzioni rappresentative, e della stessa società, a fare scelte chiare in materia».
Sarebbe dunque stato meglio per Marco Cappato un’assoluzione perché il fatto non costituisce reato?
«I giudici hanno escluso che ci sia stata induzione al suicidio.
Potevano lavarsene le mani escludendo anche una condotta direttamente agevolatrice, visto che Cappato si è limitato all’accompagnamento in Svizzera e lì Dj Fabo poteva ancora liberamente decidere della sua vita».
E invece la palla è passata alla Corte costituzionale.
«I giudici milanesi hanno voluto fare un primo passo per provare ad aprire una strada, che può portare a consentire anche nel nostro Paese il suicidio assistito».
Si sono appoggiati a dei precedenti?
«Si sono rifatti all’evoluzione della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, che ha progressivamente ritenuto prevalente il principio di autodeterminazione della persona. Come del resto in Italia è avvenuto per il rifiuto delle cure nel caso di Eluana Englaro e ora anche in Parlamento, finalmente, con la legge sul biotestamento. Il cerino per i passi successivi passa oggi alla Corte costituzionale».
Quali sono ora i possibili scenari?
«La Consulta sarà davanti a un bivio: rifiutare questo ruolo richiamando la discrezionalità del Parlamento ed eventualmente limitandosi a censurare l’esosità delle pene previste per la mera agevolazione materiale, oppure con una delle sue sentenze storiche dare atto che oggi nella società italiana non vi è più una generarle riprovazione, ma semmai una diffusa comprensione per la scelta di autodeterminazione di mettere fine a una esistenza che sia diventata insopportabile».
Sarebbe una decisione coraggiosa.
«Sì, ma nel solco di quanto avvenuto per il rifiuto delle cure, tra sentenze dei giudici prima e legge sul biotestamento poi, che infatti la decisione di ieri ampiamente richiama».
In base alla giurisprudenza, pensa dunque che si arriverà a una pronuncia di incostituzionalità?
«Penso sia incostituzionale punire allo stesso modo l’istigazione al suicidio e il mero apprestamento di mezzi materiali a chi per impedimento fisico, come la tetraplegia, non possa procurarseli, ferma la sacra autonomia della sua volontà. Per il resto, dipenderà da quanto la Corte vorrà sentirsi parte di cambiamenti della sensibilità collettiva che sono da tempo in corso».

il manifesto 15.2.18
Nell’oceano degli algoritmi senza reti umane
A proposito di «Cento anni dopo, 1917-2017. Da Lenin a Zuckerberg», di Rita Di Leo edito da Ediesse
di Luciana Castellina


Il libro già dal titolo – Cento anni dopo, 1917-2017. Da Lenin a Zuckerberg (Ediesse, pp. 144, euro 12) – è spiazzante, non crediate dunque di poterlo leggere in autobus. La tesi finale di Rita Di Leo è tuttavia chiarissima, perciò vale la pena di fare la fatica per vedere come l’autrice ci è arrivata. In sostanza questa: quanto segna il passaggio del secolo è il ritorno dell’essere umano da animale politico ad animale asociale, e così si compie il percorso inverso che era stato imboccato nel tentativo di far maturare la capacità di convivere con i propri simili.
GLI SCONFITTI sono i Lenin, i Di Vittorio, i ministri laburisti laureati a Cambridge, i socialdemocratici tedeschi e svedesi, chi nel bene e nel male – ognuno a proprio modo – ha cercato di creare l’uomo politico, consapevole delle proprie responsabilità collettive. Tutti ormai fantasmi che ora assistono impotenti dalle loro tombe alla vittoria della teologia della tecnica che è riuscita a reclutare i loro stessi successori, abbacinati dagli algoritmi.
Il «balletto Excelsior» (il famoso spettacolo teatrale di fine ’800 che glorificava le magnifiche sorti del progresso suscitato dalla rampante borghesia industriale) è tornato sul proscenio. Per festeggiare il fatto che, sebbene l’idea stessa di una scienza che avrebbe liberato l’uomo dalla schiavitù si sia rovesciata, non suscita più reazioni.
In questo anno in cui più che commemorare il cinquantesimo del ’68 quell’insorgenza viene sotterrata questa conclusione è un epitaffio crudele. Il ’68 è stato importante proprio perché, con anticipazione (e certamente anche molta approssimazione), aveva intuito che la modernità nell’orizzonte del capitale avrebbe portato barbarie. «La scienza e la tecnica non sono neutrali» è stato non a caso uno dei suoi slogan più significativi. Ma quello era comunque un messaggio ottimista, perché indicava una via d’uscita: contemporaneamente si riconosceva infatti che era il capitale quello che chiudeva le porte che scienza e tecnica aprivano. La lotta al capitalismo poteva dunque rispalancarle. Oggi invece una simile ipotesi è tramontata, in quanto ormai del tutto irrealistica.
NON SOLO PERCHÉ nell’89 il capitalismo ha vinto ma è stato così anche perché il socialismo sovietico era cresciuto dentro il suo stesso universo, proprio come la sua classe operaia. Il «golem» scavato nella creta della classe operaia («il golem operaio» archetipo dell’intera società socialista di cui parla Rita nel suo libro) si prevedeva che avrebbe dovuto operaizzare tutta la società e che l’operaio, in quanto operaio, sarebbe stato capace di far funzionare al meglio politica ed economia. E però le aspettative che erano state caricate sulle sue spalle sono andate deluse, e così sono stati travolti tutti coloro che su di lui avevano puntato per i loro progetti, l’intera sinistra. In primo luogo le sue sirene ( che Rita Di Leo chiama Platone), vale a dire gli intellettuali. In particolare gli intellettuali-politici che pretendevano di rappresentarlo.
Quanto è accaduto nel frattempo è non solo il fallimento del golem-operaio ma la scomparsa dei soggetti che avrebbero potuto compiere l’impresa a lui affidata dalle «sirene Platone», perché i Khomeini degli algoritmi hanno trionfato, hanno chiuso col passato ancora popolato dall’uomo politico, e la «legittimazione dello stato di natura, la asocialità, sono diventate le pietre miliari del tempo nuovo che nulla accetta del vecchio».
Il risultato è dunque aver cancellato ogni progetto di universo alternativo, ogni teoria e ogni esperimento inteso a superare i comportamenti negativi, un obiettivo che aveva impegnato secoli. Esserci riusciti costituisce una vera «rivoluzione» tanto che, in confronto, l’ottobre e l’89 francese appaiono bazzecole. Il futuro non interessa più. Per sbagliato che fosse, nell’agire dell’operaismo stalinista c’era un progetto di società alternativa: al Khomeini degli algoritmi delle sorti dell’umanità, del futuro, non importa niente.
NON È ACCADUTO perché è stato ripristinato un comando sull’esercito sconfitto, ma perché quell’esercito è scomparso. Il prevalere dell’economia sulla politica ha infatti annullato – dice Rita – la sua essenza collettiva. E crudissima è la sua descrizione di questo assassinio: le fabbriche, certo, qualche volta ci sono ancora, ma dentro non c’è più la classe operaia, ci sono infinite varietà di lavoratori catalogati (e perciò regolati e pagati) in mille modi diversi, molti ormai considerati autonomi piccoli imprenditori di sé stessi o giornalieri di fantomatici appaltatori, sparito il contratto collettivo. Non servono più come produttori, bensì come consumatori; e per questo vengono tenuti in vita in qualche modo. Unificati da questa condizione che li rende tutti omologati, sciti e sunniti, jihadisti e cristiani che siano: tutti con scarpe Adidas, comprate su Amazon, pagate con Paypal, più l’un l’altro sconosciuti e connessi nei social, tanto più soli e disperati. Questa è la disumanizzazione, perché nella solitudine ci si incista nel proprio buco socio-culturale: nell’oceano degli algoritmi sono affogate le reti umane che un tempo addestravano l’uomo a convivere, a prendere in considerazione l’altro da sé, a usarlo come risorsa critica di sé stesso. Così l’uomo torna allo stato di natura, cioè alla asocialità, che la politicizzazione aveva combattuto.
E tutto questo in un contesto in cui il drone diventa l’archetipo del tempo, secondo una prassi che consegna persino il potere di fare la guerra a uno scienziato che decide, con i suoi algoritmi, il destino di esseri umani che non conosce, così come nulla sa dei luoghi lontanissimi dove essi abitano.
Spariti anche i luoghi fisici dove abita il potere, e anche quelli dove abitava chi voleva abbatterlo: palazzi d’inverno e fabbriche. Insomma: la lotta di classe messa in clandestinità, affondati i becchini del capitale che il sistema stesso produceva. Cosi come gli intellettuali-politici, ridotti al silenzio, o a un servizio servile del potere, perché spariti sono coloro che avrebbero dovuto rappresentare.
LENIN E I TELEFONINI, il golem operaio e il golem algoritmico, la rivoluzione d’ottobre e la vittoria del capitalismo: il quadro disegnato da Rita Di Leo è apocalittico ma denso di verità traumatiche. Il suo scritto si può assumere come un disperato grido di impotenza; o, invece, come un accorato appello a ripensare tutto. In grande, come la questione richiede. È una scelta che dipende da noi.

