mercoledì 7 febbraio 2018

Corriere 7.2.18
Filosofia
Ogni istante della vita è eterno
Emanuele Severino sul destino delle cose. Le critiche a Horkheimer, Adorno e Popper
Un volume, edito da Rizzoli, che s’ispira alle controversie dell’Umanesimo
I limiti della tradizione occidentale e l’egemonia della tecnica
di Pierluigi Panza


L’uomo teme la morte. Se la morte è la minaccia che Dio rivolge ad Adamo, significa che Dio sa ciò che il primo uomo già teme maggiormente. Essa è l’elemento fondante il pensiero occidentale, secondo il quale l’ente è concepito dal nulla, diventa ente e poi torna nel nulla, di cui la morte segna il passaggio. Ma tutto questo l’essere non può esserlo, poiché il nulla è la negazione dell’essere e dove c’è il primo, che è eterno, non si può palesare il secondo.
Nel suo nuovo libro, Dispute sulla verità e la morte (Rizzoli), il filosofo Emanuele Severino muove dalle considerazioni base del suo pensiero neoparmenideo, guidando il lettore nel labirinto delle grandi domande, anche attraverso la rielaborazione di articoli apparsi sul «Corriere della Sera».
Il termine Dispute rimanda ad esempi della letteratura filosofica dell’Umanesimo o del Settecento: è l’affrontarsi di argomenti opposti. Qui sono il dominio delle tecnoscienze, che illusoriamente combatte il diventare nulla degli enti, contro l’immutabilità degli stessi in quanto esseri nella loro totalità, cosa che rimangono anche dopo il ritirarsi dalla vista.
È con il pensiero greco che gli enti incominciano a nascere dal nulla e sparire nel nulla. «Quasi, nascendo, moriamo», scriveva in ripresa a questo pensiero l’umanista Leon Battista Alberti; ed è ciò che diventerà l’«essere per la morte» nell’esistenzialismo di Martin Heidegger. Prima con i miti, poi con le religioni e, infine, con le tecnoscienze che hanno preso il posto della filosofia (e che il capitalismo crede, illusoriamente, di controllare), l’Occidente ha cercato di offrire una risposta all’angoscia del venir meno di ciò che era presente prima di precipitare nel nulla. Per Heidegger l’«Essere» è tempo e nessun ente è eterno; per le tecnoscienze conta l’incidenza pragmatica di un postulato sugli enti; gli scritti di Severino perseguono una terza via: la necessità che ogni ente sia eterno perché esso sia.
L’annientamento non può apparire, perché non possiamo fare esperienza dell’altro e perché, quando si crede che le cose si annientino, è necessario «che si creda anche che non se ne possa più fare esperienza», ed è quindi impossibile che l’esperienza mostri a quale destino siano andate incontro le cose da essa uscite. Il significato della morte va posto fuori dal movimento dell’Occidente, concorde nelle sue esperienze del mito, delle religioni («strumenti ciechi» che si contendono la lotta al nulla) e delle tecnoscienze nel ritenere che l’individuo venga e ritorni al nulla. Questa concordanza costituisce una piattaforma dogmatica che consiste nel mostrare l’impossibilità di qualcosa di eterno o immutabile.
Severino si pone in alternativa a questa piattaforma: «Il destino della verità è l’apparire dell’eternità di ogni essente; sì che il venire e l’andare degli essenti, la loro nascita e la loro morte, è il comparire e lo scomparire degli eterni. La loro eternità è la condizione del loro ritorno». Il compimento e il non continuare che la morte segna non sono l’annientamento di ciò che ha avuto compimento e non continua. Per il principio per cui nessuna cosa può essere altro da ciò che è, ogni cosa è eterna, perché qualsiasi cambiamento la renderebbe diversa da ciò che è. Anzi, essendo l’essere la totalità di ciò che esiste, non può esserci altro al di fuori di esso dotato di esistenza. Totalità non nell’accezione hegeliana della storia risolta nell’«In sé», ma totalità ontologica.
Per porre al centro l’eternità di tutte le cose e la negazione dell’esperibilità del loro diventar altro, Severino suggerisce di reintrodurre una educazione alla morte sul modello della Death Education (cita, a questo proposito, il libro di Ines Testoni, L’ultima nascita. Psicologia del morire e Death Education , Bollati Boringhieri, 2015), una sorta di meditatio mortis che i Paesi anglosassoni intendono rendere operante. Questo è urgente perché nel nostro tempo le tecnoscienze, nel dispiegare il loro scopo che è la creazione di scopi sia in chiave prassistica che controprassistica (Severino supera la Dialettica dell’Illuminismo di Adorno e Horkheimer), tendono a nascondere la morte come sconfitta. La tecnoscienza, infatti, non conosce la verità e la rifugge come Metafisica (qui la critica è a Congetture e confutazioni di Karl R. Popper), «ma non può nemmeno conoscere che cosa sia in verità la morte e l’angoscia per la morte». La morte è solo la persuasione «dell’assentarsi dell’eterno».
L’educazione alla morte deve partire dalla consapevolezza che l’eternità compete a ogni essente, non perché è contenuto originariamente in Dio, o perché la sua materia sia eterna, bensì perché esso «è quell’essente che è»: questa penombra della stanza, questo ricordo della giornata trascorsa, queste nubi del cielo, ogni istante della storia del mondo sono eterni perché sono questa penombra, questo ricordo, queste nubi, questi istanti. Non sono, e non possono diventare, un nulla.
Agli aspetti qui presentati, il volume ne aggiunge molti altri, come le osservazioni su Giovanni Gentile e i contributi nati dal pensiero dell’autore. In coda è pubblicata una lunga intervista rilasciata a Sioned Puw Rowlands. Il rilievo di alcuni è che Severino non abbandona il concetto di verità, così consustanziale alla filosofia greca, al cristianesimo e alla scienza moderna che egli contrasta.

Corriere 7.2.18
Il Papa sdogana il Sultano. Effetto al Sisi per Erdogan
Siria e diritti umani: il leader islamico snobba gli appelli di Mattarella & C.
di Roberta Zunini


Cani poliziotto minacciosi e manganellate per i curdi; regali, affari e accoglienza da statista per il presidente turco Erdogan. In una Roma blindata, il Sultano con al seguito moglie, genero-ministro dell’Energia e uomini d’affari, è stato accolto con tutti gli onori da Papa Francesco e dalle massime autorità della repubblica italiana, partner Nato della Turchia, proprio mentre il suo esercito sta bombardando da più di una settimana il cantone di Afrin nel nord della Siria. Gli abitanti di questa zona al confine con la Turchia sono in maggioranza curdi, molti legati da rapporti di parentela con coloro appartenenti alla stessa minoranza residenti appena oltre confine e perciò considerati da Ankara terroristi del Partito dei lavoratori curdo, il Pkk fondato da Ocalan. “Non siamo terroristi, Erdogan è un terrorista – dice Rudy, un giovane curdo siriano rifugiato in Italia dopo aver rifiutato di prestare servizio militare nell’esercito di Assad – come ha dimostrato il giornalista turco Can Dundar (incarcerato per 4 mesi e quindi autoesiliato in Germania) svelando le immagini top secret in cui si vedono agenti dei servizi segreti turchi trasferire armi ai jihadisti”.
Mentre, dopo 58 anni, un presidente turco veniva accolto dal Pontefice, nei giardini di Castel Sant’Angelo le forze dell’ordine in assetto antisommossa chiudevano a tenaglia una cinquantina di manifestanti al sit-in indetto dalla Rete Kurdistan. Non appena gli attivisti hanno pronunciato la parola “corteo” sono partite le cariche lasciando a terra un manifestante con il volto grondante sangue. Un paio di attivisti sono stati arrestati e un’altra dozzina identificati. “È scandaloso che l’Italia accolga un dittatore che sta facendo bombardare civili innocenti e sbatte in carcere i giornalisti e coloro che esercitano il proprio diritto inalienabile di critica”, dice Zero Calcare, che illustrò la resistenza di Kobane contro lo Stato Islamico. Al sit in c’erano anche i rappresentanti della Federazione Nazionale della Stampa, Ordine dei giornalisti, Articolo21 e giuristi democratici.
Il colloquio tra Erdogan e Francesco è avvenuto a porte chiuse ed è durato quasi un’ora, un tempo molto lungo secondo il protocollo. Sul tavolo, come aveva annunciato in un’intervista alla Stampa lo stesso Erdogan, c’è lo status di Gerusalemme, ma anche la questione dei migranti, le persecuzioni dei cristiani e la “necessità di promuovere la pace e la stabilità nella Regione attraverso il dialogo e il negoziato, nel rispetto dei diritti umani e della legalità internazionale”, ha reso noto la Santa Sede più tardi. Il dono più simbolico, in questo frangente storico, fatto da Francesco al Sultano è stato un medaglione con un angelo della pace che, ha spiegato, “strangola il demone della guerra”.
Il convoglio presidenziale composto da 20 persone, si è quindi spostato al Quirinale. Durante il colloquio con Mattarella sono stati affrontati alcuni nodi: Siria, Libia e il rispetto dei diritti umani.
Su questi argomenti il nostro capo dello Stato ha ribadito le posizioni dell’Italia e dell’Unione europea senza riuscire a scalfire minimamente la posizione turca circa l’operazione in Siria e sulle aperte violazioni dei diritti umani. Solo per quanto riguarda l’approccio della questione libica si è registrata una convergenza di intenti. La motivazione reale della passerella dispiegata senza pudore dalle autorità italiane al presidente turco che amava dire pubblicamente “la democrazia è come un taxi, quando serve lo prendi , poi scendi”, è stata però un’altra. Erdogan è venuto a spiegare all’Italia, secondo partner commerciale europeo, che se non si comporterà bene, potrà scordarsi di vendere armi alla Turchia. A Parigi il mese scorso è stato firmato da Macron ed Erdogan un accordo per lo sviluppo del sistema di difesa aerea turco a lungo raggio da affidare al consorzio franco-italiano Eurosam. Nel pomeriggio c’è stato anche il colloquio con il premier uscente Gentiloni. Mentre i due discutevano, la Coldiretti sottolineava: “La Turchia invade l’Ue con cibi pericolosi e si classifica al 1° posto, davanti alla Cina, per gli allarmi alimentari: dai peperoni con pesticidi oltre i limiti ai fichi secchi con eccesso di tossine cancerogene, come pure nocciole e i pistacchi”.

