internazionale 3.2.2018
La lingua fossile
The Economist, Regno Unito
L’islandese
moderno è quasi identico a quello parlato dai vichinghi mille anni fa. È
il risultato dell’isolamento, ma anche di un continuo sforzo collettivo
di conservazione e adattamento
Non sorprende certo
che gli islandesi abbiano un nome diverso per ciascuno dei molti tipi
di pesce che pescano da secoli nelle acque che lambiscono l’isola.
Sorprende di più che abbiano non un solo termine ma tre per indicare il
celacanto: dopotutto, questo fossile vivente degli abissi dell’oceano
Indiano non c’entra proprio niente con il loro ambiente atlantico. E
poi, se un islandese avesse proprio bisogno di parlare del celacanto,
perché non usare il termine greco come fanno altri popoli? Il fatto è
che gli islandesi adorano coniare nomi e mai si sognerebbero di adottare
semplicemente la traslitterazione di un termine straniero. Perciò il
celacanto lo chiamano skúfur, che significa “nappa”, oppure skú- fuggi,
“pinna-nappa”, o a volte anche forniskúfur, “antica nappa”.
Gli
islandesi sono estremamente fieri della loro lingua e partecipano
attivamente alla sua manutenzione. In occasione della giornata della
lingua islandese celebrano, tra i loro 340mila connazionali, quelli che
si sono impegnati di più per difenderla. La amano perché li lega al loro
passato. L’islandese medio si diverte a usare nella vita quotidiana
frasi tratte dalle saghe, scritte circa otto secoli fa. Quando un
commentatore sportivo, riferendosi a una squadra di calcio che si batte
strenuamente in barba a tutti i pronostici, dice che bítur
skjaldarrendur (addenta i bordi dello scudo), fa un’operazione del tutto
normale: prende in prestito un’immagine tratta dai racconti delle
antiche gesta dei vichinghi. Quella stessa metafora si trova scolpita
nell’avorio di tricheco di cui è fatta la torre degli scacchi di Lewis,
conservati al British Museum, che risalgono al dodicesimo secolo. Il
risultato è davvero unico: una lingua allo stesso tempo moderna
(perfettamente in grado di esprimere concetti come “podcast”), pura
(prende in prestito pochissime parole da altre lingue) e antica (è molto
più vicina al suo antenato norreno rispetto alle cugine danese e
norvegese, che invece se ne allontanano sempre di più). La sua complessa
grammatica non è praticamente cambiata in quasi mille anni e mantiene
un carattere prettamente antico. Insomma, se l’islandese è un fossile
vivente, come il forniskúfur, di sicuro è un fossile in piena salute.
Fu
Ingólfur Arnarson a condurre i primi coloni dalla Norvegia in Islanda
nell’874 dopo Cristo. Parlavano la lingua usata in tutta la Scandinavia,
spesso chiamata donsk tunga (lingua danese) ma talvolta indicata anche
con una qualche variante di “nordico” (da cui originano i termini
norreno, norvegese e normanno). Ben presto cominciarono a usarla anche
in forma scritta, tanto che molto di ciò che conosciamo della cultura
vichinga deriva proprio da testi islandesi. Nel tredicesimo secolo
Snorri Sturluson pubblicò l’Edda in prosa, una delle prime e più
importanti narrazioni delle imprese di Thor, Frigg, Loki e compagni.
Inoltre gli islandesi ricostruirono attentamente la loro storia creando
le saghe: racconti a metà tra storia e mito che si estendono per diverse
generazioni e trattano di questioni familiari, fuorilegge, onore e
vendetta. Secondo lo scrittore ceco Milan Kundera le saghe potrebbero
essere considerate a buon diritto “un’anticipazione, se non la
fondazione, del romanzo europeo”, se solo non fossero state scritte in
una lingua che nessun altro parlava. Anche opere di carattere religioso
furono messe per iscritto su cartapecora. Nell’undicesimo secolo, in
seguito a una travagliata decisione dell’Alþingi (assemblea), gli
islandesi rimpiazzarono Odino
L’islandese moderno è quasi
identico a quello parlato dai vichinghi mille anni fa. È il risultato
dell’isolamento, ma anche di un continuo sforzo collettivo di
conservazione e adattamento con la Trinità. Ben presto i testi
ecclesiastici furono tradotti in islandese.