Repubblica 15.21.8
Da Columbine alla sparatoria di San Valentino
Florida, spari nel liceo. È una strage
Ex studente uccide 17 persone, tra cui molti ragazzi, e poi fugge. Fermato dalla polizia, è un fanatico delle armi Alunni e professori barricati nelle aule. Trump annulla tutti gli impegni: “Le mie preghiere per le vittime”
di Federico Rampini


NEW YORK Diciassette morti, una delle più gravi stragi nella storia delle sparatorie americane. Il terrore si abbatte sugli studenti di un liceo in Florida: presi di mira nel tiro al bersaglio da un ex- compagno di classe. L’autore dell’assalto si chiama Nikolas Cruz, 19 anni, sarebbe simpatizzante di gruppi fanatici delle armi, hanno dichiarato fonti vicine alla polizia locale, che dopo averlo arrestato ha trovato “ tracce sulle sue tendenze nei social media”. Lo sceriffo Scott Israel ha lanciato un appello accorato: “ Quando vedete segnali di questo tipo, avvertite subito le autorità”. Peggio di Columbine, quasi ai livelli di Sandy Hook, stavolta la tragedia colpisce il liceo Marjory Stoneman Douglas, nella cittadina di Parkland alla periferia di Miami. E’ la “ sparatoria di San Valentino”, che semina il terrore nella contea di Broward, Florida meridionale. L’allarme scatta alle 14.30 locali, con l’emergenza “ lock- down” cioè la chiusura forzata della scuola: all’inizio viene scambiata con un’allerta anti- incendio e molti pensano a un’esercitazione, poi arriva la segnalazione degli spari.
Mezz’ora dopo le telecamere inquadrano file di studenti che escono con le braccia alzate, nell’evacuazione del liceo circondato dalla polizia coi mitra puntati, dai Swat Teams ( squadre di tiratori scelti) e da ambulanze da cui escono i barellieri per trasportare feriti. Molti genitori sono lì attorno, accorsi nel panico, sperando di recuperare i figli.
Nel frattempo era in corso la caccia all’autore della sparatoria, riuscito a fuggire. Cruz è un ex- studente, espulso per ragioni disciplinari, subito riconosciuto da molti suoi ex-compagni di classe. La polizia locale e l’Fbi lo hanno poi catturato a due chilometri di distanza dal liceo. Il preside Robert Runcie ha detto: “ Non possiamo vivere nella paura, queste tragedie devono cessare. Noi facciamo il possibile perché le scuole siano sicure per i nostri ragazzi”. Solo quattro ore dopo la sparatoria, al termine delle perquisizioni dell’edificio scolastico, lo sceriffo Israel ha diffuso il tragico bilancio di 17 morti. Al pluriomicida hanno sequestrato “un fucile AR- 16 e molti caricatori di proiettili”.
Dalla Casa Bianca è arrivato l’annuncio che il presidente aveva “ cancellato tutti gli impegni” per seguire gli sviluppi della tragedia. Lo stesso Donald Trump ha poi twittato: “ Dedico le mie preghiere e le mie condoglianze alle vittime e ai familiari. Nessun ragazzo, nessun insegnante dovrebbe sentirsi insicuro in una scuola americana”. In realtà proprio le scuole sono regolarmente il teatro di sparatorie. Solo dall’inizio di quest’anno ce n’erano già state una dozzina. Nell’ultimo quinquennio, dal 2003, ce ne sono state 290. In media una alla settimana.
Tra le stragi più gravi della storia: quella della scuola Columbine, dove il 20 aprile 1999 due liceali uccisero 12 studenti e un insegnante; quella di Sandy Hook, scuola elementare del Connecticut, dove il 14 dicembre 2012 il ventenne Adam Lanza uccise 20 bambini e sei adulti. Ogni strage in una scuola è stata seguita da appelli per nuove leggi che limitino l’accesso alle armi; senza risultati. Le lobby degli armaioli e i fan del diritto all’autodifesa, protette dalla destra repubblicana ma con sostenitori anche tra i democratici, hanno sempre la meglio. Il dibattito è stato spesso sviato su temi collaterali come la prevenzione delle malattie mentali. In certi casi le lobby pro- armi hanno incoraggiato le scuole ad armare insegnanti e personale amministrativo.

Corriere 15.2.18
Usa Scuole, 18 sparatorie da gennaio
di Giuseppe Sarcina


Un’altra tragedia in una scuola degli Stati Uniti. Un giovane ex studente di un istituto superiore di Parkland, in Florida, ha iniziato a sparare con un fucile contro i ragazzi: il bilancio, ancora provvisorio, parla di almeno 17 morti e di molti feriti, alcuni dei quali in gravi condizioni. «Una scena orribile», hanno detto alcuni presenti. Sul posto sono arrivate le forze dell’ordine, uomini dei soccorsi e agenti delle forze speciali che avrebbero fatto irruzione nell’edificio. Dopo una caccia all’uomo è stato arrestato il responsabile della sparatoria: Nikolaus Cruz, descritto come «ragazzo difficile», arruolato nella riserva dell’esercito americano. Il campus studentesco si estende per una vasta area con circa 3 mila studenti. L’ennesimo assalto riapre il dilemma delle armi da fuoco negli Usa: quella di ieri è la diciottesima sparatoria che ha interessato una scuola dall’inizio dell’anno. Trump ha cancellato il briefing con la stampa.

WASHINGTON Ancora una strage nelle scuole americane: 17 morti, più altri feriti, in una sparatoria nel liceo Marjory Stoneman Douglas di Parkland, in Florida. Nella notte lo Sceriffo della Contea di Broward, Scott Israel, compila il triste bollettino, che potrebbe anche diventare più pesante perché non sono chiare le condizioni di tutte le persone ricoverate negli ospedali.
Arrestato il killer: si chiama Nikolaus Cruz, 19 anni. È un ex allievo della scuola, che è stato espulso l’anno scorso. Secondo le prime testimonianze di studenti e docenti, Cruz, ora arruolato nella riserva dell’esercito americano, era già stato segnalato alla scuola, come un individuo potenzialmente pericoloso.
Tutto è cominciato intorno alle 14. Mancano pochi minuti alla fine delle lezioni, quando scatta improvvisamente l’allarme anti incendio. Nel liceo di Parkland, 72 chilometri a nord di Miami in Florida, ci sono circa tremila studenti. Cominciano a uscire dalle classi, pensando a una delle frequenti esercitazioni. Ma all’improvviso dalle scale arrivano sette-otto colpi di fucile. Il killer imbraccia un’arma pesante, indossa una maschera anti-gas, spara a ripetizione e colpisce nel mucchio. È come una frustata che semina il panico. «Uno scenario catastrofico, non ci sono parole», dirà ancora lo sceriffo Israel.
C’è chi risale velocemente le scale e cerca riparo, barricandosi nelle aule o chiudendosi nei ripostigli. Altri corrono fuori, verso i cancelli o verso la recinzione metallica. Qualcuno riesce a raggiungere un supermercato vicino. È una zona residenziale, immersa nel verde: ma ora il pericolo può essere ovunque.
L’allarme scatta in tempo reale: i ragazzi e le ragazze mandano centinaia di sms, usano Facebook e gli altri social. «Papà, hanno sparato, ho visto tanti corpi immobili e tanti feriti. C’è sangue dappertutto», Ceasar Figuroa racconta alla «Cnn» il messaggio appena ricevuto da sua figlia: «Si è chiusa in un armadio, è ancora lì». La polizia accorre in forze, almeno 200 agenti, appoggiati da qualche elicottero. Arrivano anche le unità cinofile. Ma per almeno un’ora la situazione è fuori controllo: non si riesce a capire dove sia l’assalitore. Le tv trasmettono in diretta le immagini dello sgombero. I giovani vengono fatti uscire dagli edifici a piccoli gruppi, con le mani alzate. Poi vengono guidati, di corsa, all’esterno del recinto, verso un prato protetto dalle pattuglie e persino da un tank delle forze dell’ordine. Con la strage di San Valentino sono diciotto dall’inizio dell’anno le sparatorie che hanno coinvolto delle scuole in America.
Subito si accende la polemica. Un insegnante di matematica, Jim Gard, ha raccontato al quotidiano «Miami Herald»: «Conoscevamo Nikolaus Cruz. L’anno scorso abbiamo avuto molti problemi con lui. Minacciava spesso gli altri studenti. L’amministrazione dell’istituto aveva fatto circolare una mail per mettere in guardia alunni e docenti. Era già stato allontanato dal campus». Un ragazzo, intervistato da «Canale 7» ricorda che Nikolaus si vantava di avere fucili e pistole a casa. Non è chiaro, però, fino a che punto fossero state informate anche le autorità di polizia. L’indagine, condotta dall’Fbi, dovrà chiarire anche questi aspetti.
Ripartirà anche l’eterno scontro tra i partiti e nell’opinione pubblica sulla facilità di circolazione delle armi. Donald Trump twitta: «Le mie preghiere e le mie condoglianze alle famiglie delle vittime della terribile sparatoria in Florida. Nessun bambino o insegnante dovrebbe sentirsi non sicuro in una scuola americana».