Repubblica 7.2.18
Il coraggio necessario
di Michele Serra


Gli spacciatori nigeriani vanno arrestati. Non perché nigeriani, ma perché spacciatori. Gli italiani che sparano agli africani vanno arrestati. Non perché italiani, ma perché autori di un raid terrorista.
Esiste una contraddizione tra queste due affermazioni? No, non esiste. Per una comunità pensante lo spacciatore nigeriano, tanto più se coinvolto in un delitto orribile come quello di Macerata, e il fascista italiano che spara sulla base del colore della pelle sono due criminali. Non è vero che si contrappongono l’uno all’altro (come vorrebbero lo sparatore italiano e la sua claque). Si contrappongono entrambi alle leggi dello Stato e alle regole della nostra società, che sono chiaramente scritte e percepibili da chiunque, anche da uno spacciatore impunito e da una guardia giurata che ammira Hitler. Non si deve delinquere. Non si deve uccidere. Punto. La condizione di impunità di alcuni criminali (con e senza permesso di soggiorno) è una lacuna grave del nostro ordine pubblico; la rappresaglia contro terzi, per giunta su basi razziali, è un atto vigliacco e gravissimo di ingiustizia sommaria.
Questo necessario preambolo è per dire che non c’è una zona d’ombra dentro la quale lo spirito democratico possa confondersi e tentennare, come è sembrato accadere in questi giorni dopo i fatti di Macerata. Non c’è contenzioso legale o etico, attorno a due crimini che non solo non si annullano, ma si sommano, aggravandosi l’uno con l’altro. E dunque: la solitudine delle vittime africane inermi e innocenti nelle loro stanze d’ospedale, e il modesto profilo, ai limiti della timidezza, delle parole pronunciate dalle istituzioni e dal partito di governo pesano come un cedimento di fronte al ricatto politico della destra italiana quasi al completo. Come se farsi riprendere da una telecamera al capezzale di un africano colpito a caso, o dire a chiare lettere che il razzismo è un crimine schifoso, significasse parteggiare per l’immigrazione clandestina; e non — come invece è — parteggiare per l’Italia, le sue leggi, la sua democrazia, il suo ordine pubblico.
Di fronte allo scandaloso « gli immigrati se la sono cercata» che aleggia intorno al raid di Macerata, e più in generale intorno all’onda di razzismo fobico che bussa con pugni sempre più pesanti alle porte della nostra società, la cosa peggiore è mostrare paura. Non c’è solo la paura degli indifesi e dei confusi, dei meno istruiti e dei più esposti, di fronte all’indubbio sconquasso che l’immigrazione ha portato con sé. Esiste anche, meno visibile ma forse più pericolosa, la paura dei giusti e dei ragionevoli. Paura dell’impopolarità, paura del prezzo politico da pagare nell’immediato, paura che anche i princìpi più solidi diventino inservibili di fronte all’odio e all’ignoranza.
Eppure il risentimento sordido, le chiusure violente non sono una novità introdotta dai social. C’è chi, prima di noi, quanto a razzismo e violenza politica ha dovuto fronteggiare ben altro che le patacche fasciste appese nelle stanzette di qualche figlio di mamma, o i post degli orchi da tastiera. L’errore, il male, il deragliamento dei comportamenti, la violenza politica, la violenza criminale non sono un’emergenza di oggi né di ieri, sono una condizione endemica di ogni collettività umana. Per questo è tanto più importante tenere duro su alcuni princìpi, presidiare alcune trincee. Non avere paura del razzismo e del fascismo, nominarli, affrontarli, combatterli con le armi della ragione e del diritto, ribattere punto su punto alla propaganda xenofoba.
Servono i dati e servono le cifre, a smentire le bugie sull’immigrazione come fonte esclusiva di illegalità e di insicurezza; ma servono anche le bandiere da sventolare. Il tricolore usurpato dallo sparatore di Macerata puzzava di polvere da sparo e copriva a malapena l’eterno « viva la muerte » del fascismo. Il tricolore vero è quello della Repubblica democratica, che ripudia il fascismo e il razzismo. La frase « siamo in campagna elettorale» è usata spesso per dissuadere dai toni striduli. Ma se non in campagna elettorale, quando è il momento giusto per definire quel paio di princìpi che ancora distinguono le forze in campo?

Repubblica 7.2.18
Il presidente della Corte Costituzionale, Paolo Grossi
“La parola razza rimanga nella Costituzione è un monito contro l’odio”
di Simonetta Fiori


ROMA «La razza non esiste, ma esistono i razzismi. E finché resta viva questa perversione, la parola razza deve rimanere nella Carta». Come un segnale di allarme, una luce perennemente accesa su una malattia che non passa. Il presidente della Corte Costituzionale, Paolo Grossi, è contrario a espungere dall’articolo 3 un sostantivo molto contestato. Ottantacinque anni, fiorentino, Grossi è un maestro del diritto.
Presidente, perché continuare a usare una parola che non ha più senso?
«È vero: la parola è insensata, ma il concetto di razza continua a esistere. Non dovrebbe esserci, ma purtroppo esiste. E continua a esistere anche nella coscienza della società italiana. Non possiamo far finta di nulla»
Un candidato leghista ha evocato la “razza bianca” come un qualcosa da proteggere dalla migrazione nera.
«Questo è razzismo puro e semplice».
E poi si è arrivati a Macerata alla “caccia al nero”.
«Se non ci fossero manifestazioni di razzismo, io direi che il termine razza è pleonastico. Ma oggi non mi pare che ci siano le condizioni.
Proprio perché la menzione della razza nella carta costituzionale ha il significato dell’ammonimento, di questo oggi abbiamo bisogno. Di un monito, di un segnale permanente».
Ma non si potrebbe trovare un’altra parola? Perché conservare un termine che ha nutrito l’ideologia razzista?
«Perché è quello scelto dai nostri padri costituenti. E vorrei soffermarmi sul significato profondo di quella scelta, tra il 1946 e il 1947. Appena un anno prima, gli autori della Carta avevano scoperto l’orrore dei campi di concentramento tedeschi. Inserendo la parola razza nell’articolo 3 - ossia là dove si ricorda che tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione – i padri hanno voluto richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica sull’orrore della Shoah, nella speranza di sbarazzarsi per sempre del razzismo. Il loro silenzio sulla razza sarebbe stato riprovevole! È una benedizione che abbiano fatto quell’inserimento. Anche perché sul concetto di razza erano state costruite le pseudociviltà nazista e fascista».
Ci fu anche all’epoca una vivace discussione. Un padre costituente la definì “parola maledetta”.
«Sottoscrivo pienamente: è una parola maledetta. E difatti nell’articolo 3 il termine viene maledetto. Si scrive la parola “razza” perché essa venga cancellata dalla vita della nuova democrazia italiana».
I genetisti sostengono che il termine non ha senso sul piano scientifico: il 99,9 per cento del Dna è comune alle persone più diverse. E anche sul piano storico sono falliti tutti i tentativi di catalogare le razze.
«Sono d’accordo. Sulla razza è impossibile impiantare un discorso che abbia un minimo senso scientifico. Si sono rivelate mere aberrazioni tutte quelle costruzioni sul primato di alcune razze su altre fondate su criteri medici o biologi. E allora perché mantenere la parola? Proprio perché evoca un’aberrazione nella storia della civiltà umana».
Anche gli Accademici della Crusca ci dicono che la parola razza non dovrebbe essere riferita agli esseri umani ma a cani e cavalli. Fu Gianfranco Contini, non a caso partigiano nell’Ossola, a scoprire nel 1959 che l’etimologia di razza non veniva da ratio ma da haraz, un’antica parola francese che significava allevamento di cavalli, mandria. Dalle stelle alle stalle, insomma. La Costituzione non dovrebbe tenere conto dei cambiamenti linguistici?
«Contini è stato il più grande filologo romanzo del Novecento. E sicuramente aveva ragione lui. Ma in questo caso prevale un’altra considerazione. Mantenere il termine razza nella Costituzione significa dire: guardate che il razzismo è una malattia che esiste ancora. E finché esistono questi fenomeno orrendi, io di quella parola ho necessità».
Non se ne ricava un bilancio malinconico sull’oggi?
«L’impressione è che non siamo cresciuti per nulla. Noi stiamo vivendo nel 2018 e lo facciamo arretrare di settanta e anche ottanta anni. Mi domando: abbiamo sepolto le antiche dittature nazista e fascista e le riesumiamo in questo modo?
Riesumiamo il peggio che hanno prodotto? Il mio è un sentimento di amarezza perché sul piano dell’incivilimento della comunità stiamo facendo passi di enorme regressione».
Come lo spiega?
«La storia non è progresso infinito, come si credeva nell’Ottocento, ma una successione di corsi e ricorsi, impaludamenti e sommità. Questa è una fase di impaludamento».
È preoccupato?
«No, non posso esserlo nella mia veste. Esiste una parte sana di italiani – è la maggioranza - che vede il giusto e lo sa distinguere dall’iniquo. Oggi però abbiamo fenomeni che possono dare allarme. Bisogna stare attenti che la macchia d’olio non si estenda.
Che poi non è olio, ma benzina urente, che brucia. Ed esiste il pericolo di ustioni collettive».
L’impressione è che non siamo cresciuti per nulla Noi stiamo vivendo nel 2018 e lo facciamo arretrare di settanta e anche ottanta anni
“Via la parola razza dalla Carta”
L’intervista a Liliana Segre pubblicata lunedì da Repubblica
Consulta
Paolo Grossi, 85 anni,fiorentino, presidente della Corte costituzionale dal 24 febbraio 2016 Qui è con un gruppo di studenti

