martedì 6 febbraio 2018

internazionale 3.2.2018
Le due facce della libertà
di Gustav Seibt, Süddeutsche Zeitung, Germania
Se il benessere non è condiviso non può esserci democrazia, affermava Hannah Arendt in un testo inedito appena scoperto


Come viene al mondo il nuovo? Non di rado attraverso il recupero di qualcosa di antico. Il concetto di rivoluzione, che ci fa pensare a un taglio netto con il passato per fare posto a qualcosa di completamente nuovo, nasce dall’astronomia, e precisamente dalla descrizione del moto regolare dei corpi celesti. Il termine, anticamente, indicava il periodico ritorno a un ordine regolato da leggi. Per esempio, la gloriosa rivoluzione inglese del 1688 fu considerata una restaurazione del potere sovrano legittimo, vincolato da leggi.
Hannah Arendt, una delle grandi teoriche della rivoluzione, ne parlò in una conferenza il cui testo è stato pubblicato solo oggi, dopo essere stato trovato tra le sue carte. Si tratta di un grande testo di filosofia della storia che discute i rapporti tra libertà e rivoluzione lungo un arco temporale assai ampio. Hannah Arendt portò avanti incessantemente questa riflessione, sia sulle sollevazioni dell’era contemporanea, in particolare degli anni sessanta, sia sulle rivolte coloniali e studentesche. È questo che rende così stimolante il testo pubblicato oggi. Per Arendt la libertà è sempre politica: si realizza nella collaborazione tra liberi e uguali in uno spazio politico dove sorgono dispute su quale sia la giusta forma di convivenza. La libertà è repubblicana, nel senso che la forma-stato della repubblica, conquistata con le rivoluzioni dell’età moderna, è il suo luogo e il suo obiettivo. Ma questa libertà politica già presuppone la liberazione degli individui dalla costrizione e dal bisogno. Così dicendo Arendt relega in secondo piano l’idea di “libertà negativa”, un classico concetto del liberalismo che si riferisce al diritto dell’individuo di proteggersi dallo stato e dalla società per poter proseguire in pace i suoi scopi privati. La libertà suprema è quella che “ha luogo tra persone che nella vita pubblica condividono la gioia collettiva di essere viste, udite, riconosciute e ricordate dagli altri”. Libertà è dunque vivere in un mondo che diventa oggetto del fare, più che il piacere edonistico vissuto in uno spazio privato, garantito dai diritti umani, dove si calcola minuziosamente quale espressione della propria libertà rischia di entrare in conflitto con gli interessi altrui. Per Arendt, la libertà positiva è l’esistenza politica secondo il modello dell’antichità, senza il quale, sostiene la filosofa, non sarebbero state possibili neanche le rivoluzioni repubblicane dell’era moderna. Inoltre la libertà positiva realizza la possibilità antropologica del sempre nuovo, già insita nel fatto che noi tutti siamo nati e venuti al mondo come nuovi esseri. La libertà è dunque inevitabile e imprevedibile come la vita stessa. Tuttavia la libertà repubblicana, essenzialmente antropologica, per realizzarsi ha bisogno di certe condizioni materiali. Nel testo recentemente ritrovato, Arendt le delinea in modo chiaro. I cittadini americani e gli intellettuali francesi che misero in moto le grandi rivoluzioni della modernità – quella americana del 1776 e quella francese del 1789 – avevano “la libertà di essere liberi”, scrive Arendt, perché non avevano preoccupazioni sul piano materiale, vivevano di proprietà terriera e di rendita e non facevano certo parte dei misérables costretti a lottare ogni giorno contro la povertà per sopravvivere.
Rivoluzioni e totalitarismo
La libertà di essere liberi è quello che gli antichi chiamavano “agio”. In una conferenza del 1961, Arendt vedeva il fondamento materiale della libertà americana nella ricchezza di materie prime e nella disponibilità di terra. Nel 1967, nel testo appena pubblicato, Arendt affronta il tema della schiavitù. Ma secondo i padri fondatori, la schiavitù riguardava “un’altra razza”. Come dire che il bisogno e la miseria non andavano intesi come un problema specifico della federazione repubblicana: stavano fuori e sotto, ai margini e nelle fondamenta. Questa marginalizzazione della questione sociale era un tratto che la giovane repubblica statunitense condivideva con le poleis dell’antichità. Alla rivoluzione francese, questa concentrazione su un nucleo costituzionale e sociale fu negata. In questo caso la rivoluzione non dovette soltanto fondare una repubblica, ma fare subito i conti con la questione sociale, con la miseria degli affamati che popolavano le campagne e delle masse urbane. Le privazioni delle madri i cui figli pativano la fame – e qui Arendt cita un passo impressionante dello storico britannico Acton – conferirono a quella rivoluzione “la durezza del diamante”. Ma la spinta alla rivoluzione sociale, alla gigantesca ridistribuzione delle proprietà dei nobili e della chiesa, è la stessa che spinse la rivoluzione francese anche verso il Terrore. essa dovette liberare tutto il popolo dalla miseria, “liberare le persone cosicché potessero essere libere”. Insomma, oltre a essere un radicale cambiamento della forma-stato, la rivoluzione francese fu anche un profondo rivolgimento della società. Ma questo spinse più volte quella rivoluzione, e le successive avvenute in Europa, verso la deriva totalitaria che gli hanno rimproverato i critici liberali della cosiddetta “libertà positiva”, cioè la libertà di cambiare il mondo. Il testo di Hannah Arendt appena riscoperto è stato inserito in un volume miscellaneo che documenta la polemica filosofica suscitata dal celebre saggio di Isaiah Berlin Due concetti di libertà, del 1958. Berlin aveva chiare le potenzialità totalitarie del concetto di libertà positiva affrontato da Hannah Arendt nei suoi scritti sulla rivoluzione, ma la filosofa dà scarso peso alla libertà negativa che Berlin aveva maggiormente a cuore. Per Arendt le due facce della libertà stanno tra loro in un rapporto d’interdipendenza: i padri delle rivoluzioni del 1776 e del 1789 erano già ampiamente liberi, ma la libertà repubblicana di cui erano esempio alla lunga non poté arrestarsi davanti alle barriere del privilegio. Non è facile controllare l’individualismo della libertà negativa. E così la tragedia della rivoluzione francese fu che, proprio per amore del bene delle masse, tornò a quel despotismo contro cui era insorta all’inizio, sfociando in una dittatura. Lo sguardo di Hannah Arendt è lucido. Secondo lei, nella sua epoca non sono “le concezioni politiche moderne, tra cui le idee rivoluzionarie, a rendere possibile per tutti la libertà di essere liberi”, ma il progresso tecnico. È questo a liberare i molti dal peso dei pochi, “in modo che almeno alcuni possano essere liberi”. La tecnica si sostituisce alla schiavitù. Senza benessere di massa, niente democrazia di massa; e senza democrazia, niente diritti né libertà per gli individui e le masse. Insomma Hannah Arendt, al pari di Isaiah Berlin, non sottovalutò il potenziale dispotico della democrazia di massa. Ma è evidente, anche se non si dice ancora abbastanza apertamente, che oggi di fronte alle tecnologie della comunicazione, di raccolta dati e della sorveglianza, la libertà negativa dell’individuo, che Hannah Arendt guarda con molta sufficienza, assume una portata dirompente drammaticamente nuova.