lunedì 5 febbraio 2018

internazionale 3.2.2018
La lezione dei sindacati tedeschi
di Laurent Jofrin, Libération, Francia


Quanto sono irritanti questi tedeschi. Vantano risultati economici insolenti, una crescita regolare, una gigantesca eccedenza commerciale, conti pubblici in equilibrio, tasso di disoccupazione ai minimi storici. E ora si mettono anche all’avanguardia dei diritti sociali in Europa. Ig Metall, il sindacato più potente della repubblica federale (e di tutto il continente), esige non solo un aumento salariale del 6 per cento per i suoi iscritti, ma anche e soprattutto la possibilità per gli operai metallurgici di passare alla settimana lavorativa di 28 ore con una parziale compensazione salariale. Un ulteriore colpo per le certezze francesi, se mai ce ne fosse bisogno. Il Medef (l’associazione degli industriali francesi), che così spesso cita a esempio l’eccellenza tedesca, è stato preso completamente in contropiede. Gli industriali francesi, che non trovano mai parole abbastanza dure per criticare le leggi che in Francia limitano l’orario di lavoro a 35 ore settimanali, sono stati sconfessati in modo spettacolare dai vicini tante volte invocati. Per ora quella dell’Ig Metall è solo una richiesta, e gli industriali tedeschi si sono opposti con decisione. Ma in ogni caso: in Francia si vogliono rimettere in discussione le 35 ore, in Germania si discute delle 28 ore. Anche i sindacati francesi, la sinistra e i movimenti sociali sono a disagio. Se la repubblica federale può pensare di ridurre l’orario di lavoro (su base volontaria), è anche perché ha saputo ristabilire a colpi di dolorosi sacrifici la competitività delle sue industrie. E se il tasso di disoccupazione è così basso, è anche perché in Germania sono molto diffusi i lavoretti part-time, spesso precari e mal pagati. Da questa vicenda si può trarre una doppia lezione, spesso mal compresa a destra e a sinistra: solo un’economia forte permette il progresso sociale, ma immancabilmente il successo economico suscita e giustifica le legittime rivendicazioni dei lavoratori.

internazionale 3.2.2018
L’Irlanda al voto sull’aborto The Irish Times, Irlanda


La decisione del governo irlandese, che ha indetto per la fine di maggio un referendum sull’abolizione delle restrizioni all’aborto, rappresenta una pietra miliare nel lungo e spesso aspro dibattito nazionale sull’argomento. L’ottavo emendamento alla costituzione, che è stato introdotto con un referendum nel 1983 e vieta l’aborto salvo rarissime eccezioni, non rilette più l’opinione del popolo irlandese. Questa realtà emerge sia dai sondaggi, che hanno ripetutamente evidenziato il desiderio di cambiamento, sia dal grande numero di donne irlandesi che ogni anno lasciano il paese per sottoporsi a una procedura vietata in Irlanda. Il cosiddetto “emendamento pro-life” non ha impedito alle donne di abortire, le ha solo costrette a farlo altrove. Negli ultimi anni, ogni giorno almeno nove irlandesi sono andate nel Regno Unito per abortire. Molte altre hanno usato pillole acquistate su internet. Fino a poco tempo fa si presumeva che il governo avrebbe provato a legalizzare l’aborto nei casi d’incesto, stupro e malattia grave del feto. E l’opinione pubblica, soprattutto al centro tra i due schieramenti, lo sosteneva chiaramente. Tuttavia, dopo aver trovato diversi ostacoli pratici a questa soluzione, la commissione parlamentare sull’ottavo emendamento ha chiesto di autorizzare l’aborto fino alla dodicesima settimana di gestazione. È stata una mossa decisiva. Davanti alla scelta tra il limite delle dodici settimane e il mantenimento dello statu quo, e senza dubbio tenendo conto di uno spostamento dell’opinione pubblica, i politici hanno deciso di accogliere la proposta della commissione. Invece di proporre l’abrogazione dell’articolo che vieta l’aborto, il governo ha scelto di sostituirlo con un altro articolo che autorizzi la