Repubblica 7.2.18
Intervista a Efraim Zuroff
“Polonia, che errore Ma l’antisemitismo è di tutta l’Europa”
di Andrea Tarquini


BERLINO «La legge sulla Shoah in Polonia è concepita molto male, il presidente Duda ha sbagliato a firmarla ieri». Lo dice Efraim Zuroff, 69 anni, presidente del Centro Simon Wiesenthal per la caccia ai criminali nazisti.
Come giudica la decisione del presidente polacco Duda di firmare la legge e passarla al controllo della Corte costituzionale?
«Ha commesso un grande errore. La legge è un tentativo del governo di imbiancare la coscienza da ogni ricordo di responsabilità nell’Olocausto. È concepita molto male. Contiene un elemento di verità ma cerca di lavare la coscienza di tutti sulla Direttore del Wiesenthal
Efraim Zuroff, 69 anni, è uno storico che che si è battuto per consegnare alla giustizia nazisti. È direttore del centro Wiesenthal a Gerusalemme complessa realtà passata. I polacchi hanno ragione dicendo che non si deve parlare di campi della morte polacchi. Erano campi della morte nazisti costruiti dai tedeschi in territorio occupato. Ma ciò non può servire al negazionismo sui casi individuali di chi uccise o denunciò gli ebrei e aiutò nella Soluzione finale».
A quali casi si riferisce?
«Nel 2001 lo storico Jan Gross scrisse sul destino degli ebrei polacchi di Jedwabne nel 1941.
Prima si pensava che i tedeschi li avessero assassinati, invece furono i polacchi. E ci furono migliaia e migliaia di casi di polacchi che uccisero ebrei o li denunciarono, o denunciarono ai nazisti chi li nascondeva. Certo, il paese era occupato da Hitler, non ebbe governi collaborazionisti. Ma i crimini furono molti. Frutto di un antisemitismo polacco precedente la guerra. I Nazionaldemocratici volevano una Polonia libera da ebrei».
Le radici sono così profonde?
«L’antisemitismo è paneuropeo, non solo polacco. Ma divenne tema politico perché la comunità ebraica là era molto numerosa.
Ecco lo sfondo per la partecipazione di molti polacchi a quei crimini. Non dimentichiamo che nessun altro paese conta tanti “Giusti tra le nazioni”quanti la Polonia, e decine di migliaia di polacchi organizzati in “Zegota” salvarono molti ebrei, rischiando la morte. Ma ciò non cancella l´altro volto della realtà».
E dopo la guerra?
«L’antisemitismo sopravvisse, anche quasi senza più ebrei. Nel 1946 a Kielce 42 ebrei furono assassinati per l’accusa assurda di aver compiuto sacrifici umani con bambini cristiani. Poi nel 1968 la repressione contro gli studenti divenne purga antisemita».
Quindi afferma che la Legge distorce la Storia della Shoah?
«Sì, ma è solo la punta dell’iceberg. In tutto l’Est, dal Baltico alla Croazia, ci fu massiccio collaborazionismo coi nazisti. Poi dopo la fine del comunismo si diffuse la convinzione che c’erano stati due genocidi: l’Olocausto e i massacri comunisti. Non è vero. Il comunismo commise crimini orribili, uccise più persone del nazismo, ma non con un genocidio mirato per annientare un popolo».
Quanto è pericoloso l’antisemitismo in Europa?
«In molti paesi il fascismo diventa sempre più attraente. Come reazione all’Unione europea, alla paura di globalizzazione e perdita d’identità nazionale. Gli ideologi fascisti sono molto attivi, con Ue e globalizzazione come primi bersagli. La Ue non è riuscita appieno a mantenere l’ impegno a proteggere le minoranze. Anche la mancanza di strategie sull’immigrazione spinge gente verso il fascismo».
Come giudica le dure reazioni di Usa e Israele?
«Hanno fatto bene a dire sia che non si può parlare di campi della morte polacchi, sia che il resto della legge cancella realtà storiche. Però per anni hanno taciuto sull’antisemitismo all’Est, e adesso ne raccolgono i frutti».
L’Ue dovrebbe punire la Polonia?
«Dovrebbe definire la legge totalmente inaccettabile e ricordare alla Polonia che la Memoria dell’Olocausto è valore costitutivo dell’Unione».

il manifesto 7.2.18
Alfano: «Soldati in Niger quando ce lo chiederanno»
L'Iitalia in Africa. Giallo sulla missione: per il governo c’è già una richiesta da parte delle autorità nigerine
di C. L.


ROMA Ma esiste o no una richiesta ufficiale del Niger al governo italiano perché invii una missione nel Paese del Sahel? Annunciando alla fine di dicembre il nuovo intervento militare, il premier Paolo Gentiloni aveva spiegato come la missione fosse stata «richiesta dal governo locale a inizio dicembre» 2017. Circostanza che trova conferma – anche se con una data diversa – nella successiva relazione sulle missioni internazionali inviata dal governo al parlamento, nella quale si specifica come a dare sostegno giuridico all’operazione in Niger – approvata a gennaio dal parlamento – ci sia anche una «richiesta delle Autorità nigerine con nota 3436/MDN/SG in data 1 novembre 2017». Al di là delle differenza di date, sembrava assodata la volontà del governo di Niamey di richiedere l’aiuto italiano per addestrare le forze di sicurezza nigerine.
A sorpresa, invece, ieri il ministro degli Esteri Angelino Alfano ha lasciato intravvedere la possibilità che le cose possano stare in maniera diversa. Il dispiegamento della missione in Niger – ha spiegato il titolare della Farnesina al termine della seconda conferenza dei Paesi di transito che si è svolta a Roma – non può che avvenire «su richiesta delle autorità nigerine e sulla base di consenso, una volta che abbiamo l’autorizzazione del governo di Niamey».
Parole che sembrano aprire uno scenario del tutto nuovo, anche perché non più tardi di una settimana fa a sollevare dubbi sulla missione era stata l’emittente pubblica francese Radio France international, Rfi, secondo la quale il governo nigerino «nega di essere stato informato e di essere d’accordo» con l’invio di soldati italiani. Affermazioni bollate come «una patacca montata dai francesi» dalla Farnesina, che invitava a basarsi su quanto scritto nella relazione inviata dal ministro della Difesa Roberta Pinotti al parlamento.
Nelle scorse settimane alcuni esperti del ministero della Difesa si sono recati a Niamey per mettere a punto con le autorità nigerine i particolari della missione che prevede, una volta a regime, l’impiego di 470 uomini, 130 mezzi terrestri e due aerei. Circostanza che fa pensare a una disponibilità del governo di Niamey.
Tra le difficoltà che i soldati italiani dovranno far fronte, bisogna tener conto anche di un clima tutt’altro che favorevole alla presenza delle numerose forze militari straniere nel Paese africano (francesi, americani, tedeschi). Domenica a Niamey si è tenuta una manifestazione indetta dal Front del l’opposition indépendant (Foi), una formazione nata solo due mesi fa, per chiedere la chiusura della basi militari straniere. La missione italiana, ha detto ieri la presidente del Foi, Mariama Gamatiè, «non è stata discussa dal parlamento (del Niger, ndr), né tanto meno approvata».
La conferenza sui Paesi di transito è stata l’occasione per fare il punto dell’intervento europeo in Africa. Presenti rappresentanti di Niger, Libia, Ciad, Algeria, Egitto, Etiopia, Sudan e Tunisia insieme ai colleghi europei di Francia, Germania, Spagna e Malta. Alfano ha ricordato la diminuzione dei flussi di migranti in uscita dal Niger, passati dai 330 mila del 2016 a poco più di 60 mila nel 2017, mentre quelli verso la Libia sono scesi dai 291 mila del 2016 ai 35 mila del 2017.«Il calo complessi vo dei passaggi nel Mediterraneo è del 34% e questi dati da soli rendono l’idea di quanto è stato fatto in questi mesi», ha concluso il ministro. Infine è stato annunciato un finanziamento al Niger di altri 80 milioni di euro per il biennio 2018-2019 «da destinare a progetti di sviluppo economico e sociale».