Secondo il linguista
Kristján Árnason, la lingua parlata diventò una “rispettabile
alternativa al latino” già secoli prima che la riforma protestante
introducesse un cambiamento simile nel resto d’Europa. Prima di Dante
L’idea
che studiosi ed ecclesiastici dovessero prendere sul serio la lingua
parlata nella vita di tutti i giorni non fu unicamente islandese: Dante
Alighieri propose la stessa tesi nel De vulgari eloquentia, ma lo fece
in latino, e all’inizio del trecento. Il Primo trattato grammaticale
islandese, uno studio pionieristico sulla possibilità di scrivere
l’antico nordico con l’alfabeto latino, fu realizzato 150 anni prima da
un autore sconosciuto. La ricchezza di quella precoce letteratura ed
erudizione in volgare è una delle ragioni per cui l’islandese conserva
ancora oggi la sua forma antica, con una grammatica complessa che altre
lingue scandinave hanno ormai perduto. Possiede tre generi e quattro
casi, che determinano le desinenze di sostantivi e aggettivi a seconda
della loro funzione nella frase. Invece le lingue scandinave
continentali generalmente hanno perso uno dei tre generi e quasi tutto
il sistema delle declinazioni. In islandese i verbi hanno sei forme
diverse per le sei persone grammaticali, mentre le altre lingue
scandinave hanno ridotto la coniugazione a un’unica forma.
Un
altro fattore di preservazione fu semplicemente l’isolamento. L’Islanda è
separata da 700 chilometri di acque tumultuose dalla più vicina terra
abitata, le piccole isole Fær Øer, dove si parla un’altra lingua
scandinava dalla grammatica antica. Uno studio condotto su più di
duemila lingue ha stabilito che quelle caratterizzate da pochi parlanti,
diffuse in aree piccole e con pochi vicini tendono ad avere
precisamente il tipo di complessità che l’islandese e il faroese hanno
mantenuto, e che il danese ha perso. Anche lingue più “grandi”, come il
russo, possono conservare la stessa complessità dell’islandese, ma sono
un’eccezione.
Un altro motivo è che al momento della
colonizzazione l’Islanda era disabitata. Di solito le conquiste lasciano
influssi di “sostrato” nella lingua dei conquistatori. Inoltre le
classi sociali erano quasi irrilevanti: la prestigiosa lingua scritta
era parlata sia dalle persone istruite sia dagli analfabeti. Il
risultato, a quanto dicono molti islandesi, è che oggi tutti riescono a
leggere le saghe del tredicesimo secolo “con la stessa facilità di un
quotidiano”. Simili affermazioni vanno prese con le molle: la grammatica
sarà anche cambiata poco, ma per comprendere le saghe bisogna conoscere
i legami di parentela e i miti che oggi gli islandesi imparano a
scuola. Secondo alcuni per un islandese leggere le saghe è come per un
anglofono leggere Shakespeare. Ma è comunque una cosa straordinaria,
dato che le saghe non sono state scritte al tempo di Shakespeare, ma un
secolo prima di Chaucer, nel duecento. Se la stabilità dell’islandese è
oggetto di dibattiti e congetture, la sua purezza lessicale è più facile
da spiegare. Nel corso della storia ha mutuato molti vocaboli da altre
lingue, ma nel seicento gli intellettuali islandesi cominciarono a
eliminarli. Basta aprire un dizionario danese-islandese per capire
quanto queste due lingue cugine si siano differenziate. Il danese ha
accolto una serie di termini paneuropei come passiv, patent e pedicure;
gli equivalenti islandesi sono hlutlaus, einkaleyi e fótsnyrting. Quasi
tutte le lingue d’Europa condividono un enorme numero di vocaboli dalle
radici latine e greche, da “telefono” a “indirizzo”. In islandese invece
“telefono” si dice sími, dal termine norreno per “ilo”, mentre
“indirizzo” è heimilisfang, che letteralmente significa “il luogo dove
si può essere trovati in casa”. Di solito davanti alla segnaletica
islandese monolingue uno straniero non riesce a decifrare neanche una
parola. Lunghissime parole composte come hjúkrunarfræðingur (infermiere)
non hanno elementi familiari: hjúkrun deriva dalle radici “servire” e
“accudire”, mentre fræðingur indica un professionista. Aggiungono un
tocco di esotismo le due lettere ð e þ, che rappresentano due suoni tra
loro simili: il primo è l’equivalente del “th” sonoro dell’inglese, come
in this; il secondo è il corrispettivo sordo, come nell’inglese three.