Corriere 15.2.18
Le incognite di una legge tra realtà e propaganda
di Massimo Franco


È una mappa politica tutta da decifrare, quella che emergerà dalle elezioni del 4 marzo. L’incertezza sugli effetti della riforma implica la possibilità di risultati sorprendenti: in termini di partecipazione e, di conseguenza, di numeri parlamentari. Tutti i sondaggi hanno detto finora che non si intravede la possibilità di ottenere una maggioranza, per un qualunque schieramento dei tre principali. E il numero degli indecisi, che a diciassette giorni dal voto rappresentano quasi un terzo dei votanti, è composto in prevalenza da elettori del centrosinistra. In più, secondo l’Istituto Demopolis il 67 per cento degli italiani non conosce i nomi dei candidati del suo collegio uninominale.
Sono elementi che contribuiscono a far ritenere che dalle urne possano uscire sorprese. Al di là della competizione tra centrosinistra, centrodestra e Movimento 5 Stelle, e all’interno delle singole coalizioni, l’incognita è di sistema. L’Europa scommette sulla possibilità che si formi un governo, in una fase nella quale si ridisegneranno gli equilibri continentali insieme con Germania e Francia. Il problema è quale ne sarà il perno, e se ce ne sarà uno. Per come si vanno configurando le sfide nei collegi, soprattutto per l’uninominale, è reale la prospettiva che la partita venga ridotta in molte realtà a quella tra centrodestra e M5S. E non perché lo dice il leader di Forza Italia, Silvio Berlusconi.
La frattura a sinistra tra Pd e Liberi e uguali risulta, al momento, non ricomponibile. E sembra verosimile che molti dei consensi in marcia verso il partito di Pietro Grasso non siano in libera uscita ma siano stati persi da tempo dai dem di Matteo Renzi. Questo non toglie che lo scontro tra il maggior partito di sinistra e quanto è nato dopo la sua scissione promette di tradursi in un’elezione nella quale entrambi si faranno male. E beneficiari saranno centrodestra e M5S, soprattutto nei collegi dove bocciature e promozioni si giocheranno sul filo di lana di una manciata di voti: e sull’intero territorio nazionale. L’altra incognita proviene dalla tenuta dei partiti minori in coalizione.
Se non raggiungono l’uno per cento, i loro consensi andranno dispersi. Se lo toccheranno senza salire fino al tre, rimpolperanno le liste della forza maggiore. Se andranno oltre il tre, potranno avere una propria rappresentanza. Si tratta di un punto interrogativo che lambisce il centrodestra e sovrasta il Pd. Per il M5S, invece, il tema è la capacità di produrre non solo voti, ma seggi. Il Movimento grillino è dato in testa come percentuali di un singolo partito. La legge elettorale non garantisce, tuttavia, che significhi avere più deputati e senatori degli altri. D’altronde, la riforma è stata approvata da Pd, FI e Lega anche con l’obiettivo di arginare i Cinque Stelle.
Rimane da capire quanto il calcolo pagherà davvero; e misurare alla distanza l’eventuale effetto del pasticcio dei rimborsi non restituiti da parte di un gruppo di parlamentari del Movimento grillino. La storia recente consiglia di non sopravvalutarlo, nonostante le falle evidenti nell’organizzazione del Movimento e la mancanza di controlli. Eppure, la sensazione è che non sia quello il tema in grado di staccare pezzi di elettorato di opinione da una forza alimentata in buona parte, sebbene non interamente, dalle contraddizioni e dagli errori dei partiti tradizionali. Al di là della schiuma propagandistica, pesano la competenza e la credibilità dei programmi. Chissà che anche su questo non arrivi qualche sorpresa.

Repubblica 15.2.18
Sergio Zavoli
“Non so se in Italia ci sarà ancora una sinistra La tv? Ormai vedo solo la Roma”
Intervista di Concetto Vecchio


ROMA  Sergio Zavoli, 94 anni, dopo quattro legislature lascia il Parlamento. Oggi al Senato introdurrà un convegno sulla felicità. Ha fatto la storia della televisione (“Processo alla tappa”, “La Notte della Repubblica”), 52 libri, tra cui il celebre Socialista di Dio.
Cosa guarda in tv?
«Guardo la Roma».
Non più la politica?
«Sì anche, ma non mi faccia fare elenchi».
Com’è cambiato il Parlamento in questi 17 anni?
«È cresciuto un sentire più laico della politica, si può credere alla propria appartenenza ma senza fedeltà assoluta. Ma è anche cresciuto il trasformismo: sono impressionato da tutti i cambi di casacca».
Per chi voterà?
«Il mio partito è il Pd».
Non è preoccupato per la crisi della sinistra?
«Sì, un’Italia senza sinistra dopotutto sarebbe come un’Italia senza la destra, con tanti saluti alla democrazia».
Come spiega questa difficoltà?
«Quando cadde l’Ulivo cominciò anche il declino della sinistra italiana: il capolavoro di Bertinotti».
L’astensionismo rischia di essere il primo partito.
«Credo che la scissione abbia contribuito al disorientamento».
In che modo peserà?
«È stata un errore. Bersani è un leader che parla per metafore, ma un politico deve parlare il linguaggio del realismo, farsi capire».
Lei alle primarie votò Cuperlo, non Renzi.
«Gianni è colto, gentile, dispiace che non si candidi».
Renzi ora è in difficoltà?
«Fece molto bene all’inizio.
Ricorda? La Germania ci incalzava. Renzi ha avviato un percorso di crescita, di riforme.
Temo però che il 40% alle Europee non sia stato la sua fortuna».
In che senso?
«Non si è reso conto che stava minando lui stesso la strada che stava percorrendo intestandosi, da un punto di vista psicologico, il referendum».
Il mite Gentiloni adesso è visto come il salvatore della patria.
«È stato bravo, ma le vorrei fare notare che è di una mitezza non arrendevole».
La destra ora è favorita?
«Temo che finirà preda di tentazioni populiste. È stata costretta a una contaminazione con Salvini, per una questione numerica, poi però bisognerà governare. I talk show hanno finito per favorire Salvini. Ha occupato la tv».
Cosa pensa della vicenda dei rimborsi M5S?
«Non la sta seguendo».
Come mai?
«Non è il mio genere».
Per i sondaggi restano il primo partito. È stupito?
«Mi ricordano l’Uomo qualunque, ma là a un certo punto c’era un colosso come la Dc, che li stoppò».
I fatti di Macerata ci dicono che siamo diventati un Paese razzista?
«Non credo. Restiamo un popolo con una natura bonaria.
L’immigrazione è stata largamente positiva. Mi ricordo quel che mi disse il cardinale Tonini quando era ancora prete: “Sergio, fra una decina di anni avremo bisogno di qualche milione di migranti per tenere in piedi la nostra economia”».
Questa Italia le piace?
«Si è involgarita. Per fortuna Alberto Angela, che ormai è più bravo del padre, poi ci mostra il paese più bello del mondo».
Qual è l’errore più grande commesso dalla nostra classe dirigente?
«Di avere tenuto la gioventù per almeno tre generazioni in una sorta di irrilevanza sociale, privandola di ogni possibile desiderio».
Che ricordi ha di Fellini giovane?
«Lui voleva fare del cinema, io la radio. Federico mi rimproverò: “Ma così rinunci alla tua vocazione narrativa”».
L’inchiesta di cui va più fiero?
«Clausura. Venne venduta in numerosi paesi stranieri. Per la prima volta alla radio parlavano le suore. Ma più delle parole colpivano i loro silenzi».
Lei poi diventa famoso grazie al “Processo alla tappa”.
«Facevamo ascolti mirabolanti».
Chi preferiva tra Coppi e Bartali?
«Coppi era nato per vincere; Bartali per non perdere. Poi c’era Magni che era nato per vincere e non perdere indifferentemente. I miei preferiti però erano i gregari. Che impararono a parlare in tv».
Sono 40 anni dall’omicidio Moro. Poteva essere salvato?
«Sì, ma la sua politica di compromesso storico, che avrebbe stabilizzato il Paese, aveva troppi avversari. Non piaceva né agli americani, né all’Unione Sovietica».
Nella “Notte della Repubblica” lei fece parlare per la prima volta tutti i terroristi.
«Ricordo le lacrime di Bonisoli, uno dei brigatisti di via Fani, sopraffatto dalla vergogna perché nel frattempo era diventato padre. Alberto Franceschini mi disse che per gioco, per sfida, nei primi anni Settanta a Roma, aveva voluto sfiorare Andreotti per strada: perché voleva toccare il potere».
Cosa farà adesso?
«Torno al mio mestiere».
Che consigli darebbe a un giovane che vuol fare il giornalista?
«Di essere profondamente curioso. Ma anche riguardoso verso la verità, perché la verità è spesso ambigua, incerta, ritrattabile».