Il Fatto 7.2.18
Un equivoco si aggira per l’Italia: Bonino e +Europa
di Marco Palombi


Come i più attenti sanno alle elezioni corre col Pd la lista “+Europa con Emma Bonino”, che poi sarebbero i Radicali italiani con la Bonino e pure con Bruno Tabacci per via di un favoretto che gli ha fatto sulla raccolta firme. Ora, attorno a questa formazione di schietta quanto becera destra economica si è creato un equivoco bizzarro. C’è in giro un certo numero di persone che si ritengono di sinistra le quali non si rassegnano a votare il Pd perché non gli piace Renzi; non scelgono LeU perché c’è D’Alema e il frazionismo è brutto; non amano il radicalismo di Potere al popolo e ridono dei relitti del comunismo. E allora? Voteranno Bonino. Facciamo, data la sua autorevolezza, un solo esempio: Michele Serra, sul Venerdì, ci ha informato di aver scelto +Europa, “marchio in grado di suscitare in me ancora un minimo di partecipazione ideale”. Il prestigioso commentatore vaticina, peraltro, un lusinghiero risultato per la lista Bonino che tenderemmo ad avallare sin d’ora se si votasse solo a Repubblica, ma il punto è un altro: gente che va in solluchero per “fondata sul lavoro” eccetera, voterà una lista che propone tagli selvaggi di spesa pubblica (congelare quella nominale al 2017 per 5 anni); privatizzazioni di quasi tutto, messa a gara del resto; una riduzione delle imposte dirette finanziata con un salasso Iva (tutto quel che ora è tassato al 10% passa al 22) e “il taglio di diverse agevolazioni fiscali”. Per fare cose così, per dire, in Cile i Chicago boys dovettero aspettare Pinochet, qua le puoi vendere all’inquieto elettore progressista.

Il Fatto 7.2.18
“Ora è chiaro: ha copiato”. Economisti contro la Madia
La scarica pure Perotti che la difese. Protesta dei professori contro l’Imt di Lucca che l’ha assolta perché “così fan tutti”
di Laura Margottini


“La Madia ha copiato, su questo non c’è il minimo dubbio”, dice Roberto Perotti, economista della Bocconi, che aveva inizialmente difeso il ministro della Pubblica amministrazione Marianna Madia su Repubblica e lavoce.info all’indomani delle rivelazioni del Fatto Quotidiano in merito al presunto plagio riscontrato nella tesi di dottorato. Quello che l’allora deputata Pd ha conseguito alla Scuola di Alti Studi Imt di Lucca nel 2008. Perotti contesta anche le argomentazioni per salvare la ministra usate nella perizia effettuata sulla tesi, chiesta da Imt ad una società privata per stabilire se di plagio si sia o meno trattato. La Resis di Enrico Bucci, un biologo che risulta essere professore a contratto presso la Temple University (Usa), conferma, con minime differenze, le copiature riscontrate dal Fatto nella tesi, ma salva il ministro sostenendo che in economia è lecito copiare senza virgolettare e citare. “È chiaramente un’assurdità – dice Perotti – da quello che scrive il Fatto, la perizia appare totalmente strampalata, Imt avrebbe dovuto stralciarla e avrebbe dovuto chiedere la perizia a dei pari, cioè a degli economisti, non a chi pare non avere qualifiche accademiche per giudicare un lavoro peraltro non nel proprio campo e che sembra non avere la minima di idea di come si affronti un controllo del genere”. Imt, insomma, per Perotti ha messo “una toppa che è peggio del buco”.
Dello stesso avviso Andrea Ichino, professore di Economia alla European University Institute di Firenze: “Sono indignato dalle affermazioni della perizia. Gli economisti non tollerano affatto le copiature”. Chi cita altri studi deve farlo tra virgolette se usa esattamente le parole del testo citato, oppure, nel caso di un riassunto delle affermazioni altrui, deve essere chiaramente evidente la fonte delle affermazioni, sottolinea Ichino: “Se Madia ha utilizzato materiale di altri studi senza citare esplicitamente le fonti ha commesso un errore grave.”
Dai documenti che il Fatto ha ottenuto grazie al Freedom of Information Act italiano risulta che nel 2007 economisti molto noti, come lo stesso Andrea Ichino, Luigi Zingales (della Chicago Booth) e Alberto Alesina (Harvard) fossero parte del collegio dei docenti di Imt. Assenti giustificati nella seduta dell’ 8 marzo 2007 dove si approvava il passaggio al terzo anno di dottorato degli studenti, inclusa la Madia. Dai documenti in mano al Fatto risulta che il Collegio docenti sapeva che Madia aveva scritto uno dei tre capitoli della tesi a quattro mani con la collega di dottorato Caterina Giannetti. Un fatto che però non viene dichiarato nella versione finale della tesi del ministro e neanche ai commissari per l’esame di dottorato della Madia. Uno di loro, Davide Fiaschi, economista all’Università di Pisa, ha dichiarato al Fatto in ottobre: “Il co-autoraggio resta un problema: l’originalità di una tesi va valutata in base al numero di co-autori”.
Lo certifica anche la perizia della Resis, definendo il capitolo co-autorato, senza dichiararlo, “una deviazione dagli standard accettati per la citazione del proprio lavoro.” Andrea Ichino sottolinea che però lui a Imt ha solo insegnato per un paio d’anni come professore esterno: “Non ho mai fatto parte del collegio docenti stabili e non ricordo di aver ricevuto quel verbale”. Idem Alberto Alesina: “Ho partecipato a qualcosa che mi era stato descritto come un advisory board dal 2005 al 2007, ma non ho mai partecipato ad alcuna riunione. Col senno di poi non avrei mai dovuto farlo e non voglio avere assolutamente nulla a che fare con l’Imt”. Del caso Madia non vuole parlare: “Non sono abbastanza informato.” Il Fatto non è riuscito a mettersi in contatto con Zingales.
La modalità con cui è stata effettuata la perizia è stata approvata da un comitato di saggi composto da Francesco Donato Busnelli (emerito di diritto civile presso la Scuola superiore Sant’Anna di Pisa) Massimo Egidi (emerito di economia all’Università Luiss di Roma, di cui è stato rettore) e Giovanni Maria Flick (presidente emerito della Corte costituzionale). Il 26 ottobre 2017 certificano che “la relazione (della Resis, ndr) opera un’analisi precisa e puntuale delle criticità presenti nei capitoli della tesi e delle osservazioni critiche contenute negli articoli del Fatto Quotidiano, giungendo a conclusioni rigorose e ben argomentate”. Aggiungono che “si riscontra un alto grado di accuratezza nella ricostruzione dei fatti, di precisione e dettaglio nel considerare i punti critici e un notevole equilibrio nel situare l’operato degli studiosi che lo valutarono nel contesto storico e nell’area disciplinare a cui esso appartiene”. Al Fatto, Flick spiega che non era suo compito valutare il contenuto della perizia: “E’ fatta con serietà e coerenza. Non ho altro da aggiungere.” Dello stesso avviso anche Egidi: “Alcune cose risultano sì copiate, ma si tratta di frasi o dati irrilevanti perché di pubblica conoscenza”. Egidi specifica però di non aver letto la tesi della Madia, ma solo la perizia, e di non essere a conoscenza di un’altra criticità riscontrata dal Fatto, più grave del plagio: la possibile frode scientifica che appare nel terzo capitolo, cioè l’esperimento di economia comportamentale che la Madia dichiara di aver fatto all’Università di Tilburg in Olanda dove però non l’hanno mai vista. Dell’esperimento non esiste alcuna prova documentale neppure nelle carte fornite da Imt al Fatto. “Non ero a conoscenza di questo”, spiega Egidi.

Il Fatto 7.2.18
“Gli operai votano 5Stelle perché traditi dal Pd”
Giorgio Airaudo - L’ex leader Fiom, oggi in LeU: “Per noi solo il 10%? Siamo appena nati, è una buona base”
di Luciano Cerasa


Chi ancora pensa che l’operaio voti a sinistra quasi per una predisposizione genetica può mettersi definitivamente l’anima in pace. Anche il sondaggio pubblicato ieri dal Fatto descrive un voto delle “tute blu” che ha mollato da tempo gli ormeggi dei partiti storici di riferimento. E quando non si rifugiano nella disillusione dell’astensionismo (ben il 30 per cento) i più politicizzati vagano tra le sirene dell’attuale offerta elettorale, alla ricerca di rappresentanza e più ancora di rivalsa, dove il polo attrattivo più forte è il Movimento 5 stelle.
Prendiamo LeU, la costola uscita dalla sinistra del Pd impugnando la bandiera del lavoro: il sondaggio gli assegna solo il 10% di preferenze.
“Per una formazione politica nata il 6 dicembre scorso e che deve dimostrare ancora la sua forza propulsiva al mondo del lavoro mi sembra una buona base di partenza e un’inversione di tendenza” osserva Giorgio Airaudo, perito elettronico e sindacalista, ex segretario nazionale dei metalmeccanici della Cgil, deputato di Sel uscente e oggi candidato in Piemonte per Liberi e Uguali.
Al di là dei sondaggi che aria tira?
Davanti alle fabbriche sento dire che molti non votano, o votano Lega o 5Stelle, e poi mi dicono meno male che ci siete voi, così posso tornare a votare.
Ha sentito parlare anche di Matteo Renzi?
In quel voto lì ci vedo una richiesta di cambiamento contro il tradimento del Pd: l’abolizione dell’articolo 18 che non era riuscita a Berlusconi l’ha fatta Renzi, la Fornero più che una riforma è una manovra finanziaria; hanno dato in garanzia le nostre pensioni alla finanza internazionale per spegnere la speculazione e Salvini sull’articolo 18 è un ‘diversamente Fornero’.
A questi operai però la Lega piace: gli assegnano sul piano nazionale un 13%, come negli anni 90 quando Bossi a nord superò la Dc e il Pci con il voto dei vecchi quartieri operai. La storia si ripete?
Il voto dei lavoratori non è mai stato da una parte sola, negli anni ‘70 la sinistra si identificava nel mondo del lavoro, facendo eleggere nei consigli comunali e al parlamento gli operai delle fabbriche, questa cosa si è persa nel tempo con la perdita dei diritti conquistati che si è trasformata in perdita di consenso, non si ricostruisce un rapporto con quel mondo con i braccialetti della Amazon.
Il sondaggio dice che tra i lavoratori il Movimento 5 Stelle è più credibile di voi.
Non sono stupito, il consenso dei 5stelle è trasversale, hanno occupato uno spazio davanti al fallimento di politiche ostili al lavoro: il voto al Movimento è un randello su chi ha governato fino adesso.