Alcuni vocaboli islandesi sono simili ai loro corrispondenti inglesi:
bók, epli e brauð significano rispettivamente “libro”, “mela” e “pane”
(book, apple, bread). Questo perché le lingue scandinave e le lingue
germaniche occidentali (inglese, neerlandese, tedesco) discendono tutte
da un unico progenitore, detto protogermanico. Altre sovrapposizioni
lessicali derivano dal fatto che gli invasori vichinghi lasciarono in
Inghilterra alcune parole: knife, leg, husband, window e perino il
pronome they (che corrisponde al þeir sia norreno sia islandese
moderno). Ciò significa che a un orecchio inglese molte parole non
suonano né straniere come hjúkrun, né semplici come bók, ma familiari ed
estranee al tempo stesso. La tata di Tolkien Alcune di queste
somiglianze possono trarre in inganno. una persona che parla inglese e
sa che dóm è imparentato con il termine doom (destino terribile)
l’edificio di Reykjavík su cui si legge Dómsmálaráðuneytið può apparire
sinistro. In realtà si tratta del ministero della giustizia. Anche in
inglese un tempo doom significava semplicemente “giudizio, sentenza”, e
solo in seguito assunse il significato attuale. Non è chiaro in che
senso J.r.r. Tolkien intendesse questa parola quando chiamò Mount Doom
(monte Fato) il luogo cruciale del Signore degli anelli. Di certo,
essendo un filologo esperto di norreno e di altre lingue antiche, nonché
amante degli arcaismi, l’islandese lo conosceva di sicuro. Per dirne
una, il nome del mago Gandalf è tratto dall’Edda. La bambinaia islandese
dei Tolkien, Adda, non si occupava solo dei figli: aiutava lo scrittore
anche a esercitarsi con l’islandese. La signora Tolkien non ne era
affatto contenta. Anche il poeta W.h. Auden, appassionato del Signore
degli anelli, era incantato dalle storie e dalla lingua dell’Islanda; lo
incantavano molto meno l’agnello affumicato e il pesce secco, a cui
preferì, durante il suo soggiorno islandese negli anni trenta,
innumerevoli caffè e sigarette. Inoltre era decisamente disgustato da
altri ammiratori dell’isola: in una lettera a un amico raccontava di
aver preso un autobus “pieno di nazisti che parlavano incessantemente
della Schönheit des Islands (la bellezza dell’Islanda) e dei tratti
ariani di quel popolo”. Ecco il rovescio della medaglia della purezza
isolata e incontaminata: il paese continua a essere oggetto delle
attenzioni indesiderate dei fascisti. Come ha detto David Duke, ex
leader del Ku klux klan, “ormai resta solo un paese completamente
bianco, l’Islanda. E l’Islanda non basta”. Paul Fontaine, giornalista
del reykjavík Grapevine, racconta che sulla pagina Facebook del giornale
i suprematisti bianchi ammoniscono l’Islanda a non “commettere gli
stessi errori” di altri paesi: fare entrare i richiedenti asilo e i
musulmani. È uno dei motivi per cui Ari Páll Kristinsson, direttore del
Consiglio per la pianificazione linguistica dell’isola, rabbrividisce
all’idea di “purezza” linguistica e preferisce parlare di “tradizione
lessicale islandese”. Ma Ari Páll si adopera per mantenere la lingua il
più vicino possibile a un antico nordico incontaminato. In confronto ad
altri paesi che hanno lo stesso obiettivo, lui e i suoi collaboratori se
la cavano molto meglio. In Francia, i quaranta dotti dell’Académie si
pronunciano su ciò che è o non è francese corretto, e i comitati
ministeriali per la terminologia sono occupatissimi a coniare parole
nuove. Ma i francesi li ignorano e continuano imperterriti a liker
(mettere like) i post su Face book e a bruncher (fare un brunch) con i
loro amici. Ari Páll e i suoi collaboratori invece ascoltano le
richieste della gente e la gente li ascolta. Il consiglio ha una
cinquantina di gruppi informali di appassionati dell’islandese e di
argomenti come i motori, l’ingegneria elettrica, i computer o il lavoro a
maglia, che suggeriscono nuovi vocaboli con solide radici norrene,
seguendo le indicazioni del consiglio su come renderli compatibili con
la fonetica e la grammatica della lingua nazionale. L’esempio forse più
famoso di questa creatività purista risale agli anni sessanta, quando
serviva un vocabolo per “computer” e gli esperti coniarono tölva,
combinando tala (numero) e völva, un antico termine per “profeta”.
Quando i medici cominciarono a parlare di aids usando la sigla inglese
al posto della sua lunga traduzione letterale islandese (heilkenni
áunnins ónæmisbrests), il comitato coniò due alternative più brevi:
alnæ- mi, all’incirca “pan-suscettibilità”, e eyðni, che suona simile al
termine inglese, ma deriva dall’islandese eyða, “distruggere”. Quando
gli islandesi cominciarono a dire pod cast, il consiglio rispose con
hlaðvarp, dalle radici che significano “caricare” e “lanciare”.
L’Islanda
rifiuta i vocaboli provenienti dall’estero, ma non gli stranieri. I
nati all’estero sono ormai più del 10 per cento dell’intera popolazione.