il manifesto 15.2.18
Irina e le altre, incubo dei nazisti nei cieli
«Una donna può tutto. 1941: volano le Streghe della notte» di Ritanna Armeni, edito da Ponte alle Grazie. La storia delle leggendarie aviatrici russe che guidavano i Polikarpov, attaccando i tedeschi
Scaffale. «Una donna può tutto. 1941: volano le Streghe della notte» di Ritanna Armeni, edito da Ponte alle Grazie. La storia delle leggendarie aviatrici russe che guidavano i Polikarpov, attaccando i tedeschi
di Andrea Colombo


Il termine «coraggio» viene speso con parsimonia nel libro di Ritanna Armeni Una donna può tutto. 1941: volano le Streghe della notte (Ponte alle Grazie, pp. 230, euro 16, scritto con la preziosa collaborazione dell’interprete Eleonora Mancini). Non c’è bisogno di nominarlo. Ogni riga di questa storia incredibile ed emozionante, raccontata a Mosca da una donna di 96 anni che da ragazza aveva volato e combattuto con uno dei primi tre reggimenti esclusivamente femminili nella storia, parla di un coraggio indomito. Il coraggio di Irina Rakobolskaja e di tutte le sue compagne, ragazze giovanissime che subito dopo l’invasione tedesca riuscirono ad arruolarsi e costituire reggimenti di sole donne prima derisi, poi temuti, infine rispettati ed esaltati.
VOLAVANO SUI POLIKARPOV, aerei di legno con la carlinga scoperta, senza strumentazione tecnica né radio: sembravano grossi giocattoli, non superavano i 1000 metri d’altitudine, però erano maneggevoli e agilissimi. Divennero l’incubo degli invasori, martellati notte dopo notte. Furono loro, i soldati di una Wehrmacht che pareva invincibile, a coniare il nome, Nachthexen, Streghe della notte.
Alle giovanissime aviatrici fu necessario un coraggio persino maggiore per fronteggiare le reazioni dei maschi: le resistenze, lo scherno, le umiliazioni, i sabotaggi. Dove mai si erano visti reggimenti di sole femmine, e orgogliosamente separatiste oltre tutto? Le chiamavano «le principessine». Ridevano dei capelli tagliati corti, delle divise cucite per soldati grossi il doppio. Le streghe combatterono consapevolmente una guerra su due fronti. Colpirono i nemici più duramente di ogni altro, con un maggior numero di missioni notturne, sfidando pericoli maggiori e compiendo acrobazie più temerarie, per superare i maschi. Dimostrarono di essere valorose quanto e più degli uomini per cacciare gli invasori nazisti.
Le aviatrici del reggimento 588, di cui Irina era vicecomandante, volevano provare di poter combattere anche meglio degli uomini, e ci riuscirono. Senza imitarli però. Dal racconto lucido della vicecomandante e dalla lettura appassionata che ne restituisce l’autrice di questo libro, la differenza nell’approccio alla guerra delle ragazze emerge spontaneamente, senza bisogno di essere sottolineata. Risalta grazie a decine di particolari, esplode nella durissima condanna con cui Irina bolla le violenze e gli stupri compiuti dall’Armata Rossa in Germania nel 1945. Le Nachthexen in Russia sono eroine nazionali. Però la loro storia è stata piano piano quasi dimentica. Ritanna Armeni e Eleonora Mancini si sono imbattute in quella leggenda reale intervistando l’ultimo sopravvissuto del gruppo di cinque soldati che per primi misero piede nell’inferno di Auschwitz.
LA RICERCA NON APPRODÒ a nulla ma dopo un po’ le streghe si manifestarono di nuovo, sotto forma di un vecchio francobollo sui banchi di un mercato dell’usato. Raffigurava Marina Raskova, leggendaria aviatrice uscita indenne da nove giorni di impossibile lotta per la sopravvivenza dopo essersi lanciata col paracadute nella Taiga. La prima a pronunciare la frase diventata il motto del Reggimento 588: «Una donna può tutto».
Gli aviatori, all’epoca, erano divi, nell’Urss come negli Usa. Marina Raskova diventò popolarissima, tanto da riuscire a strappare al riluttante Stalin, dopo l’invasione, il permesso di formare e comandare tre reggimenti femminili. Morta in missione a 31 anni, nel ’43, le fu tributato il primo funerale di Stato della guerra.
La pista aperta da quel francobollo, alla fine, ha portato Ritanna Armeni a incontrare Irina, l’ultima del reggimento ancora in vita. Era stata celebrata e stimata docente di Fisica, aveva tenuto per decenni viva la memoria di quell’epopea slittata sempre più nell’ombra. Tra la vecchia guerriera e le due italiane, tra la femminista degli anni ’70 e la strega che aveva praticato il separatismo prima che qualcuno lo pensasse, scatta un’alchimia formidabile e si prolunga per numerosi colloqui nella casa dell’anziana docente, a due passi dall’Università. Il risultato è un libro non solo bello ma magico.
IRINA TRASCINA l’autrice e l’interprete nella tempesta di una vicenda esaltante e tragica. Inizia con un gruppo di studentesse poco più che ventenni. Partono per la guerra ridendo come collegiali ma nascondono dietro l’ingenuità una determinazione ferrea. Prosegue con la rotta dell’Armata Rossa travolta dalla Wehrmacht fino a che arrivano i lutti, le prime vittime dei combattimenti aerei, a stracciare il velo quasi giocoso che aveva accompagnato le reclute persino nel duro addestramento. Poi la rabbia contro gli uomini che si rifiutano di riconoscere il loro valore, le azioni sempre più spericolate, le compagne uccise, gli aerei di legno che s’infiammano nel cielo bruciando le streghe al loro interno. Fino alla vittoria e al ritorno alla «normalità» della vita di donne, mogli e madri.
Irina è morta un mese dopo la serie di colloqui con l’autrice. Nonostante i grandi riconoscimenti ufficiali, i giornali russi non hanno speso una riga. Dopo la guerra avrebbe voluto restare nell’esercito: le fu vietato. Una donna può tutto racconta la storia gloriosa di un gruppo di donne che fecero a pezzi la divisione convenzionale dei ruoli nell’Unione sovietica, ma anche quella mesta di come quella norma soffocante fu poi silenziosamente ricostruita.
Ricorda che nessuna rottura è mai definitiva, perché il potere, ogni potere, è un muro di gomma che assorbe i colpi e sa riparare al momento giusto ogni lacerazione. Però ricorda anche che quella tela opprimente può sempre essere lacerata di nuovo.