Il Fatto 7.2.18
Sesso, droga e liceo classico: è il fallimento della Scuola
Cronaca nera in aula. Non è solo questione di sbronze in classe e professori rapaci. È la velocità dei nuovi giovani a sfuggirci
di Vins Gallico


“Un professore meridionale in combutta con la vicepreside, richiedente asilo e affiliata all’Isis, convince un’intera classe di liceali ad assumere Lsd. Gli studenti poi sfilano nudi a quattro zampe per il corso cittadino”. Potrebbe essere una strampalata notizia di Lercio o il prossimo scandalo che riguarda la scuola italiana. Almeno ci sarebbe qualcosa da commentare davvero. Perché le chat fra docenti e alunni, i casi di coma etilico, di uso di stupefacenti, di violenza, di bullismo non sono scandali che possono essere propriamente addebitati alla scuola, nonostante siano fra gli argomenti che rimpolpano i titoli dell’informazione da mesi. In Italia la scuola viene mentalmente inserita nella categoria protettiva della famiglia e, per alcuni, della chiesa.
Famiglia, scuola, chiesa: la trinità pedagogica dell’igiene, del “liberaci dal male”, della purezza. Se parafrasando Tolstoj non tutte le famiglie sono felici, a giudicare dai dati spesso ignorati di femminicidi, abusi, violenze esiste davvero una notevole quantità di famiglie infelici “a modo loro”. Eppure all’interno del focolare domestico, come nelle sagrestie e negli oratori, ci si nasconde dietro un manto di ipocrisia. Visto che i panni sporchi si lavano in casa, e quindi in maniera omertosa, si fa finta che alcune cose non succedano nella vita reale. Se proprio capitano, almeno che venga intaccato l’anello più debole della catena: cioè la scuola. Ma una quindicenne che va in coma dopo essersi scolata un numero imprecisato di bottiglie non è un problema della scuola, o almeno non è solo della scuola. Quella quindicenne lo avrebbe fatto comunque, altrove, alla prima occasione. Sesso e droga riguardano una buona fetta degli adolescenti, non solo di oggi. Ignorare che sia così è un gesto da struzzi, ricorda l’atteggiamento di quelli che dicevano: “La mafia non esiste”.
Si potrebbe anche considerare quante volte questi scandali, questi peccati siano inventati, ma non si metterebbe a fuoco il nucleo del discorso. C’è questa roba qui che è la scuola, e vede due grandi attori protagonisti: i docenti e gli studenti. Non deve essere facile fare il professore attualmente: ti pagano uno schifo, con i coretti che “lavori solo 18 ore a settimana”, “tutta l’estate in vacanza”, e sei sempre vittima del pregiudizio di essere uno sfigato, mezzo fallito, perché “chi sa fare fa, chi non sa fare insegna”. Ecco, mettiamoci pure, che con la trasformazione dei presidi in dirigenti scolastici, i professori rischiano di diventare dei burattini, ricattabili dalla famiglie. Vuoi bocciare mio figlio? E io cambio scuola, vado dove lo promuovono e la tua scuola si svuota.
Il docente dal polso duro e lo sguardo arcigno, da punizione in ginocchio sui ceci, si è antropologicamente mutato nel prof amico, al quale dai del tu nel gruppo di Whatsapp. Che poi esistono davvero docenti appassionati, che con devozione missionaria sperano di migliorare il mondo con la scuola. E di questa fazione non fanno parte i maniaci, che chiedono foto porno alle alunne.
Se ci fosse una buona commistione di insegnanti che conoscono le loro materie e qualche epigono del prof. Keating stile L’attimo fuggente, saremmo già a cavallo. E poi c’è l’altra faccia della medaglia: gli studenti, ovvero la componente maggioritaria della scuola. Nella fascia delle superiori si tratta di ragazzi che vivono la stagione dell’adolescenza, una bolla a sé stante rispetto agli altri cicli della vita. Sono considerati i nuovi barbari, spesso criticati, a volte critici. Si sentono ripetere: “Siete il futuro” e poi quel futuro gli viene proposto in forma ridotta, impoverita, devastata. Fra i 14 e 19 anni vivono l’esperienza della formazione e della deformazione. A quell’età tutto appare come una burrasca o una bonaccia di noia.
Sono ragazzi, fisicamente sviluppati, dai modi adulti, capaci di violenze atroci, inaudite, irresponsabili, assediati da un mondo vetusto. Ascoltano Trap (che non vuol dire Trapattoni), seguono gli youtuber, stanno sempre incollati agli smartphone. Altro che approfondimenti come vorrebbe la vecchia scuola, loro surfano, navigano, si muovono a velocità siderali. Non vanno giù, vanno più in là. Non scrutano l’abisso, ma si proiettano oltre l’orizzonte. Gestiscono con disinvoltura la rete dei social, dove gli adulti si muovono con imbarazzante asincrono.
La scuola istituzione, la scuola dall’alto, prova ad adeguarsi con metodi risibili alla loro contemporaneità. Si abolisce il tema di letteratura in terza media, e giù con critiche trombone. Dove andremo senza letteratura? La domanda legittima sarebbe inversa: dove finiremo con la letteratura, che è uno spazio mentale e psicologico che valica spesso i confini di bene e male? Il punto è a cosa serve la scuola: a formare uomini o cittadini, menti libere o sudditi fedeli? Perché Dostoevskij ti porta nella mente di un gerontocida e Nabokov in quella di un pedofilo, Goethe, Dante, Bulgakov ti conducono all’inferno o a fare patti con il diavolo. La letteratura è fatta anche di sesso e di droga. Forse basterebbe un po’ di buon senso, anzi di senso della responsabilità, e che questi due poli, docenti e studenti, abitassero la scuola facendo muro contro l’idiozia. Carlo Cipolla sosteneva che non i banditi, ma gli stupidi fossero il vero rischio della società. Ecco, basterebbe quello. Dichiarare che la stupidità è il vero nemico della scuola italiana e che lo scandalo è non opporsi ai suoi attacchi, dentro e fuori ogni istituto.

Corriere 7.2.18
Risponde Aldo Cazzullo
Quando il sessantotto finì nelle ideologie
di Filiberto Piccini,


Caro Aldo,
già cominciano le rievocazioni. Ma ha ancora senso processare il ‘68?

Caro Filiberto,
La discussione sul ‘68 l’hanno sempre fatta i sessantottini: spesso celebrandosi, talora abiurando. Avrebbero diritto di parola anche le generazioni precedenti e successive. In Italia com’è noto il ‘68 è durato dieci anni, sino al caso Moro. I miei ricordi di bambino sono scanditi dagli scontri di piazza e dagli omicidi di terroristi rossi e neri. Certo la rivolta non è stata solo questo; ma negare che ci sia un nesso tra il ‘68 e gli anni di piombo mi pare arduo. Più tardi ho cercato, intervistando centinaia di protagonisti, in fabbrica e in questura, ai vertici Fininvest e in galera, di trovare un senso a quel che era accaduto. Mi sono fatto questa idea.
A un’esplosione libertaria, che ha portato a un sano cambiamento dei costumi, dei rapporti tra le persone, del ruolo della donna, è seguito un irrigidimento dogmatico in una parte non trascurabile del movimento. Lo slancio dei giovani finì ingabbiato nelle due ideologie del Novecento, il comunismo e il fascismo, destinate a estinguersi da lì a pochi anni. I giovani di sinistra consideravano il Pci compromesso con la democrazia borghese, e si proponevano di proseguire il compito cui Togliatti e Berlinguer avevano rinunciato: la rivoluzione, come in Cina più che come in Russia. Qualche ex di Lotta continua ha il vezzo di dire di non essere mai stato comunista. Farebbe meglio a dire di essere sempre stato contro il Pci; ma i militanti di Lotta continua erano convinti di essere loro i veri comunisti. Qualcosa del genere, su scala più ridotta, accadde a destra nei confronti del Msi di Almirante, considerato filoatlantico, filoisraeliano, mercatista. Il risultato fu una mimesi della guerra civile, che lasciò sul terreno troppo odio e troppi morti. Di quella generazione salvo una cosa: l’idea, coltivata da molti, che si potesse essere felici soltanto tutti assieme, affidando la vita alla politica. La sconfitta è stata dura: qualcuno è finito nel terrorismo, qualcuno nella droga, qualcuno è rimasto in fabbrica negli anni della restaurazione. La generazione successiva, quella del riflusso (che è poi la mia), ha creduto che si potesse essere felici soltanto ognuno per proprio conto; e anche noi siamo andati incontro alla disillusione, con questo senso di solitudine esistenziale che ci portiamo dentro.