commissione parlamentare a varare una nuova legge sull’aborto, per evitare il rischio che i tribunali possano bocciare una legge futura sull’interruzione di gravidanza. Ma anche questa soluzione comporta dei rischi. Solo in un numero ridotto di casi la costituzione nega ai giudici la possibilità di intervenire. Impedire al potere giudiziario di annullare la legge per motivi costituzionali provocherebbe un acceso dibattito. Non bisogna dare agli oppositori del referendum nessun motivo per sostenere che il parlamento stia cercando di aggirare la separazione dei poteri. La scelta delle parole nella proposta di emendamento sarà fondamentale. Il governo non deve sbagliare. u

internazionale 3.2.2018
CINA
Ostacoli per i giornalisti


Secondo il rapporto annuale del Foreign correspondent club of China, l’associazione della stampa estera di Pechino, nel 2017 le condizioni lavorative dei giornalisti stranieri in Cina sono peggiorate, scrive lo Hong Kong Free Press. Il governo di Pechino sempre più spesso nega ai giornalisti stranieri l’accesso ad ampie zone del paese che ritiene sensibili, come lo Xinjiang, le zone industriali o la regione al confine con la Corea del Nord. Inoltre continua a usare il rinnovo dei visti come strumento di pressione sui corrispondenti delle testate sgradite. Anche gli attacchi e le intimidazioni, con gravi violazioni della privacy, sono continuate nel corso dell’anno passato.

internazionale 3.2.2018
La lingua fossile
The Economist, Regno Unito

L’islandese moderno è quasi identico a quello parlato dai vichinghi mille anni fa. È il risultato dell’isolamento, ma anche di un continuo sforzo collettivo di conservazione e adattamento

Non sorprende certo che gli islandesi abbiano un nome diverso per ciascuno dei molti tipi di pesce che pescano da secoli nelle acque che lambiscono l’isola. Sorprende di più che abbiano non un solo termine ma tre per indicare il celacanto: dopotutto, questo fossile vivente degli abissi dell’oceano Indiano non c’entra proprio niente con il loro ambiente atlantico. E poi, se un islandese avesse proprio bisogno di parlare del celacanto, perché non usare il termine greco come fanno altri popoli? Il fatto è che gli islandesi adorano coniare nomi e mai si sognerebbero di adottare semplicemente la traslitterazione di un termine straniero. Perciò il celacanto lo chiamano skúfur, che significa “nappa”, oppure skú- fuggi, “pinna-nappa”, o a volte anche forniskúfur, “antica nappa”.
Gli islandesi sono estremamente fieri della loro lingua e partecipano attivamente alla sua manutenzione. In occasione della giornata della lingua islandese celebrano, tra i loro 340mila connazionali, quelli che si sono impegnati di più per difenderla. La amano perché li lega al loro passato. L’islandese medio si diverte a usare nella vita quotidiana frasi tratte dalle saghe, scritte circa otto secoli fa. Quando un commentatore sportivo, riferendosi a una squadra di calcio che si batte strenuamente in barba a tutti i pronostici, dice che bítur skjaldarrendur (addenta i bordi dello scudo), fa un’operazione del tutto normale: prende in prestito un’immagine tratta dai racconti delle antiche gesta dei vichinghi. Quella stessa metafora si trova scolpita nell’avorio di tricheco di cui è fatta la torre degli scacchi di Lewis, conservati al British Museum, che risalgono al dodicesimo secolo. Il risultato è davvero unico: una lingua allo stesso tempo moderna (perfettamente in grado di esprimere concetti come “podcast”), pura (prende in prestito pochissime parole da altre lingue) e antica (è molto più vicina al suo antenato norreno rispetto alle cugine danese e norvegese, che invece se ne allontanano sempre di più). La sua complessa grammatica non è praticamente cambiata in quasi mille anni e mantiene un carattere prettamente antico. Insomma, se l’islandese è un fossile vivente, come il forniskúfur, di sicuro è un fossile in piena salute.