il manifesto 15.2.18
L’aiuto al suicidio alla Consulta. Gallo: «Su Dj Fabo ordinanza storica»
Intervista. Parla l’avvocata Filomena Gallo, a capo del collegio di difesa di Marco Cappato. «La Corte afferma che solo le azioni che pregiudicano la libertà di scelta possono costituire offesa al bene che va tutelato, che è l’autodeterminazione»
di Eleonora Martini


«È un’ordinanza storica. Ed è stata un’emozione unica sentire che il presidente della Corte ha accolto tutte le eccezioni di costituzionalità dell’articolo 580 c.p. depositate nelle nostre memorie». È ancora commossa, l’avvocata Filomena Gallo che ha ascoltato attonita la sentenza con la quale la Corte d’Assise di Milano ha trasmesso ieri gli atti alla Consulta sollevando una questione di legittimità costituzionale sul reato di aiuto al suicidio introdotto nel 1930 nel nostro ordinamento col Codice Rocco, di ispirazione fascista. I giudici milanesi hanno poi prosciolto Marco Cappato dall’accusa di istigazione e rafforzamento della volontà suicidiaria di Fabiano Antoniani, l’uomo cieco e paraplegico che a fine febbraio, aiutato dal tesoriere dell’associazione Luca Coscioni, ha ottenuto in Svizzera l’eutanasia attraverso la prassi dell’assistenza al suicidio.
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Filomena Gallo e Valeria Imbrogno, compagna di Dj Fabo foto LaPresse
Filomena Gallo, che dell’associazione è segretaria, esulta insieme alla compagna di Dj Fabo, Valeria Imbrogno, che ha assistito a tutto il processo, e al collegio legale composto da costituzionalisti e penalisti che sotto la sua direzione hanno lavorato giorno e notte per ottenere questo primo importante passo verso la legalizzazione dell’eutanasia anche in Italia.
Su quali basi la Corte ha rinviato alla Consulta il procedimento?
Perché l’articolo 580 c.p., nella parte che riguarda l’aiuto al suicidio senza prevedere eccezioni nei casi simili a quello di Dj Fabo, entra in contrasto con gli articoli 3, 13 (II comma), 25 (II comma), e 27 della Costituzione. Infatti, dice la Corte, in forza degli articoli 2, 13 (I comma) e 117 della Costituzione, con riferimento agli articoli 2 e 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, deve essere riconosciuta la libertà di decidere quando e come morire. Insomma, vengono richiamati tutti quei principi che sono fondamentali nel nostro ordinamento e in quello europeo, e su cui non si può trattare.
Quindi incostituzionale nel caso di una persona affetta da patologie irreversibili e dolorose?
Sì, perché viene violato il diritto alla libertà di scelta e a proteggere la propria dignità. L’ordinanza specifica che solo le azioni che pregiudichino tale libertà possano costituire offesa al bene che va tutelato, che è l’autodeterminazione.
Un’ordinanza che apre spiragli al diritto al suicidio?
Direi di sì. Infatti la Corte fa anche un distinguo dalla legge sul testamento biologico, che, dice, nulla ha a che fare con il suicidio assistito e l’eutanasia. I quali però rientrano nella libertà di scelta della persona. La libertà, che trova fondamento nei principi cardine dettati dagli articoli 2 e 13 della Costituzione, di scegliere quando e come porre fine alla propria esistenza.
Il processo dunque è sospeso in attesa del pronunciamento della Corte costituzionale?
Sì, per la parte che riguarda l’aiuto al suicidio. Cappato invece è stato assolto dall’accusa di istigazione e rafforzamento della volontà di suicidio, che Fabo aveva più volte espresso.
È una prima assoluta…
È un pronunciamento storico, non c’era mai stata in Italia un’ordinanza di tale portata e su una tematica del genere. Quei giudici hanno adempiuto ad una responsabilità, che è della magistratura: tutelare gli italiani anche nei confronti di previsioni di legge che non sono state aggiornate alla luce della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e della nostra Carta costituzionale, perché precedenti. Quindi la persona con le sue scelte, al centro dei diritti.
Confidava in un risultato di questo genere?
Abbiamo lavorato per ottenerlo, a volte anche di notte, con il collegio legale. Per la parte di costituzionalità mi ha affiancato la professoressa Marilisa D’Amico, con la quale avevamo già lavorato per smantellare la legge 40 sulla fecondazione artificiale. E per la parte prettamente penale Massimo Rossi e Francesco Di Paola. Ma devo ringraziare anche gli altri membri del collegio legale che sono Rocco Berardi e Stefano Bissaro.

il manifesto 15.2.18
In ballo la legittimità della libera scelta a lasciare la vita
Dj Fabo. Processo Cappato, la Corte d'Assise rinvia gli atti alla Corte Costituzionale
di Massimo Villone


Il giudice di Milano assolve Marco Cappato per il reato di istigazione, e rinvia gli atti alla Corte costituzionale per quello di assistenza al suicidio. Una distinzione chiara ai penalisti, probabilmente ostica per i più.
Il codice penale non punisce il suicidio, anche solo tentato. Ed è abbastanza ovvio, anche solo considerando l’assurdità di consegnare un cadavere alle patrie galere. Punisce invece chi spinge altri al suicidio, o è in vario modo partecipe del porre termine alla vita.
Il punto focale è se esista o meno un diritto di morire, cioè di scegliere il come e il quando della cessazione della propria esistenza. Il legislatore penale del 1931 decide per il no, riconoscendo in generale la non punibilità di chi esercita un diritto (art. 51), ed invece sanzionando l’istigazione e l’assistenza al suicidio (art. 580). Laddove invece fosse riconosciuto un diritto di morire, non sarebbe certo suscettibile di censura chi aiutasse altri ad esercitare tale diritto. Vedremo in seguito le motivazioni del rinvio alla Corte costituzionale. Ma la questione al fondo non può che essere questa: esiste o no un diritto costituzionalmente protetto a scegliere il come e il quando della cessazione della propria esistenza? Parallelamente, può il legislatore porre limiti a tale scelta, e conseguentemente obbligare a vivere chi ha deciso diversamente?
Finora è mancata la risposta conclusiva. Non sono bastati casi eclatanti come Welby ed Englaro, né la serie ormai piuttosto lunga di viaggi in Svizzera.
Anche la recente legge sul testamento biologico (219/2017) non è priva di ambiguità, soprattutto nella figura del medico, che non è sempre chiamato alla mera esecuzione della volontà del paziente, ma in alcune ipotesi sembra configurarsi come soggetto titolare di valutazioni e decisioni proprie. Cosa che potrebbe riverberarsi sulla pienezza dell’autodeterminazione del paziente, specificamente nell’ipotesi di rifiuto di trattamenti salvavita.
L’art. 32 Cost. sancisce il diritto a rifiutare trattamenti sanitari, salvo gli obblighi di legge. Qui il legislatore è abilitato ai soli interventi volti alla tutela della salute pubblica, come nel caso dei vaccini (cfr. da ultimo, sent. 5/2018). Ma dispone anche che «la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». Un “rispetto” cui si allinea l’art. 1 della Carta di Nizza (poi tradotto nella Costituzione europea) per cui «la dignità umana è inviolabile. Essa deve essere rispettata e tutelata». La domanda quindi è: nel “rispetto” e nella “dignità” troviamo anche il riconoscimento di poter decidere autonomamente e consapevolmente di porre termine alla propria vita? O possiamo essere obbligati dal legislatore a vivere, pur non volendolo?
Non sembra dubbio che rispetto e dignità comprendano la scelta ultima ed essenziale sull’esistere. Dove sono quei valori se chi ne è titolare è costretto all’alba di ogni giorno ad avviarsi per un percorso che vorrebbe abbandonare?
Quali sarebbero i valori da bilanciare, tali da giustificare l’obbligo a proseguire? Esiste forse una dignità di vita che prescinde dalla dignità della vita di ciascuno? La risposta appare chiara, almeno per un legislatore che voglia definirsi laico. E non solo per chi è in condizioni terminali e vuole sottrarsi alla sofferenza. Ma anche per colui che, non trovandosi in quelle condizioni, ritiene senza se e senza ma di voler concludere la propria esperienza di vita. Anche per quest’ultimo varrebbe la domanda sul perché e a difesa di cosa impedire una libera scelta.
Certo, non ci sono risposte facili. Forse il giudice di Milano avrebbe potuto giungere all’assoluzione di Cappato per il reato di assistenza, anche per via di una interpretazione secundum constitutionem dell’art. 580 c.p. Non l’ha fatto, e vedremo cosa dirà la Corte. Ci auguriamo solo che non dia una risposta a metà, riconoscendo il diritto ma aprendo al tempo stesso a una troppo ampia discrezionalità legislativa. Così tutto rimarrebbe nelle mani delle pulsioni maggioritarie del momento.
Ci dica dunque una parola chiara, con coraggio, e ci aiuti a porre fine al turismo funerario, prova ultima e inaccettabile delle diseguaglianze. Totò si sbagliava. In questo paese rischiamo che nemmeno la morte sia una livella.