Repubblica 7.2.18
La sfida del tempo
Orario, la rivoluzione che invidiamo a Berlino
di Marco Ruffolo


ROMA Ventotto ore di lavoro a settimana invece di trentacinque, e sarà possibile trovare il tempo per crescere i propri bambini, assistere i genitori malati o più semplicemente riposarsi se il lavoro è usurante. L’accordo firmato ieri in Germania tra il sindacato dei metalmeccanici e le imprese del Baden-Wuerttemberg, sia pure limitato a un periodo massimo di due anni, da riutilizzare però nel corso della carriera lavorativa, si profila come una svolta storica nelle relazioni industriali, e potrebbe fare da apripista per molte altre vertenze, non solo tedesche. Per la prima volta, in una delle regioni più industrializzate d’Europa, il land che ospita gli impianti di Porsche e Daimler, la flessibilità dell’orario non scatta per rispondere alle esigenze delle aziende, ma per venire incontro ai bisogni di 900 mila lavoratori, che presto diventeranno 3,9 milioni, ossia i metalmeccanici e gli elettrici di tutta la Germania.
Sono i bisogni di una più equa distribuzione del tempo tra lavoro e famiglia, di una flessibilità più a misura d’uomo.
Flessibilità dell’orario in basso, ma anche in alto: alle imprese sarà consentito proporre ai propri operai l’aumento da 35 a 40 ore. Resta chiaro che in entrambi i casi, la scelta del lavoratore è assolutamente volontaria.
Meno orario, di norma, fa rima con meno salario. Ed effettivamente chi sceglierà la settimana corta non avrà la stessa retribuzione di chi resta a 35 ore. Tuttavia godrà di compensazioni in busta paga e avrà diritto a otto giorni di ferie in più. Ma la svolta tedesca non riguarda solo la riduzione dell’orario. L’Ig Metal è riuscito a strappare per tutti un aumento salariale del 4,3%, che è più di due volte e mezzo l’inflazione tedesca, ferma all’1,6%. Anzi, inizialmente puntava addirittura ad un incremento del 6,8. Questo è un fatto che sul piano economico potrebbe avere un peso specifico ancora più rilevante della settimana corta. E non solo per la Germania. Per anni la priorità del sindacato tedesco è stata la difesa e la creazione di posti di lavoro, accompagnate da una stringente moderazione salariale.
Moderazione che è proseguita anche di fronte all’aumento della produttività, tanto da dare alle imprese tedesche un enorme vantaggio competitivo nei confronti degli altri Paesi europei. Oggi i lavoratori tedeschi hanno invece deciso di riappropriarsi di quella parte di prodotto lordo che hanno contribuito a creare. E questo potrebbe essere il primo segnale che si vuol spingere sul pedale della redistribuzione, dopo il boom della produzione, e che quindi la Germania è più attenta di prima a sostenere i consumi interni. Un segnale indubbiamente positivo per l’intera Europa, soprattutto dopo i ripetuti e inascoltati appelli di Mario Draghi ad aumentare le retribuzioni.
Ma far salire i salari e accorciare l’orario è impresa che si possono permettere solo i tedeschi? Un accordo del genere sarebbe possibile anche in Italia? La Cgil non ha dubbi. «L’aumento del 4,3% – commenta Susanna Camusso – mi pare un risultato significativo che possiamo subito diffondere anche in Italia, in questa stagione in cui i salari devono crescere. La novità importante è anche il fatto che la flessibilità dell’orario viene vissuta in ragione delle esigenze dei lavoratori e non solo secondo quelle della produzione».
L’economista Enrico Giovannini invita alla prudenza: «Un’intesa del genere potrebbe applicarsi solo ad alcuni settori tra i più produttivi. Non dimentichiamo che l’accordo tedesco riguarda grandi imprese tra le più avanzate tecnologicamente.
Ci sono da noi ampi settori ancora poco produttivi e con la presenza di imprese troppo piccole».

Repubblica 7.2.18
La nuova frontiera tra fabbrica e famiglia
di Tonia Mastrobuoni


La possibilità di lavorare 28 ore a settimana al posto delle canoniche 35 è una conquista che si inserisce perfettamente nella tendenza generale a concedere più tempo libero, persino a proteggerlo, che si osserva in Germania da anni. E’ una battaglia del sindacato, ma è un diritto riconosciuto anche da parte di molte aziende: si pensi alle regole introdotte anni fa da colossi come Daimler o Deutsche Telekom perché i dipendenti non fossero disturbati nelle ore libere.
Inoltre, concedere una maggiore flessibilità nella scelta delle ore lavorative è, per milioni di persone, fotografare la realtà. In un mondo perennemente connesso, è utopico pensare che si smetta di controllare le mail una volta spento il computer in ufficio. O che il mondo si fermi alle cinque di pomeriggio.
L’accordo di ieri, infatti, introduce una maggiore flessibilità anche verso l’alto: le aziende potranno sfruttare una quota maggiore di lavoratori disposti ad allungare l’orario fino a 40 ore alla settimana.
Certo, la riduzione dell’orario di lavoro è anche un lusso che si può permettere un settore in rapidissima trasformazione come quello metalmeccanico che approfitterà più di altri della robotizzazione galoppante dell’economia. Inoltre, negli esuberi annunciati da colossi come Siemens e Deutsche Bank, qualcuno comincia a vedere la conferma che la digitalizzazione potrebbe spazzare via più posti di lavoro di quanti non ne crei.
Ma un altro dettaglio del rinnovo dei metalmeccanici che colpisce è il riconoscimento, a chi abbia un bambino piccolo o un parente da accudire o svolga un mestiere usurante, di una seconda possibilità di scelta. Quella di accettare il bonus estivo del 27,5% dello stipendio che scatterà dal prossimo anno, oppure otto giorni di ferie in più.
Anche questa è una conquista di civiltà che potrebbe fare scuola.
Forse l’esperimento più interessante, in questo senso, è l’intesa contenuta nell’ultimo rinnovo dei ferrovieri. Anche perché si riesce già a misurarne gli effetti. E sono sorprendenti.
Da quest’anno ai dipendenti della Deutsche Bahn è stata lasciata la possibilità di scegliere tra un aumento del 2,6% in busta paga, la riduzione dell’orario settimanale o l’aggiunta di sei giorni di ferie. E la notizia è che il 56% ha scelto quest’ultima.

il manifesto 7.2.18
La solitudine della Grecia di Alexis Tsipras
di Tonino Perna


Alexis Tsipras,chi? Il capo di governo della Grecia, tra il 2013 e il 2014 , è stato al centro della scena politica europea, come David contro Golia, rappresentante di un piccolo paese – poco più del 2% degli abitanti della Ue- contro i tecnocrati di Bruxelles.
DI fatto amministratori delegati delle grandi banche europee preoccupate di perdere i loro crediti. Austerity contro libertà, dittatura della grande finanza contro la democrazia e i bisogni della popolazione. Il coraggio sorprendente del giovane Tsipras aveva suscitato un grande entusiasmo tra i militanti della sinistra europea e fra tutti coloro che credevano che bisognasse ribellarsi ai diktat di Bruxelles.
Addirittura in Italia alle elezioni europee del 2014 si è presentato un soggetto politico «l’Altra Europa con Tsipras» che nel riferimento al leader greco aveva trovato l’auspicata unità.
Non era mai avvenuto.
Sono passati quasi quattro anni e della Grecia di Tsipras si ritorna a parlarne solo adesso che si avvicina l’ultimo atto di quello che è stato definito “programma di salvataggio della Grecia”. Un modo ipocrita di chiamare quello che è stato un programma di salvataggio delle banche europee, tedesche in primis. «La Grecia esce dalla cura di cavallo » è il messaggio che va per la maggiore.
Quattro anni di ricette economiche malsane hanno impoverito la gran parte della popolazione che già aveva subito un durissimo colpo nei primi anni della crisi finanziaria.
Dal 2010 al 2016 la disoccupazione in percentuale della popolazione attiva è passata dal 12,7 al 23,6, la percentuale di persone cadute nella fascia della povertà assoluta è passata dall’11.6 al 22.4, il Pil pro capite si è ridotto da 20.300 euro a poco più di 17.000 euro, i crediti bancari alle famiglie sono diventati inesigibili per il 47 per cento. Una débacle interrotta solo l’anno scorso, quando sono ripresi i consumi, gli investimenti, il Pil ha ripreso a crescere e il debito, in percentuale del Pil, ha iniziato a scendere anche se rimane molto alto: 179 per cento.
Ma, soprattutto, se ne sono andati i giovani: si stima che negli ultimi dieci anni 800mila giovani tra i 20 ed i 34 anni hanno abbandonato un paese che conta 11 milioni di abitanti. Solo il Mezzogiorno d’Italia ha subito da questa crisi 2008-2014 un salasso così duro che ha portato ad un esodo di massa dei giovani meridionali ( in Calabria 2 su tre!) come non si era mai registrato in queste proporzioni.
Il malato è guarito, solo che adesso gli manca una gamba, ha una protesi in un braccio e a stento usa le stampelle per camminare. Ed è anche molto arrabbiato con chi aveva promesso che “mai e poi mai” avrebbe accettato le misure di austerità e poi ha subito il ricatto usuraio.
La gran parte del popolo greco che aveva votato per Tsipras più volte , secondo i sondaggi oggi è profondamente delusa e arrabbiata.
Non credo che, come dicono alcuni esponenti della sinistra radicale, Tsipras sia un “traditore” o un “venduto”. E’ stato un leader della sinistra in una Europa dove la sinistra si è inabissata, dimenticando la sua radice storica internazionalistica, la solidarietà vera e fattiva.
Lasciato solo Tsipras e, soprattutto, lasciata sola quella parte della società greca che aveva risposto alla crisi con forme significative di autorganizzazione, che andavano sostenute e imitate. Inseguendo le onde mediatiche, l’interesse dei compagni per la Grecia si è presto estinto e si è trovato un alibi nel “tradimento” di AlexisTsipras.
Nessun approfondimento su quello che si poteva fare e non è stato fatto.
Nessuna seria riflessione o dibattito su quello che sarebbe accaduto se la Grecia fosse uscita dall’euro come chiedeva il ministro delle finanze tedesco.
Non ci sono algoritmi o equazioni che possano dirci con certezza quello che sarebbe accaduto, ma è certo che la svalutazione della dracma avrebbe avuto, almeno nel breve periodo, effetti ben più disastrosi, data l’estrema vulnerabilità e debolezza dell’economia del paese di Aristotele, privo di industrie rilevanti e persino con una bilancia alimentare in deficit.
Forse alle prossime elezioni Tsipras sarà punito dalla sua gente, ma a perdere veramente saremo tutti noi che abbiamo lasciato in solitudine questo paese, non l’abbiamo sostenuto in nessun modo di fronte ai ricatti della finanza e della tecnocrazia europea, non abbiamo scommesso su una alternativa possibile e non velleitaria.