Fu Ingólfur Arnarson a condurre i primi coloni dalla Norvegia in Islanda nell’874 dopo Cristo. Parlavano la lingua usata in tutta la Scandinavia, spesso chiamata donsk tunga (lingua danese) ma talvolta indicata anche con una qualche variante di “nordico” (da cui originano i termini norreno, norvegese e normanno). Ben presto cominciarono a usarla anche in forma scritta, tanto che molto di ciò che conosciamo della cultura vichinga deriva proprio da testi islandesi. Nel tredicesimo secolo Snorri Sturluson pubblicò l’Edda in prosa, una delle prime e più importanti narrazioni delle imprese di Thor, Frigg, Loki e compagni. Inoltre gli islandesi ricostruirono attentamente la loro storia creando le saghe: racconti a metà tra storia e mito che si estendono per diverse generazioni e trattano di questioni familiari, fuorilegge, onore e vendetta. Secondo lo scrittore ceco Milan Kundera le saghe potrebbero essere considerate a buon diritto “un’anticipazione, se non la fondazione, del romanzo europeo”, se solo non fossero state scritte in una lingua che nessun altro parlava. Anche opere di carattere religioso furono messe per iscritto su cartapecora. Nell’undicesimo secolo, in seguito a una travagliata decisione dell’Alþingi (assemblea), gli islandesi rimpiazzarono Odino
L’islandese moderno è quasi identico a quello parlato dai vichinghi mille anni fa. È il risultato dell’isolamento, ma anche di un continuo sforzo collettivo di conservazione e adattamento  con la Trinità. Ben presto i testi ecclesiastici furono tradotti in islandese.
Secondo il linguista Kristján Árnason, la lingua parlata diventò una “rispettabile alternativa al latino” già secoli prima che la riforma protestante introducesse un cambiamento simile nel resto d’Europa. Prima di Dante
L’idea che studiosi ed ecclesiastici dovessero prendere sul serio la lingua parlata nella vita di tutti i giorni non fu unicamente islandese: Dante Alighieri propose la stessa tesi nel De vulgari eloquentia, ma lo fece in latino, e all’inizio del trecento. Il Primo trattato grammaticale islandese, uno studio pionieristico sulla possibilità di scrivere l’antico nordico con l’alfabeto latino, fu realizzato 150 anni prima da un autore sconosciuto. La ricchezza di quella precoce letteratura ed erudizione in volgare è una delle ragioni per cui l’islandese conserva ancora oggi la sua forma antica, con una grammatica complessa che altre lingue scandinave hanno ormai perduto. Possiede tre generi e quattro casi, che determinano le desinenze di sostantivi e aggettivi a seconda della loro funzione nella frase. Invece le lingue scandinave continentali generalmente hanno perso uno dei tre generi e quasi tutto il sistema delle declinazioni. In islandese i verbi hanno sei forme diverse per le sei persone grammaticali, mentre le altre lingue scandinave hanno ridotto la coniugazione a un’unica forma.
Un altro fattore di preservazione fu semplicemente l’isolamento. L’Islanda è separata da 700 chilometri di acque tumultuose dalla più vicina terra abitata, le piccole isole Fær Øer, dove si parla un’altra lingua scandinava dalla grammatica antica. Uno studio condotto su più di duemila lingue ha stabilito che quelle caratterizzate da pochi parlanti, diffuse in aree piccole e con pochi vicini tendono ad avere precisamente il tipo di complessità che l’islandese e il faroese hanno mantenuto, e che il danese ha perso. Anche lingue più “grandi”, come il russo, possono conservare la stessa complessità dell’islandese, ma sono un’eccezione.
