internazionale 3.2.2018
Le due facce della libertà
di Gustav Seibt, Süddeutsche Zeitung, Germania
Se il benessere non è condiviso non può esserci democrazia, affermava Hannah Arendt in un testo inedito appena scoperto
Come
viene al mondo il nuovo? Non di rado attraverso il recupero di qualcosa
di antico. Il concetto di rivoluzione, che ci fa pensare a un taglio
netto con il passato per fare posto a qualcosa di completamente nuovo,
nasce dall’astronomia, e precisamente dalla descrizione del moto
regolare dei corpi celesti. Il termine, anticamente, indicava il
periodico ritorno a un ordine regolato da leggi. Per esempio, la
gloriosa rivoluzione inglese del 1688 fu considerata una restaurazione
del potere sovrano legittimo, vincolato da leggi.
Hannah Arendt,
una delle grandi teoriche della rivoluzione, ne parlò in una conferenza
il cui testo è stato pubblicato solo oggi, dopo essere stato trovato tra
le sue carte. Si tratta di un grande testo di filosofia della storia
che discute i rapporti tra libertà e rivoluzione lungo un arco temporale
assai ampio. Hannah Arendt portò avanti incessantemente questa
riflessione, sia sulle sollevazioni dell’era contemporanea, in
particolare degli anni sessanta, sia sulle rivolte coloniali e
studentesche. È questo che rende così stimolante il testo pubblicato
oggi. Per Arendt la libertà è sempre politica: si realizza nella
collaborazione tra liberi e uguali in uno spazio politico dove sorgono
dispute su quale sia la giusta forma di convivenza. La libertà è
repubblicana, nel senso che la forma-stato della repubblica, conquistata
con le rivoluzioni dell’età moderna, è il suo luogo e il suo obiettivo.
Ma questa libertà politica già presuppone la liberazione degli
individui dalla costrizione e dal bisogno. Così dicendo Arendt relega in
secondo piano l’idea di “libertà negativa”, un classico concetto del
liberalismo che si riferisce al diritto dell’individuo di proteggersi
dallo stato e dalla società per poter proseguire in pace i suoi scopi
privati. La libertà suprema è quella che “ha luogo tra persone che nella
vita pubblica condividono la gioia collettiva di essere viste, udite,
riconosciute e ricordate dagli altri”. Libertà è dunque vivere in un
mondo che diventa oggetto del fare, più che il piacere edonistico
vissuto in uno spazio privato, garantito dai diritti umani, dove si
calcola minuziosamente quale espressione della propria libertà rischia
di entrare in conflitto con gli interessi altrui. Per Arendt, la libertà
positiva è l’esistenza politica secondo il modello dell’antichità,
senza il quale, sostiene la filosofa, non sarebbero state possibili
neanche le rivoluzioni repubblicane dell’era moderna. Inoltre la libertà
positiva realizza la possibilità antropologica del sempre nuovo, già
insita nel fatto che noi tutti siamo nati e venuti al mondo come nuovi
esseri. La libertà è dunque inevitabile e imprevedibile come la vita
stessa. Tuttavia la libertà repubblicana, essenzialmente antropologica,
per realizzarsi ha bisogno di certe condizioni materiali. Nel testo
recentemente ritrovato, Arendt le delinea in modo chiaro. I cittadini
americani e gli intellettuali francesi che misero in moto le grandi
rivoluzioni della modernità – quella americana del 1776 e quella
francese del 1789 – avevano “la libertà di essere liberi”, scrive
Arendt, perché non avevano preoccupazioni sul piano materiale, vivevano
di proprietà terriera e di rendita e non facevano certo parte dei
misérables costretti a lottare ogni giorno contro la povertà per
sopravvivere.
Rivoluzioni e totalitarismo
La libertà di
essere liberi è quello che gli antichi chiamavano “agio”. In una
conferenza del 1961, Arendt vedeva il fondamento materiale della libertà
americana nella ricchezza di materie prime e nella disponibilità di
terra. Nel 1967, nel testo appena pubblicato, Arendt affronta il tema
della schiavitù. Ma secondo i padri fondatori, la schiavitù riguardava
“un’altra razza”. Come dire che il bisogno e la miseria non andavano
intesi come un problema specifico della federazione repubblicana:
stavano fuori e sotto, ai margini e nelle fondamenta. Questa
marginalizzazione della questione sociale era un tratto che la giovane
repubblica statunitense condivideva con le poleis dell’antichità. Alla
rivoluzione francese, questa concentrazione su un nucleo costituzionale e
sociale fu negata. In questo caso la rivoluzione non dovette soltanto
fondare una repubblica, ma fare subito i conti con la questione sociale,
con la miseria degli affamati che popolavano le campagne e delle masse
urbane. Le privazioni delle madri i cui figli pativano la fame – e qui
Arendt cita un passo impressionante dello storico britannico Acton –
conferirono a quella rivoluzione “la durezza del diamante”. Ma la spinta
alla rivoluzione sociale, alla gigantesca ridistribuzione delle
proprietà dei nobili e della chiesa, è la stessa che spinse la
rivoluzione francese anche verso il Terrore. essa dovette liberare tutto
il popolo dalla miseria, “liberare le persone cosicché potessero essere
libere”. Insomma, oltre a essere un radicale cambiamento della
forma-stato, la rivoluzione francese fu anche un profondo rivolgimento
della società. Ma questo spinse più volte quella rivoluzione, e le
successive avvenute in Europa, verso la deriva totalitaria che gli hanno
rimproverato i critici liberali della cosiddetta “libertà positiva”,
cioè la libertà di cambiare il mondo. Il testo di Hannah Arendt appena
riscoperto è stato inserito in un volume miscellaneo che documenta la
polemica filosofica suscitata dal celebre saggio di Isaiah Berlin Due
concetti di libertà, del 1958. Berlin aveva chiare le potenzialità
totalitarie del concetto di libertà positiva affrontato da Hannah Arendt
nei suoi scritti sulla rivoluzione, ma la filosofa dà scarso peso alla
libertà negativa che Berlin aveva maggiormente a cuore. Per Arendt le
due facce della libertà stanno tra loro in un rapporto
d’interdipendenza: i padri delle rivoluzioni del 1776 e del 1789 erano
già ampiamente liberi, ma la libertà repubblicana di cui erano esempio
alla lunga non poté arrestarsi davanti alle barriere del privilegio. Non
è facile controllare l’individualismo della libertà negativa. E così la
tragedia della rivoluzione francese fu che, proprio per amore del bene
delle masse, tornò a quel despotismo contro cui era insorta all’inizio,
sfociando in una dittatura. Lo sguardo di Hannah Arendt è lucido.
Secondo lei, nella sua epoca non sono “le concezioni politiche moderne,
tra cui le idee rivoluzionarie, a rendere possibile per tutti la libertà
di essere liberi”, ma il progresso tecnico. È questo a liberare i molti
dal peso dei pochi, “in modo che almeno alcuni possano essere liberi”.
La tecnica si sostituisce alla schiavitù. Senza benessere di massa,
niente democrazia di massa; e senza democrazia, niente diritti né
libertà per gli individui e le masse. Insomma Hannah Arendt, al pari di
Isaiah Berlin, non sottovalutò il potenziale dispotico della democrazia
di massa. Ma è evidente, anche se non si dice ancora abbastanza
apertamente, che oggi di fronte alle tecnologie della comunicazione, di
raccolta dati e della sorveglianza, la libertà negativa dell’individuo,
che Hannah Arendt guarda con molta sufficienza, assume una portata
dirompente drammaticamente nuova.