Il Fatto 7.2.18
E il Voltaren si comprò il governo ateniese
Corruzione - Novartis avrebbe versato tangenti ai ministri per far lievitare i prezzi dei propri prodotti
di Roberta Zunini


Tra i tanti scandali che hanno macchiato la reputazione dei politici greci quello scoppiato ieri ha tutte le caratteristiche per distruggere definitivamente le speranze dei comuni mortali nei confronti della già vituperata classe politica. Perché le cospicue tangenti – per un totale di almeno 50 milioni di euro – che ministri vecchi e nuovi di punta del maggior partito di opposizione, Nea Demokratia, e del partito socialista (Pasok) avrebbero preso dal gigante farmaceutico svizzero Novartis, secondo la magistratura greca, sarebbero state elargite quando la crisi economica era già conclamata. Ovvero quando la maggior parte dei greci non era più in grado di acquistare le medicine della casa farmaceutica essendo diventate troppo costose.
La magistratura sostiene che la crescita dei prezzi Novartis sia dovuta al fatto che almeno dieci, tra legislatori e ministri, hanno accettato di imporre prezzi più alti in cambio di mazzette. Tra questi ci sarebbero l’attuale ministro socialista della Salute, Panayotis Kouroumplis, esponente dei socialisti, gli ex primi ministri di centro destra Antonis Samaras e Panagiotis Pikrammenos, l’ex ministro del Pasok Dimitris Avramopoulos, oggi commissario della Ue per l’immigrazione, Yannis Stournaras già ministro delle Finanze nel governo di centro destra fino al 2014 e consigliere speciale della Banca centrale greca nonché ex membro della commissione monetaria della Ue ed Evangelos Venizelos, uno dei più longevi e potenti esponenti dei socialisti.
Nell’aprile dello scorso anno, il parlamento votò a favore dell’apertura di un’inchiesta su presunti scandali sulla salute e il governo presieduto da Tsipras affermò che le amministrazioni socialiste e conservatrici per decenni hanno permesso agli appaltatori di sovraccaricare gli ospedali di attrezzature, forniture e medicine in cambio di tangenti. Il ministro della giustizia greco Stavros Kontonis ha dichiarato che Novartis probabilmente ha corrotto anche “migliaia di medici e dipendenti pubblici”. Che ci sia sotto qualcosa di grosso, lo si era capito dal tentato suicidio nella notte di Capodanno del 2017 di un manager della Novartis che lavorava nella sede di Atene. Il tentativo fu sventato, e una fonte giudiziaria rivelò che il manager era fra quelli interrogati sulla presunta corruzione. Intanto la Novartis è indagata dall’Fbi, sospettata di aver pagato tangenti per aumentare le vendite di alcuni dei suoi medicinali, e ha già ricevuto una multa di 390 milioni di dollari dal Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti.
Nel marzo 2017, Novartis ha anche pagato 25 milioni di dollari per liquidare i sinistri relativi alla sua controllata cinese. Ora la Commissione parlamentare dovrà riunirsi per decidere se togliere l’immunità ai presunti corrotti ancora seduti in Parlamento.

Corriere 7.2.18
Duda firma la legge che pretende di cambiare la storia della Polonia
di Maria Serena Natale


«Vuole che viva solo per lei e con lei. Meglio se in una stanza buia, chiusa...». Con grazia folgorante Wislawa Szymborska parlava della memoria, del corpo a corpo quotidiano con i ricordi che lei, poetessa delle piccole storie «figlia del secolo», conosceva bene. Oggi nella sua Polonia la Storia è ancora un campo di macerie. Il presidente della Repubblica Andrzej Duda ha firmato la legge che prevede fino a tre anni di carcere per chiunque, anche cittadino straniero, accusi la nazione polacca di complicità con i crimini nazisti. È la norma che vieta di definire i lager «polacchi». Si tratta di una vecchia battaglia dei governi di Varsavia, ora inserita a pieno titolo nella strategia politica dei nazional-conservatori di Jaroslaw Kaczynski che hanno sempre fatto del passato un terreno di auto-affermazione e resa dei conti, scontrandosi prima con i rivali interni, la Ue e la Germania, adesso con Israele, Usa, Ucraina. Un approccio che risente di riflessi revanscisti mai del tutto superati nella Polonia «Cristo delle nazioni», a sua volta vittima del nazismo. Duda assicura che il provvedimento tutelerà «la verità storica e la dignità» dello Stato ma chiede alla Corte costituzionale di verificarne la conformità alla Legge fondamentale che garantisce la libertà d’espressione, aprendo a modifiche parlamentari. Irriducibile a quella giuridica, la verità storica sullo sterminio di sei milioni di ebrei (tre milioni erano polacchi) non si piega alle ragioni della dignità nazionale. La legge sulla Shoah trasforma la memoria in ossessione, negandone la natura di continuo processo di elaborazione, materia viva da tramandare, con il suo carico di complessità e dolore, fuori dalle stanze buie di Szymborska, «... ma qui nei miei piani c’è sempre il sole presente, le nuvole di oggi, le vie giorno per giorno».

il manifesto 7.2.18
Israele, al via la campagna di espulsioni dei richiedenti asilo
Migrazioni. Circa 40mila eritrei e sudanesi hanno 60 giorni per lasciare il Paese, altrimenti rischieranno il carcere a tempo indeterminato. Netanyahu accusa il miliardario ebreo Soros di essere dietro le proteste contro il suo piano.
di Michele Giorgio


In un silenzio internazionale rotto da poche voci, il Dipartimento per l’immigrazione e la popolazione di Israele nei giorni scorsi ha iniziato ad inviare gli avvisi di espulsione ai richiedenti asilo giunti dall’Eritrea e dal Sudan. La campagna di ”allontanamento”, così la chiamano in Israele, ha preso ufficialmente il via a Tel Aviv con la consegna a circa 200 eritrei di ingiunzioni a lasciare il Paese. Nei prossimi giorni coloro che presenteranno alle autorità il visto di soggiorno per il rinnovo riceveranno il loro ultimo visto insieme a una intimazione scritta in cui si afferma che dovranno partire nei successivi sessanta giorni. Altrimenti rischieranno di essere incarcerati indefinitamente. Si tratta dell’ultimo e più decisivo passo che il governo Netanyahu muove in linea con la sua politica di negazione dei diritti di chi è fuggito da abusi, torture, violazioni e guerre, e in presunta difesa «del carattere ebraico di Israele» che, afferma il premier, sarebbe minacciato dalla presenza dei richiedenti asilo africani (meno di 40 mila).
Netanyahu spara a zero su chi in Israele si oppone alle espulsioni e accusa il miliardiario ebreo George Soros di finanziare le proteste delle Ong e delle associazioni locali contro il suo governo, in particolare il New Israel Fund da alcuni anni bersaglio della destra israeliana. «Abbiamo iniziato un’operazione per rimuovere gli infiltrati illegali (i richiedenti asilo africani, ndr) da Israele, proprio come fanno altri Paesi moderni, principalmente gli Stati Uniti», ha scritto su Facebook assicurando che «manterrà la promessa di rimuovere gli infiltrati nel Paese». Netanyahu si è rifatto a una campagna contro Soros iniziata lo scorso anno dal primo ministro ungherese Viktor Orban che accusa l’anziano miliardario di orchestrare la migrazione in Europa di milioni di siriani e di profughi di vari Paesi. Il volto di Soros è apparso sui cartelloni pubblicitari in tutta l’Ungheria con scritte e slogan al limite dell’antisemitismo. Ma questo non turba Netanyanu che continua a vedere in Orban uno dei suoi principali alleati. Ed è indifferente verso le dure critiche che riceve dalla capogruppo del Meretz (sinistra sionista) alla Knesset, Tamar Zandberg, che denuncia le relazioni strette dal Likud, il partito del premier, con forze politiche legate all’estrema destra europea.
Da parte sua Soros ha respinto gli attacchi non mancando comunque di ricordare a Israele che «in conformità con la Convenzione sui rifugiati del 1951 e il diritto internazionale, è sbagliato inviare i richiedenti asilo di nuovo in Paesi dove potrebbero essere perseguitati o uccisi». È ciò che pensano gli attivisti, gli accademici e le personalità religiose nelle ultime settimane hanno esortato il governo israeliano a bloccare il suo piano. Contro le espulsioni si sono espressi anche sopravvissuti alla Shoah e piloti che preannunciano il rifiuto di guidare aerei con migranti diretti in Africa contro la loro volontà. Alcuni kibbutz progettano di dare ospitalità a chi fosse colpito da ordini di espulsione e ricercato dalla polizia. In campo sono scesi numerosi imprenditori, schierati per interesse economico contro le deportazioni perché, dicono, l’improvvisa partenza di tanta manodopera a basso costo rischia di rivelarsi un boomerang. Per rassicurarli il governo ha approvato l’incremento di 6 mila unità del tetto per i lavoratori stranieri nel settore edile, ora fermo a 16.500, e ha revocato la norma che proibiva alle imprese di fare offerte pubbliche per assumere manodopera di altri Paesi.
Per ora le notifiche di espulsione non vengono rilasciate a donne, bambini e padri di bambini. Quanti sono originari del Darfur potranno restare ma il loro futuro resta incerto. Chi accetterà di partire “volontariamente” otterrà una assegno di 3.500 dollari e un biglietto aereo oppure rischierà il carcere ad oltranza. Israele sostiene che nel “Paese terzo”, il Ruanda, con cui afferma di aver firmato accordi, i richiedenti asilo potranno stabilirsi e riacquistare una esistenza normale. Un futuro ben diverso da quello che diversi africani usciti da Israele nei mesi scorsi hanno raccontato e che resta gravido di incognite.