Un altro motivo è che al momento della colonizzazione l’Islanda era disabitata. Di solito le conquiste lasciano influssi di “sostrato” nella lingua dei conquistatori. Inoltre le classi sociali erano quasi irrilevanti: la prestigiosa lingua scritta era parlata sia dalle persone istruite sia dagli analfabeti. Il risultato, a quanto dicono molti islandesi, è che oggi tutti riescono a leggere le saghe del tredicesimo secolo “con la stessa facilità di un quotidiano”. Simili affermazioni vanno prese con le molle: la grammatica sarà anche cambiata poco, ma per comprendere le saghe bisogna conoscere i legami di parentela e i miti che oggi gli islandesi imparano a scuola. Secondo alcuni per un islandese leggere le saghe è come per un anglofono leggere Shakespeare. Ma è comunque una cosa straordinaria, dato che le saghe non sono state scritte al tempo di Shakespeare, ma un secolo prima di Chaucer, nel duecento. Se la stabilità dell’islandese è oggetto di dibattiti e congetture, la sua purezza lessicale è più facile da spiegare. Nel corso della storia ha mutuato molti vocaboli da altre lingue, ma nel seicento gli intellettuali islandesi cominciarono a eliminarli. Basta aprire un dizionario danese-islandese per capire quanto queste due lingue cugine si siano differenziate. Il danese ha accolto una serie di termini paneuropei come passiv, patent e pedicure; gli equivalenti islandesi sono hlutlaus, einkaleyi e fótsnyrting. Quasi tutte le lingue d’Europa condividono un enorme numero di vocaboli dalle radici latine e greche, da “telefono” a “indirizzo”. In islandese invece “telefono” si dice sími, dal termine norreno per “ilo”, mentre “indirizzo” è heimilisfang, che letteralmente significa “il luogo dove si può essere trovati in casa”. Di solito davanti alla segnaletica islandese monolingue uno straniero non riesce a decifrare neanche una parola. Lunghissime parole composte come hjúkrunarfræðingur (infermiere) non hanno elementi familiari: hjúkrun deriva dalle radici “servire” e “accudire”, mentre fræðingur indica un professionista. Aggiungono un tocco di esotismo le due lettere ð e þ, che rappresentano due suoni tra loro simili: il primo è l’equivalente del “th” sonoro dell’inglese, come in this; il secondo è il corrispettivo sordo, come nell’inglese three. Alcuni vocaboli islandesi sono simili ai loro corrispondenti inglesi: bók, epli e brauð significano rispettivamente “libro”, “mela” e “pane” (book, apple, bread). Questo perché le lingue scandinave e le lingue germaniche occidentali (inglese, neerlandese, tedesco) discendono tutte da un unico progenitore, detto protogermanico. Altre sovrapposizioni lessicali derivano dal fatto che gli invasori vichinghi lasciarono in Inghilterra alcune parole: knife, leg, husband, window e perino il pronome they (che corrisponde al þeir sia norreno sia islandese moderno). Ciò significa che a un orecchio inglese molte parole non suonano né straniere come hjúkrun, né semplici come bók, ma familiari ed estranee al tempo stesso. La tata di Tolkien Alcune di queste somiglianze possono trarre in inganno. una persona che parla inglese e sa che dóm è imparentato con il termine doom (destino terribile) l’edificio di Reykjavík su cui si legge Dómsmálaráðuneytið può apparire sinistro. In realtà si tratta del ministero della giustizia. Anche in inglese un tempo doom significava semplicemente “giudizio, sentenza”, e solo in seguito assunse il significato attuale. Non è chiaro in che senso J.r.r. Tolkien intendesse questa parola quando chiamò Mount Doom (monte Fato) il luogo cruciale del Signore degli anelli. Di certo, essendo un filologo esperto di norreno e di altre lingue antiche, nonché amante degli arcaismi, l’islandese lo conosceva di sicuro. Per dirne una, il nome del mago Gandalf è tratto dall’Edda. La bambinaia islandese dei Tolkien, Adda, non si occupava solo dei figli: aiutava lo scrittore anche a esercitarsi con l’islandese. La signora Tolkien non ne era affatto contenta. Anche il poeta W.h. Auden, appassionato del Signore degli anelli, era incantato dalle storie e dalla lingua dell’Islanda; lo incantavano molto meno l’agnello affumicato e il pesce secco, a cui preferì, durante il suo soggiorno