mercoledì 7 febbraio 2018

Corriere 7.2.18
Filosofia
Ogni istante della vita è eterno
Emanuele Severino sul destino delle cose. Le critiche a Horkheimer, Adorno e Popper
Un volume, edito da Rizzoli, che s’ispira alle controversie dell’Umanesimo
I limiti della tradizione occidentale e l’egemonia della tecnica
di Pierluigi Panza


L’uomo teme la morte. Se la morte è la minaccia che Dio rivolge ad Adamo, significa che Dio sa ciò che il primo uomo già teme maggiormente. Essa è l’elemento fondante il pensiero occidentale, secondo il quale l’ente è concepito dal nulla, diventa ente e poi torna nel nulla, di cui la morte segna il passaggio. Ma tutto questo l’essere non può esserlo, poiché il nulla è la negazione dell’essere e dove c’è il primo, che è eterno, non si può palesare il secondo.
Nel suo nuovo libro, Dispute sulla verità e la morte (Rizzoli), il filosofo Emanuele Severino muove dalle considerazioni base del suo pensiero neoparmenideo, guidando il lettore nel labirinto delle grandi domande, anche attraverso la rielaborazione di articoli apparsi sul «Corriere della Sera».
Il termine Dispute rimanda ad esempi della letteratura filosofica dell’Umanesimo o del Settecento: è l’affrontarsi di argomenti opposti. Qui sono il dominio delle tecnoscienze, che illusoriamente combatte il diventare nulla degli enti, contro l’immutabilità degli stessi in quanto esseri nella loro totalità, cosa che rimangono anche dopo il ritirarsi dalla vista.
È con il pensiero greco che gli enti incominciano a nascere dal nulla e sparire nel nulla. «Quasi, nascendo, moriamo», scriveva in ripresa a questo pensiero l’umanista Leon Battista Alberti; ed è ciò che diventerà l’«essere per la morte» nell’esistenzialismo di Martin Heidegger. Prima con i miti, poi con le religioni e, infine, con le tecnoscienze che hanno preso il posto della filosofia (e che il capitalismo crede, illusoriamente, di controllare), l’Occidente ha cercato di offrire una risposta all’angoscia del venir meno di ciò che era presente prima di precipitare nel nulla. Per Heidegger l’«Essere» è tempo e nessun ente è eterno; per le tecnoscienze conta l’incidenza pragmatica di un postulato sugli enti; gli scritti di Severino perseguono una terza via: la necessità che ogni ente sia eterno perché esso sia.
L’annientamento non può apparire, perché non possiamo fare esperienza dell’altro e perché, quando si crede che le cose si annientino, è necessario «che si creda anche che non se ne possa più fare esperienza», ed è quindi impossibile che l’esperienza mostri a quale destino siano andate incontro le cose da essa uscite. Il significato della morte va posto fuori dal movimento dell’Occidente, concorde nelle sue esperienze del mito, delle religioni («strumenti ciechi» che si contendono la lotta al nulla) e delle tecnoscienze nel ritenere che l’individuo venga e ritorni al nulla. Questa concordanza costituisce una piattaforma dogmatica che consiste nel mostrare l’impossibilità di qualcosa di eterno o immutabile.
Severino si pone in alternativa a questa piattaforma: «Il destino della verità è l’apparire dell’eternità di ogni essente; sì che il venire e l’andare degli essenti, la loro nascita e la loro morte, è il comparire e lo scomparire degli eterni. La loro eternità è la condizione del loro ritorno». Il compimento e il non continuare che la morte segna non sono l’annientamento di ciò che ha avuto compimento e non continua. Per il principio per cui nessuna cosa può essere altro da ciò che è, ogni cosa è eterna, perché qualsiasi cambiamento la renderebbe diversa da ciò che è. Anzi, essendo l’essere la totalità di ciò che esiste, non può esserci altro al di fuori di esso dotato di esistenza. Totalità non nell’accezione hegeliana della storia risolta nell’«In sé», ma totalità ontologica.
Per porre al centro l’eternità di tutte le cose e la negazione dell’esperibilità del loro diventar altro, Severino suggerisce di reintrodurre una educazione alla morte sul modello della Death Education (cita, a questo proposito, il libro di Ines Testoni, L’ultima nascita. Psicologia del morire e Death Education , Bollati Boringhieri, 2015), una sorta di meditatio mortis che i Paesi anglosassoni intendono rendere operante. Questo è urgente perché nel nostro tempo le tecnoscienze, nel dispiegare il loro scopo che è la creazione di scopi sia in chiave prassistica che controprassistica (Severino supera la Dialettica dell’Illuminismo di Adorno e Horkheimer), tendono a nascondere la morte come sconfitta. La tecnoscienza, infatti, non conosce la verità e la rifugge come Metafisica (qui la critica è a Congetture e confutazioni di Karl R. Popper), «ma non può nemmeno conoscere che cosa sia in verità la morte e l’angoscia per la morte». La morte è solo la persuasione «dell’assentarsi dell’eterno».
L’educazione alla morte deve partire dalla consapevolezza che l’eternità compete a ogni essente, non perché è contenuto originariamente in Dio, o perché la sua materia sia eterna, bensì perché esso «è quell’essente che è»: questa penombra della stanza, questo ricordo della giornata trascorsa, queste nubi del cielo, ogni istante della storia del mondo sono eterni perché sono questa penombra, questo ricordo, queste nubi, questi istanti. Non sono, e non possono diventare, un nulla.
Agli aspetti qui presentati, il volume ne aggiunge molti altri, come le osservazioni su Giovanni Gentile e i contributi nati dal pensiero dell’autore. In coda è pubblicata una lunga intervista rilasciata a Sioned Puw Rowlands. Il rilievo di alcuni è che Severino non abbandona il concetto di verità, così consustanziale alla filosofia greca, al cristianesimo e alla scienza moderna che egli contrasta.