il manifesto 15.2.18
Sul caso Netanyahu l’ombra dello scontro tra il premier e Yair Lapid
Israele. Respinge le accuse di corruzione il primo ministro israeliano, di cui la polizia ha chiesto l'incriminazione. Un testimone chiave nell'inchiesta è l'ex ministro delle finanze Yair Lapid, un accanito rivale di Netanyahu. Deciderà il procuratore Mandeblit chiamato ad approvare formalmente l'incriminazione.
di Michele Giorgio


Sigari e champagne, parafrasando un vecchio detto, rischiano di ridurre in cenere Benyamin Netanyahu. Ma il premier israeliano, di cui martedì sera la polizia ha chiesto alla magistratura l’incriminazione per corruzione, non cede e respinge al mittente l’appello alle dimissioni immediate lanciato ieri dal leader laburista Avi Gabbai e da altri esponenti dell’opposizione. Netanyahu assicura che il suo governo è «stabile» che nessuno dei leader di cinque partiti che compongono la maggioranza – la più a destra della storia di Israele – progetta di andare ad elezioni anticipate. Ha quindi descritto come «faziose, estreme, che non stanno in piedi» le accuse che gli vengono rivolte nel cosiddetto “caso 1000”, casse di sigari pregiati e di champagne di altissima qualità ricevute da importanti uomini d’affari, secondo la polizia in cambio di favori, e nel “caso 2000”, l’accordo che avrebbe fatto con Arnon Mozes, editore del quotidiano Yedioth Ahronot a danno quotidiano rivale Israel Hayom.
Netanyahu ha ragione quando dice che nessuno degli alleati di governo vuole (per ora) la sua uscita di scena. Anche loro sostengono che quei regali dal valore di circa 250mila euro sono soltanto espressioni di amicizia, senza secondi fini. Il premier porta avanti un programma, dal 2009, che soddisfa ampiamente il sionismo-religioso che ha preso il controllo dei vertici politici. Senza dubbio è il campione della colonizzazione sfrenata dei Territori occupati, delle leggi anti-palestinesi e contro gli israeliani dissidenti e il protagonista di importanti “successi” diplomatici, come la recente dichiarazione di Donald Trump su Gerusalemme e della crisi nelle relazioni tra Usa e palestinesi. Magari i leader alleati non lo sopportano più ma sanno di non avere il suo peso internazionale. Nessun dirigente israeliano è tanto convincente come Netanyahu nel rappresentare Israele come il baluardo della “civiltà occidentale” in Medio Oriente. E comunque non farebbe il loro interesse la fine anticipata di un esecutivo che ha appena cominciato a raccogliere a piene mani dalla politica dell’Amministrazione Trump nella regione.
Tuttavia le sorti di Netanyahu restano legate alla decisione che prenderà il procuratore generale Avishai Mandelblit chiamato a valutare, carte alla mano, la richiesta di incriminazione presentata dalla polizia. Così se da un lato i tre principali alleati del premier – Moshe Kahlon (del partito centrista Kulanu), Naftali Bennett (del partito sionista-religioso Casa ebraica) e Avigdor Lieberman (del partito ultranazionalista Israel Beitenu) – ripetono in queste ore che occorre attendere le conclusioni della magistratura, dall’altro cominciano già a mettere le mani avanti. Bennett, ad esempio, ha fatto notare che «il ricevere regali così costosi per un periodo così lungo non rientra nelle aspettative dei cittadini di Israele dal loro premier». Kahlon invita a «cessare gli attacchi alla polizia» che lanciano Netanyahu e alcuni deputati del suo partito, il Likud. Da parte sua Lieberman afferma che Netanyahu potrà fare il premier «fino a quando non sarà condannato da un tribunale». Tutti e tre sanno bene che, dovesse scattare l’incriminazione formale, le dimissioni di Netanyahu sarebbero inevitabili. Gli “alleati” del primo ministro perciò sono cauti e seguono gli sviluppi. Forse già pensano ad un piano B, a un’alleanza post-elettorale con il leader del partito laico centrista Yair Lapid che vola nei sondaggi politici e che su temi centrali – colonie, Gerusalemme, sicurezza – è nettamente schierato a destra.
Lapid peraltro è uno dei testimoni-chiave contro Netanyahu. La sua testimonianza è la “vera bomba” della vicenda scriveva ieri il quotidiano Haaretz, facendo notare Lapid «è la più seria alternativa a Netanyahu». Ex attore e giornalista televisivo, fra il 2013 e il 2014 è stato ministro delle finanze in un governo guidato proprio da Netanyahu. La sua testimonianza nel “caso 1000” riguarda il periodo in cui era ministro. Secondo la polizia, il primo ministro tentò allora di imporre una estensione temporale della legge che concedeva benefici fiscali a chi riportava capitali in Israele facendo un favore al magnate di Hollywood, Arnon Michan, che avrebbe ricambiato con regali costosi. Lapid si rifiutò di estendere quella legge e ieri si è descritto come «un baluardo contro la corruzione». La partita però non è chiusa. Il procuratore Mandelblit non potrà non considerare che il testimone chiave contro Netanyahu è il politico Yair Lapid che da anni cerca di sostituire il primo ministro.