islandese negli anni trenta, innumerevoli caffè e sigarette. Inoltre era decisamente disgustato da altri ammiratori dell’isola: in una lettera a un amico raccontava di aver preso un autobus “pieno di nazisti che parlavano incessantemente della Schönheit des Islands (la bellezza dell’Islanda) e dei tratti ariani di quel popolo”. Ecco il rovescio della medaglia della purezza isolata e incontaminata: il paese continua a essere oggetto delle attenzioni indesiderate dei fascisti. Come ha detto David Duke, ex leader del Ku klux klan, “ormai resta solo un paese completamente bianco, l’Islanda. E l’Islanda non basta”. Paul Fontaine, giornalista del reykjavík Grapevine, racconta che sulla pagina Facebook del giornale i suprematisti bianchi ammoniscono l’Islanda a non “commettere gli stessi errori” di altri paesi: fare entrare i richiedenti asilo e i musulmani. È uno dei motivi per cui Ari Páll Kristinsson, direttore del Consiglio per la pianificazione linguistica dell’isola, rabbrividisce all’idea di “purezza” linguistica e preferisce parlare di “tradizione lessicale islandese”. Ma Ari Páll si adopera per mantenere la lingua il più vicino possibile a un antico nordico incontaminato. In confronto ad altri paesi che hanno lo stesso obiettivo, lui e i suoi collaboratori se la cavano molto meglio. In Francia, i quaranta dotti dell’Académie si pronunciano su ciò che è o non è francese corretto, e i comitati ministeriali per la terminologia sono occupatissimi a coniare parole nuove. Ma i francesi li ignorano e continuano imperterriti a liker (mettere like) i post su Face book e a bruncher (fare un brunch) con i loro amici. Ari Páll e i suoi collaboratori invece ascoltano le richieste della gente e la gente li ascolta. Il consiglio ha una cinquantina di gruppi informali di appassionati dell’islandese e di argomenti come i motori, l’ingegneria elettrica, i computer o il lavoro a maglia, che suggeriscono nuovi vocaboli con solide radici norrene, seguendo le indicazioni del consiglio su come renderli compatibili con la fonetica e la grammatica della lingua nazionale. L’esempio forse più famoso di questa creatività purista risale agli anni sessanta, quando serviva un vocabolo per “computer” e gli esperti coniarono tölva, combinando tala (numero) e völva, un antico termine per “profeta”. Quando i medici cominciarono a parlare di aids usando la sigla inglese al posto della sua lunga traduzione letterale islandese (heilkenni áunnins ónæmisbrests), il comitato coniò due alternative più brevi: alnæ- mi, all’incirca “pan-suscettibilità”, e eyðni, che suona simile al termine inglese, ma deriva dall’islandese eyða, “distruggere”. Quando gli islandesi cominciarono a dire pod cast, il consiglio rispose con hlaðvarp, dalle radici che significano “caricare” e “lanciare”.
L’Islanda rifiuta i vocaboli provenienti dall’estero, ma non gli stranieri. I nati all’estero sono ormai più del 10 per cento dell’intera popolazione. Molti vengono dall’Europa dell’est (e non hanno bisogno di visti, benché l’Islanda non faccia parte dell’unione europea), ma ci sono anche tailandesi e filippini. Nel 2004 un gruppo di razzisti statunitensi insorse contro il Reykjavík Grapevine, che aveva messo in copertina la foto di una keniana con indosso il costume nazionale islandese. Secondo il presidente dell’Islanda, Guðni Jóhannesson, l’industria nazionale della pesca crollerebbe senza manodopera straniera. L’Islanda sarà anche l’unico paese al mondo con un Museo storico dell’aringa (Síldarminjasafn), ma la lavorazione del pesce sopravvive principalmente grazie ai polacchi, disposti a sopportare le dure condizioni delle fabbriche. Gli immigrati sono una minaccia per la lingua islandese? Non ancora, ma i timori aumentano. I corsi di lingua sovvenzionati dallo stato esistono, ma sono insufficienti, dichiara Nichole Mosty, una statunitense naturalizzata islandese che fino a poco tempo fa sedeva nell’Alþingi. Il suo accento è stato criticato da alcuni islandesi. Ci vuole grinta per superare le difficoltà iniziali di apprendimento. Quando l’attuale first lady Eliza Reid si trasferì in Islanda dal Canada con il marito, nel 2003, si mise subito a studiare l’islandese sul serio.