il manifesto 7.2.18
Pechino, la sfida della crescita raccontata dal vero
«Cemento rosso» un libro per capire meglio la Cina di Giuliano Marrucci, per Mimesis
Chen Wen Ling, Red Memory
di Lorenzo M. Capisini


Il giornalista di Report Giuliano Marrucci in Cemento rosso. Il secolo cinese, mattone dopo mattone (Mimesis, pp. 180, euro 16) offre uno sguardo documentato sulla Cina di oggi e sul frenetico cambiamento della sua società urbana.
Il libro parte da una prospettiva occidentale, ma si avvicina alla Repubblica Popolare con spirito aperto: evita quelle generalizzazioni per cui la Cina pare fatta solo di numeri sbalorditivi. I traguardi economici si accostano ai problemi di ridistribuire la ricchezza e di adattare il welfare alle esigenze del terzo millennio. Ad esempio, si spiega come il sistema anagrafico-familiare che vincola la residenza (huji e hukou) si colleghi all’erogazione dei servizi essenziali e come – in tempi di crisi – possa essere ancora un paracadute per i più poveri.
TUTTAVIA, esso comporta anche opportunità diseguali, specie in un Paese geograficamente disomogeneo come la Cina. Non si tratta solo del divario tra campagna e città, ma anche tra provincia e provincia. La Repubblica Popolare perde così il suo aspetto monolitico, anche se l’aggettivo «federalista», usato più volte, pare inadatto vista la storia che questo termine ha avuto in Cina.
A PARTE ALCUNI PUNTI da contestualizzare, la Repubblica Popolare emerge nel libro come un Paese in via di sviluppo, che affronta la sfida della crescita cercando di contenerne le distorsioni. Una prospettiva storica avrebbe potuto spiegare che questo è un processo di lungo periodo e ha generato discussioni. Le città e i quartieri fantasma oppure il connubio di interventi repressioni e investimenti governativi nello Xinjiang sono casi, presentati da Marrucci, che rispecchiano una classe politica con idee eterogenee e in competizione tra loro. Per molti versi, uno sviluppo così accelerato ha provocato semplicemente scelte affrettate.
L’INVESTIMENTO CINESE nel cemento, come nel caso della Diga delle Tre Gole, si collega appunto anche ad altri temi, solo accennati, come l’impatto ambientale e una produzione energetica antiquata, basata sul carbone. Ancora, queste relazioni non sono una novità e rinviano a un problema centrale: quello politico. Il libro non lo tratta in maniera ampia, anche se offre alcuni spunti interessanti. Primo, la «cauta internazionalizzazione» della Repubblica Popolare rappresenterebbe una strategia per inserire il Paese in intrecci economici globali ed evitare un’implosione simile a quella dell’Urss. Secondo, la capacità della Cina di diventare un Paese leader dipenderebbe dalla sua capacità di trovare una soluzione ai problemi dello sviluppo urbano.
EPPURE, DIMENSIONE internazionale e nazionale sono interdipendenti. Il tema della modernizzazione è stato il leitmotiv di una nutrita storiografia sul Novecento cinese, ma oggi appare con sempre maggiore forza come sia necessaria un’osmosi internazionale di idee e persone per mettere un Paese all’avanguardia.
LA POLITICA ESTERA di Pechino è ancora lontana dal proporre un modello compiuto di leadership e le questioni aperte nel Mar Cinese Meridionale lo dimostrano. Se il mondo dipenderà dalle città cinesi del futuro, come conclude Marrucci, queste ultime dipenderanno anche dalle relazioni internazionali che Pechino riuscirà a intessere.
Cemento rosso rimane un ottimo strumento per un primo approccio alla Cina, abbastanza scorrevole e sorretto da un’ampia gamma di statistiche.

La Stampa 7.2.18
Grande Guerra, così la Marina salvò Venezia
A cent’anni dalla beffa di Buccari, l’ammiraglio Girardelli rivendica il ruolo delle forze navali italiane nell’organizzare la difesa e ridare speranza al Paese dopo il disastro di Caporetto
di Fabio Pozzo


Dopo la rottura del fronte a Caporetto, fu la Regia Marina a ridare speranza ai soldati e alla popolazione italiani. Nella notte tra il 10 e l’11 febbraio di cent’anni fa un commando con tre motoscafi armati entrò nella baia di Buccari, poco lontana da Fiume, per silurare le navi nemiche in rada. Sulla via del ritorno ci fu il lancio di tre bottiglie con un messaggio di Gabriele d’Annunzio, presente a bordo di uno dei Mas, che si beffava della «cautissima flotta austriaca…». Era stato osato l’inosabile e l’eco di quell’impresa fu notevole.
Ammiraglio Valter Girardelli, Capo di Stato maggiore della Marina Militare italiana, spesso si pensa alla Grande Guerra come a un conflitto di terra, di assalti all’arma bianca e di logoramento nelle trincee. Invece ci fu anche il mare.
«C’è un nodo fondamentale su cui gli storici si trovano d’accordo: gli Imperi Centrali arrivano alla sconfitta per via del collasso economico degli stessi. E alla base di questa débâcle economica c’è il dominio dei mari da parte dei Paesi dell’Intesa, Italia compresa. Proprio in questo contesto, quello del potere marittimo, la Regia Marina dà il suo contributo assicurando la protezione delle linee logistiche e di rifornimento nazionali e negando l’uso del mare per gli approvvigionamenti degli avversari. Vengono portate a termine operazioni come la difesa di Venezia e vengono impiegati unità e principi innovativi per l’epoca, come i mezzi d’assalto, l’Aviazione navale e la Fanteria di Marina. Senza queste componenti la vittoria finale sarebbe stata impossibile».
Altre innovazioni?
«Si doveva far giungere a destinazione, a qualunque costo, i piroscafi provenienti da Gibilterra e da Suez che trasportavano le materie prime e i prodotti finiti, indispensabili non solo ai soldati, ma soprattutto alla nazione. Fu quindi necessario organizzare un servizio nuovo: i piroscafi furono armati e militarizzati; furono prescritte le rotte di sicurezza e fu creato, per la prima volta in tempi moderni, un sistema di convogli difesi da una scorta ravvicinata di navi da guerra. Il sistema da noi proposto fu poi adottato anche dagli alleati e riconosciuto efficacissimo. Nel complesso del conflitto, la Marina italiana portò a termine 86 mila missioni, per oltre 25 milioni di miglia di navigazione: l’equivalente di milleduecento volte il giro del mondo intorno all’Equatore».
La missione: salvare Venezia.
«Nel novembre del 1917, dopo la rottura del fronte a Caporetto, la Marina si attestò sul Piave. C’era da difendere Venezia a tutti i costi: se fosse caduta, la stessa Marina avrebbe dovuto abbandonare tutto l’Alto Adriatico, con conseguenze disastrose per la condotta della guerra, non solo marittima. Furono costituiti alcuni battaglioni di marinai fucilieri (gli antesignani dell’attuale Brigata San Marco) e lungo il Piave venne schierato un raggruppamento di pezzi di grosso calibro, integrato da pontoni armati con le artiglierie. L’offensiva nemica si accanì per mesi contro le nostre linee, ma i marinai ressero l’urto, proteggendo il fianco a mare della Terza Armata e salvando così Venezia».
Passando alle azioni offensive, che ruolo svolsero i Mas?
«La Marina, grazie alla visione strategica dell’ammiraglio Paolo Thaon di Revel, improntò il conflitto a guerriglia navale. E i Mas, motoscafi veloci, di poca immersione, armati con siluri e mitragliere, studiati per essere costruiti in serie e per molteplici impieghi, furono determinanti. Nel dicembre 1917, due di questi mezzi, sotto il comando di Luigi Rizzo, riuscirono a penetrare nel porto di Trieste, silurando e affondando la corazzata Wien e costringendo le rimanenti unità a rifugiarsi a Pola. Due mesi dopo, la beffa di Buccari. Nel giugno ’18, poi, nei pressi dell’isola di Premuda, fu intercettata la squadra da battaglia austriaca diretta a forzare il blocco del canale d’Otranto e un Mas, sempre con Rizzo, affondò la corazzata Szent Istvan. Da non dimenticare l’affondamento della corazzata Viribus Unitis, il 1° novembre ’18 nella base di Pola, a opera della torpedine semovente (denominata “mignatta”), antesignana dei mezzi d’assalto, condotta da Paolucci e Rossetti».
La Grande Guerra fu anche disperazione, per eserciti e popolazioni. La Marina svolse azioni umanitarie?
«Fu impegnata in azioni di protezione civile, come la salvaguardia del patrimonio artistico di Venezia e di altre città, evacuando opere d’arte e mettendo in sicurezza monumenti e beni architettonici nei territori veneti sottoposti all’offesa nemica. Un’altra attività di notevole valenza sociale fu l’accoglienza degli orfani e dei ragazzi segnati da un’infanzia difficile su navi adibite ad asilo, che assicurarono assistenza, educazione e formazione. E ricordo anche il salvataggio dell’esercito serbo nell’inverno 1915-1916, che vide il soccorso via mare, dai porti albanesi, di quasi trecentomila fra soldati e profughi civili serbi, prigionieri austro-ungarici, e di migliaia di animali a supporto delle truppe».