il manifesto 15.2.18
Canapa mundi, oltre il pregiudizio
di Gennaro Maolucci


Possono ignorare la canapa. Possono criminalizzarla. Possono far finta che non abbia un potenziale terapeutico. Possono negare la sua ecosostenibilità e la sua capacità di crescere rigogliosa in ogni habitat. Possono tagliare le piante spontanee che nascono negli angoli del nostro territorio. Possono sostituirla con la plastica e il cotone. Possono dire che ha un odore sgradevole. Possono considerarla «roba da fricchettoni».
Sulla canapa si possono dire tante cose, eppure migliaia di aziende in tutta Italia e nel mondo stanno investendo su questa materia prima incentivando l’innovazione e un nuovo mercato sempre più di successo. Ogni giorno intorno a noi nascono decine di aziende e di negozi che la producono e la vendono sotto ogni forma: abbigliamento, cosmesi, alimentare, birre e bibite, materiali edili, fiori di canapa, medicine e tanti altri articoli per la salute e il benessere della persona. Si parla sempre di più di questa verde protagonista, l’informazione viaggia veloce grazie alla rete ma anche tramite programmi radiofonici, riviste specializzate nel settore e libri a tema. La canapa è un catalizzatore di interessi ed è facile trovarla dalla carta stampata ai fornelli perchè anche la creatività in cucina è una forma di conoscenza. Così gli chef si sbizzarriscono con le ricette più stravaganti, golose ma anche benefiche: la canapa non è solo un ingrediente versatile ma anche un ottimo alimento per la nostra salute ricca di proteine e acidi grassi essenziali. Sono sempre più numerosi gli scienziati che confermano le sue proprietà nutritive e sono altrettante le equipe mediche che stanno studiando le sue potenzialità, gli effetti curativi e palliativi per il trattamento di diverse patologie. Le persone fanno la fila per averla. Puoi essere d’accordo con loro o non esserlo ma non puoi ignorarla. Non potete ignorarci.
La quarta edizione di Canapa Mundi è più ricca che mai: più di 200 aziende italiane e internazionali dimostreranno nonostante i pregiudizi e gli attacchi che la canapa è una pianta straordinaria dal potenziale infinito. Un evento che risuona come un megafono per aziende, associazioni, inventori, ricercatori e tecnici, capace di dare voce a chi non viene ascoltato.
Canapa Mundi esiste per tutti quelli che non rispettano lo status quo, per coloro che guardano oltre, per gli impertinenti, per tutti quelli che non ci stanno. Per tutti i coraggiosi che vogliono cambiare il mondo e lo stanno trasformando con pazienza e determinazione.
Canapa Mundi è solo la punta di un iceberg che sta cavalcando un mercato crescente, un progetto alimentato dalla passione che pian piano sta abbattendo i pregiudizi legati a questa meravigliosa pianta, per anni relegata negli angoli più oscuri della cultura occidentale. Abbiamo organizzato nella capitale un’intera settimana all’insegna della canapa. Un tour per scoprire i luoghi dove sperimentarla a 360 gradi: ristoranti, pub, librerie e spazi culturali, poi la Fiera internazionale al Palacavicchi, con una conferenza accademica che tratterà i temi più discussi e attuali. Non mancheranno i workshop, il museo della canapa, show cooking e molto altro. Anche in questa edizione Canapa Mundi si ripropone come un luogo di incontro, confronto e conoscenza, dove sperimentare le possibilità oltre il pregiudizio.
* presidente di Canapamundi

il manifesto 15.2.18
Quando la rivoluzione è vera: i discorsi di Thomas Sankara
di Angelo Mastrandrea


Parla forte e chiaro, in questi dieci discorsi finora inediti, il pensiero del presidente burkinabè Thomas Sankara, assassinato nel 1987 dopo soli quattro anni alla guida del paese saheliano. Fu un capo di Stato davvero non come gli altri: riuscì a proporre, in una realtà estrema, un modello sociale, politico ed economico capace di salvare il mondo.
C’è tutto l’internazionalismo antimperialista e panafricano caratteristico di Sankara nell’omaggio a Samora Machel (primo presidente del Mozambico post-coloniale) e nell’impegno a sostenere, costi quel che costi, il Nicaragua sandinista assediato dagli Stati uniti. C’è una percezione netta della crisi ambientale mondiale, e uno sforzo concreto di resilienza in ambiente estremo, nell’incredibile discorso ai «compagni forestali» del Burkina Faso. Una lotta al tempo stesso contro la miseria e contro il degrado ambientale che si autoalimenta(va)no in un circolo vizioso. Quell’ arida terra iniziò a popolarsi di boschi-cintura intorno ai villaggi, ma seguirono dopo decenni di incuria, morto Sankara. Ora finalmente la Grande muraglia verde dalla Mauritania a Gibuti potrebbe fare da barrera alle sabbie del Sahel. Si vedrà.
C’è la proposta sankarista di una «geopolitica anticoloniale e di pace» nel discorso rivolto al presidente francese François Mitterrand in visita nel 1986 nel paese degli integri, che da «concentrato di disgrazie» stava inventando il proprio futuro.
C’è tutta l’intuizione pedagogica di un presidente «non come gli altri», nei discorsi sulla nuova scuola e sulla qualità dell’insegnamento e dell’educazione più in generale.
C’è la sintesi del lavoro di sviluppo titanico, a tutto campo allora in corso in Burkina, nella conferenza stampa che apre il 1987.
Alla carrellata – che utili note storiche a cura degli editori completano e contestualizzano – fa seguito la postfazione di Ouattara Gaoussou, del Movimento della diaspora africana: vi si ricordano nei dettagli le giornate di Thomas Sankara, impegnato in un lavoro colossale ed esempio di semplicità di vita, contro il consumismo post-coloniale e i privilegi delle élite.
Sankara, un vero rivoluzionario fra tanti falsari.

La Stampa 15.2.18
Lavorare meno per essere più felici
Il sociologo Etzioni : “L’era dei robot segnerà il declino del consumismo e la rinascita dei legami comunitari”
di Amitai Etzioni