Ma gli islandesi, non abituati a sentire la propria lingua parlata da stranieri, passavano all’inglese appena apriva bocca. Per evitarlo imparò a dire subito “sto studiando la lingua nazionale”.
Minaccia tecnologica
Non tutti i nuovi arrivati si trattengono così a lungo. Al pari dei due milioni di turisti che visitano l’Islanda ogni anno, anche i lavoratori temporanei provenienti da paesi dell’unione europea scoprono che non occorre imparare la lingua. La legge impone che i cartelli riservati principalmente agli islandesi siano scritti in islandese. Ma gran parte di Reykjavík non sembra più “riservata principalmente agli islandesi”. È possibile che una minaccia ancor più grande degli stranieri sia la tecnologia. Per esempio, gli islandesi non possono usare Siri sui loro farsímar, né Alexa a casa, perché l’islandese non è tra le lingue supportate da Apple e Amazon. Un ingegnere islandese di Google è riuscito a convincere l’azienda ad aggiungere negli smartphone Android il riconoscimento vocale della sua lingua, operazione che ha richiesto la registrazione e la trascrizione di migliaia di ore di parlato islandese. Google ha reso poi questi dati disponibili gratuitamente anche ad altre aziende, ma non si sa in che misura saranno usati. Eiríkur Rögnvaldsson, dell’università d’Islanda, racconta che Windows ha aggiunto abbastanza presto l’islandese, ma la traduzione era così scadente che molti utenti hanno preferito continuare a usarlo in inglese. In seguito è stato migliorato, ma recentemente, quando Rögnvaldsson ha chiesto agli studenti islandesi del suo corso quanti di loro usassero Windows in islandese, la risposta è stata nessuno. Il fatto che l’inglese sia la lingua della tecnologia rafforza tra i giovani l’idea che sia alla moda, pratica e internazionale, mentre l’islandese sarebbe pesante, difficile e locale. I ragazzi ripetono le affermazioni dei genitori sulla necessità di mantenere la lingua pura, ma in realtà adorano l’inglese. Nel 2017 Stefanie Bade, dottoranda tedesca presso l’università d’Islanda, ha scoperto che gli islandesi, ascoltando registrazioni della loro lingua parlata con accenti diversi, giudicavano la pronuncia locale la più “attraente” e “rilassata” ma l’accento americano più “intelligente”, “affidabile” e “intrigante”, assegnandogli la valutazione più positiva. Gli islandesi sono sopravvissuti all’isolamento, al ghiaccio e ai vulcani per più di un millennio, e non saranno certo i turisti, i lavoratori stranieri o Siri a costringerli ad abbandonare il loro retaggio culturale più caro. In quale altro paese al mondo, per indicare un inatteso colpo di fortuna, si usa un termine più curioso dell’islandese hvalreki, una “balena spiaggiata” che offre da mangiare per mesi? Gli islandesi non commetteranno l’errore di trattare la loro bella lingua come un dono del destino: è una conquista che va custodita gelosamente. Sarà anche un fossile vivente, ma per loro tenerlo in vita è insieme un dovere e un piacere.

internazionale 3.2.2018
Le due facce della libertà
di Gustav Seibt, Süddeutsche Zeitung, Germania
Se il benessere non è condiviso non può esserci democrazia, affermava Hannah Arendt in un testo inedito appena scoperto


Come viene al mondo il nuovo? Non di rado attraverso il recupero di qualcosa di antico. Il concetto di rivoluzione, che ci fa pensare a un taglio netto con il passato per fare posto a qualcosa di completamente nuovo, nasce dall’astronomia, e precisamente dalla descrizione del moto regolare dei corpi celesti. Il termine, anticamente, indicava il periodico ritorno a un ordine regolato da leggi. Per esempio, la gloriosa rivoluzione inglese del 1688 fu considerata una restaurazione del potere sovrano legittimo, vincolato da leggi.