Molti vengono dall’Europa dell’est (e non hanno bisogno di visti,
benché l’Islanda non faccia parte dell’unione europea), ma ci sono anche
tailandesi e filippini. Nel 2004 un gruppo di razzisti statunitensi
insorse contro il Reykjavík Grapevine, che aveva messo in copertina la
foto di una keniana con indosso il costume nazionale islandese. Secondo
il presidente dell’Islanda, Guðni Jóhannesson, l’industria nazionale
della pesca crollerebbe senza manodopera straniera. L’Islanda sarà anche
l’unico paese al mondo con un Museo storico dell’aringa
(Síldarminjasafn), ma la lavorazione del pesce sopravvive principalmente
grazie ai polacchi, disposti a sopportare le dure condizioni delle
fabbriche. Gli immigrati sono una minaccia per la lingua islandese? Non
ancora, ma i timori aumentano. I corsi di lingua sovvenzionati dallo
stato esistono, ma sono insufficienti, dichiara Nichole Mosty, una
statunitense naturalizzata islandese che fino a poco tempo fa sedeva
nell’Alþingi. Il suo accento è stato criticato da alcuni islandesi. Ci
vuole grinta per superare le difficoltà iniziali di apprendimento.
Quando l’attuale first lady Eliza Reid si trasferì in Islanda dal Canada
con il marito, nel 2003, si mise subito a studiare l’islandese sul
serio.
Ma gli islandesi, non abituati a sentire la propria lingua
parlata da stranieri, passavano all’inglese appena apriva bocca. Per
evitarlo imparò a dire subito “sto studiando la lingua nazionale”.
Minaccia tecnologica
Non
tutti i nuovi arrivati si trattengono così a lungo. Al pari dei due
milioni di turisti che visitano l’Islanda ogni anno, anche i lavoratori
temporanei provenienti da paesi dell’unione europea scoprono che non
occorre imparare la lingua. La legge impone che i cartelli riservati
principalmente agli islandesi siano scritti in islandese. Ma gran parte
di Reykjavík non sembra più “riservata principalmente agli islandesi”. È
possibile che una minaccia ancor più grande degli stranieri sia la
tecnologia. Per esempio, gli islandesi non possono usare Siri sui loro
farsímar, né Alexa a casa, perché l’islandese non è tra le lingue
supportate da Apple e Amazon. Un ingegnere islandese di Google è
riuscito a convincere l’azienda ad aggiungere negli smartphone Android
il riconoscimento vocale della sua lingua, operazione che ha richiesto
la registrazione e la trascrizione di migliaia di ore di parlato
islandese. Google ha reso poi questi dati disponibili gratuitamente
anche ad altre aziende, ma non si sa in che misura saranno usati.
Eiríkur Rögnvaldsson, dell’università d’Islanda, racconta che Windows ha
aggiunto abbastanza presto l’islandese, ma la traduzione era così
scadente che molti utenti hanno preferito continuare a usarlo in
inglese. In seguito è stato migliorato, ma recentemente, quando
Rögnvaldsson ha chiesto agli studenti islandesi del suo corso quanti di
loro usassero Windows in islandese, la risposta è stata nessuno. Il
fatto che l’inglese sia la lingua della tecnologia rafforza tra i
giovani l’idea che sia alla moda, pratica e internazionale, mentre
l’islandese sarebbe pesante, difficile e locale. I ragazzi ripetono le
affermazioni dei genitori sulla necessità di mantenere la lingua pura,
ma in realtà adorano l’inglese. Nel 2017 Stefanie Bade, dottoranda
tedesca presso l’università d’Islanda, ha scoperto che gli islandesi,
ascoltando registrazioni della loro lingua parlata con accenti diversi,
giudicavano la pronuncia locale la più “attraente” e “rilassata” ma
l’accento americano più “intelligente”, “affidabile” e “intrigante”,
assegnandogli la valutazione più positiva. Gli islandesi sono
sopravvissuti all’isolamento, al ghiaccio e ai vulcani per più di un
millennio, e non saranno certo i turisti, i lavoratori stranieri o Siri a
costringerli ad abbandonare il loro retaggio culturale più caro. In
quale altro paese al mondo, per indicare un inatteso colpo di fortuna,
si usa un termine più curioso dell’islandese hvalreki, una “balena
spiaggiata” che offre da mangiare per mesi? Gli islandesi non
commetteranno l’errore di trattare la loro bella lingua come un dono del
destino: è una conquista che va custodita gelosamente. Sarà anche un
fossile vivente, ma per loro tenerlo in vita è insieme un dovere e un
piacere.