La recente e prevista perdita di posti di lavoro e il cambiamento nella natura di molti di quelli disponibili, nonché il rallentamento economico (e la crescente diseguaglianza), sono tutti fattori importanti nella crescita dell’alienazione politica e di una varietà di atteggiamenti destrorsi, ivi compresi xenofobia, razzismo, antisemitismo e sostegno a partiti e politici radicali di destra. Lo stesso sviluppo è spesso collegato a un’onda populista. Da qui la domanda se sia possibile identificare altre fonti di gratificazione rispetto a quelle ottenute grazie al lavoro per chi abbia raggiunto un livello di reddito tale da garantire il soddisfacimento dei bisogni «di base», ma poco di più. Si possono creare altre fonti di legittimazione che non si basino su un tenore di vita in continua crescita?
Un passo verso lo sviluppo di una prospettiva diversa sulle proprie condizioni economiche è fornire dati che indichino con forza come una volta raggiunto un certo livello di reddito, ulteriori introiti (e da qui la capacità di spesa e consumo) aggiungano poco al grado di appagamento. I risultati delle scienze sociali (che non vanno tutti nella stessa direzione e hanno altri ben noti limiti) nel complesso sembrano rinforzare la nozione che un reddito più elevato non aumenti in modo significativo la soddisfazione della gente, con l’importante eccezione dei poveri.
Nella ricerca di alternative al benessere portato dalla crescita economica e lavorativa, si osserva che in tutta la storia umana ci sono state molte culture e fonti di appagamento che hanno rifuggito il consumismo e misurato la qualità della vita in base ad altri valori fondamentali. [...]
Per sapere quando il reddito può essere limitato senza frustrare i bisogni umani fondamentali, ci viene in soccorso Abraham Maslow, suggerendo che gli umani hanno una gerarchia di bisogni. Ci sono le necessità di base; una volta soddisfatte queste, seguono l’affetto e l’autostima, e finalmente possiamo raggiungere l’apice della soddisfazione umana, grazie a ciò che lui chiama «autorealizzazione». Ne consegue che finché l’acquisizione e il consumo di beni soddisfano le necessità di base - sicurezza, rifugio, cibo, abbigliamento, assistenza sanitaria e istruzione - l’aumento della ricchezza contribuisce all’autentico benessere. Tuttavia, una volta che il consumo viene utilizzato per soddisfare i bisogni più elevati, si trasforma in consumismo e il consumismo diventa una malattia sociale. [...]
Maslow non suggerisce una vita austera di stenti e mortificazione o di fare della povertà una virtù. Piuttosto, sostiene che sia pienamente legittimo avere le risorse materiali necessarie per garantire le esigenze di base. Tuttavia, il consumo si trasforma in un’ossessione quando - soddisfatte le necessità primarie - le persone usano questi mezzi per cercare di comprare affetto, stima e anche autorealizzazione. Non occorre lavorare molto per guadagnare quello che serve per soddisfare i bisogni di base se questi sono ciò che a una persona serve per essere ben nutrita, vestita, alloggiata e sicura - ma non per acquistare beni che indicano il raggiungimento di uno status.
Quindi si possono trovare cose che danno soddisfazione e significato alla vita diverse dai beni materiali.
Le culture che attribuiscono grande valore alle seguenti attività e scopi qui sono definite «comunitarie» perché ogni attività implica la formazione e il nutrimento di legami di affinità con gli altri e il servizio al bene comune. Il termine «postmoderno» è usato perché il riferimento non è alle comunità precedenti che spesso erano opprimenti e schiaccianti (quelle che Erving Goffman chiamava le istituzioni totali), ma a quelle nuove e più liberali. Ci sono tre principali fonti di felicità non legata alle cose materiali che assicurano anche una vita che va oltre il sé.
Trascorrere del tempo con altre persone con le quali si condividono legami di affinità - figli, coniugi, amici, membri della propria comunità - rende le persone più felici, come è stato spesso dimostrato. L’approvazione delle persone a cui ci si sente legati è la principale fonte di affetto e stima, ovvero il secondo livello dei bisogni umani secondo Maslow. Tuttavia, un punto importante da non trascurare è che si tratta più di coinvolgimento nelle relazioni che di gratificazione dell’ego. Queste relazioni sono basate sulla mutualità, in cui due persone «danno» a ciascuna e «ricevono» nello stesso atto.
Le persone impegnate in relazioni affettive durature e significative le trovano una fonte importante di arricchimento reciproco, che può essere ottenuta con pochissime spese o costi materiali. Derek Bok scrive che «diversi ricercatori hanno concluso che le relazioni umane e le connessioni di ogni tipo contribuiscono alla felicità più di qualsiasi altra cosa». Per contro, le persone socialmente isolate sono meno felici di chi ha forti relazioni sociali. Secondo uno studio, «Gli adulti che si sentono socialmente isolati sono anche caratterizzati da livelli più elevati di ansia, umore negativo, abbattimento, ostilità, paura di una valutazione negativa e stress percepito, e da indici più bassi di ottimismo, felicità e soddisfazione per la vita».
La ricerca dimostra che le persone sposate sono più felici di quelle sole, divorziate, vedove, separate o conviventi. La presenza di amicizie strette può avere un impatto quasi altrettanto forte sulla felicità di un matrimonio riuscito.
I ricercatori che hanno esaminato l’effetto del coinvolgimento in una comunità (invece della mera socializzazione con gli amici o la famiglia) hanno parimenti trovato una forte correlazione con la felicità. Uno studio, che ha valutato i dati di sondaggi svolti in quarantanove paesi, ha rilevato che l’appartenenza a un’organizzazione ha una significativa correlazione positiva con la felicità. Osserva Bok: «Alcuni ricercatori hanno scoperto che semplicemente frequentare le riunioni mensili di un club o fare volontariato una volta al mese induce a un incremento nel benessere equivalente a un raddoppio delle entrate». Altri studi hanno scoperto che le persone che dedicano considerevoli quantità di tempo al volontariato sono più soddisfatte della propria vita. [...]
Numerose prove indicano inoltre che le persone che si considerano religiose, esprimono una fede in Dio o frequentano regolarmente i servizi religiosi sono più soddisfatte di quelle che non lo fanno. Secondo uno studio, dirsi d’accordo con la frase «Dio è importante nella mia vita» vale 3,5 punti in più su una scala di felicità di 100 punti. (Per fare un confronto, la disoccupazione è associata a un calo di 6 punti sulla stessa scala). Altri studi dimostrano che gli americani con una profonda fede religiosa sono più sani, vivono più a lungo e hanno tassi più bassi di divorzio, crimine e suicidio.
Ci sono poche ricerche sulle attività spirituali diverse da quelle religiose. Tuttavia, quelle esistenti indicano come la partecipazione ad attività che hanno un significato profondo per l’individuo sia associata alla felicità. Ad esempio, due studi che hanno esaminato gruppi che hanno scelto di cambiare il proprio stile di vita per seguire valori personali come «compatibilità ambientale» e «volontaria semplicità» hanno riscontrato come entrambi abbiano sperimentato livelli più elevati di benessere. Il volontariato e l’azione politica, che sono intrinsecamente attività comunitarie, forniscono anche fonti di soddisfazione non consumistica.
Quindi, immaginiamo un mondo in cui tutta la popolazione - e non solo una minoranza - viva come gli uomini liberi ad Atene, mentre i robot svolgono il ruolo della classe operaia. Karl Marx, che scriveva in un momento storico in cui le ore lavorative erano in media molto più lunghe di oggi, sognava che la società potesse produrre in 6 ore il surplus necessario, anche più di adesso in 12; e allora tutti avranno 6 ore di tempo a disposizione, «la vera ricchezza».
Grazie all’evoluzione della tecnologia dai tempi di Marx, è probabile che la giornata lavorativa potrà essere di nuovo ridotta della metà e che tutti possano avere ancora più tempo libero - la «vera ricchezza» - per creare legami di affinità, essere coinvolti nelle loro comunità e trovare appagamento nelle attività spirituali.
Traduzione di Carla Reschia

Repubblica 15.2.18
Intervista
Il medico con 2mila pazienti
“Io, stacanovista della visita da dieci mutuati all’ora”
di Sara Strippoli


TORINO Trenta-quaranta pazienti in quattro ore. Paolo Gambetta è un medico di medicina generale da dieci pazienti all’ora, una media di sei minuti a testa. Sorride: «Posso definirmi un dottore “megamassimalista?». Nello studio al primo piano di un palazzo popolare nel cuore della Porta Palazzo multietnica, primo quartiere ad aver sperimentato l’impatto dell’arrivo degli stranieri a Torino, accende il computer e mostra l’interminabile elenco dei suoi assistiti, 2118 persone ad oggi, 2125 qualche giorno fa. Quattrocento sono italiani, tutti gli altri extracomunitari in regola con il permesso di soggiorno.
Cinquecento sono marocchini.
Poi, nell’ordine, egiziani, senegalesi, nigeriani, rumeni, cinesi. Qualcuno dal Bangladesh: «Ho fatto il conto, i miei pazienti arrivano da 54 Paesi diversi. Mi sto facendo una cultura, lingua, patologie che caratterizzano le diverse etnie, abitudini. Sto imparando molto». In realtà lo studio Gambetta-Carbonato, il collega che divide lo spazio con lui, è un esempio record in città.
In due seguono quattromila pazienti.
Dottor Gambetta, quanti anni ha?
«Ho 65 anni, potrei essere in pensione ma questo punto continuo fino a 68. E sa una cosa?
Nella nostra équipe di area, dove siamo venti medici, la più giovane sta per compiere cinquant’anni.
Entro cinque anni la metà di noi sarà a casa. Fare il medico non è un mestiere per giovani».
Anche in Piemonte l’80 per cento dei medici andrà in pensione fra il 2016 e il 2032.
Quali scenari immagina?
«Necessariamente dovrà cambiare il modello di assistenza. In caso contrario si dovrà arrivare a importare i medici come capita in altri paesi europei».
I suoi numeri sono cresciuti perché altri colleghi in zona sono andati in pensione?
«Un collega è andato in pensione, ed è possibile che alcuni suoi pazienti abbiano chiesto di passare al nostro studio, ma con gli stranieri funziona molto il passa parola. Si sparge la voce nella comunità di appartenenza e non è soltanto una storia di quartiere. Da me arrivano nigeriani che stanno a Mirafiori, dall’altra parte di Torino» .
Le pare compatibile con la professione di medico avere una media di sei minuti per paziente?
«È solo una media. C’è chi viene per una ricetta e allora bastano pochi minuti, ma se ho una visita da fare dedico più tempo. Sì, direi che è possibile, e io non sono e non mi sento Superman. Ricevo tre-quattro ore al giorno dal lunedì al venerdì ma finché in sala d’attesa c’è qualcuno non me ne vado. Ma questi sono numeri possibili proprio perché i tre-quarti dei miei pazienti sono extracomunitari. In generale sono più giovani, e quindi si ammalano meno. Di regola, poi, gli stranieri sono meno impazienti e meno esigenti degli italiani».
Sarebbe diverso se avesse 2118 italiani?
«Sarebbe insostenibile. Non ce la farei».
Ora prescrive molto e visita poco?
«Da me gli stranieri vengono, ma le situazioni di cronicità sono più rare. Con molti ci confrontiamo via WhatsApp. Così risparmiamo tempo. Chiedono consigli, mandano messaggi vocali. Anche in arabo. Quelli non li capisco e rispondo che devono fare uno sforzo usando l’taliano».
Ha dato il numero di cellulare a tutti?
«A chi me lo chiede. Mi chiamano anche la sera».
Da quanto tempo ha tutti questi pazienti?
«Un anno fa ne avevo circa 900 persone. Poi c’è stata l’impennata. Ma da un po’ i numeri sono stabili, qualcuno lascia, altri arrivano».
Non può dire di no?
«Quella del medico è una scelta del paziente. In ogni caso non mi sentirei di rifiutare, anche perché ho ritrovato la passione per il mio lavoro. Si sta rivelando una bella esperienza».
Non ci dica che riesce anche ad andare a fare visite a domicilio
«Poche, ma se serve vado».
Quanto guadagna?
«Seimila euro netti».