Hannah Arendt, una delle grandi teoriche della rivoluzione, ne parlò in una conferenza il cui testo è stato pubblicato solo oggi, dopo essere stato trovato tra le sue carte. Si tratta di un grande testo di filosofia della storia che discute i rapporti tra libertà e rivoluzione lungo un arco temporale assai ampio. Hannah Arendt portò avanti incessantemente questa riflessione, sia sulle sollevazioni dell’era contemporanea, in particolare degli anni sessanta, sia sulle rivolte coloniali e studentesche. È questo che rende così stimolante il testo pubblicato oggi. Per Arendt la libertà è sempre politica: si realizza nella collaborazione tra liberi e uguali in uno spazio politico dove sorgono dispute su quale sia la giusta forma di convivenza. La libertà è repubblicana, nel senso che la forma-stato della repubblica, conquistata con le rivoluzioni dell’età moderna, è il suo luogo e il suo obiettivo. Ma questa libertà politica già presuppone la liberazione degli individui dalla costrizione e dal bisogno. Così dicendo Arendt relega in secondo piano l’idea di “libertà negativa”, un classico concetto del liberalismo che si riferisce al diritto dell’individuo di proteggersi dallo stato e dalla società per poter proseguire in pace i suoi scopi privati. La libertà suprema è quella che “ha luogo tra persone che nella vita pubblica condividono la gioia collettiva di essere viste, udite, riconosciute e ricordate dagli altri”. Libertà è dunque vivere in un mondo che diventa oggetto del fare, più che il piacere edonistico vissuto in uno spazio privato, garantito dai diritti umani, dove si calcola minuziosamente quale espressione della propria libertà rischia di entrare in conflitto con gli interessi altrui. Per Arendt, la libertà positiva è l’esistenza politica secondo il modello dell’antichità, senza il quale, sostiene la filosofa, non sarebbero state possibili neanche le rivoluzioni repubblicane dell’era moderna. Inoltre la libertà positiva realizza la possibilità antropologica del sempre nuovo, già insita nel fatto che noi tutti siamo nati e venuti al mondo come nuovi esseri. La libertà è dunque inevitabile e imprevedibile come la vita stessa. Tuttavia la libertà repubblicana, essenzialmente antropologica, per realizzarsi ha bisogno di certe condizioni materiali. Nel testo recentemente ritrovato, Arendt le delinea in modo chiaro. I cittadini americani e gli intellettuali francesi che misero in moto le grandi rivoluzioni della modernità – quella americana del 1776 e quella francese del 1789 – avevano “la libertà di essere liberi”, scrive Arendt, perché non avevano preoccupazioni sul piano materiale, vivevano di proprietà terriera e di rendita e non facevano certo parte dei misérables costretti a lottare ogni giorno contro la povertà per sopravvivere.
Rivoluzioni e totalitarismo
La libertà di essere liberi è quello che gli antichi chiamavano “agio”. In una conferenza del 1961, Arendt vedeva il fondamento materiale della libertà americana nella ricchezza di materie prime e nella disponibilità di terra. Nel 1967, nel testo appena pubblicato, Arendt affronta il tema della schiavitù. Ma secondo i padri fondatori, la schiavitù riguardava “un’altra razza”. Come dire che il bisogno e la miseria non andavano intesi come un problema specifico della federazione repubblicana: stavano fuori e sotto, ai margini e nelle fondamenta. Questa marginalizzazione della questione sociale era un tratto che la giovane repubblica statunitense condivideva con le poleis dell’antichità. Alla rivoluzione francese, questa concentrazione su un nucleo costituzionale e sociale fu negata. In questo caso la rivoluzione non dovette soltanto fondare una repubblica, ma fare subito i conti con la questione sociale, con la miseria degli affamati che popolavano le campagne e delle masse urbane. Le privazioni delle madri i cui figli pativano la fame – e qui Arendt cita un passo impressionante dello storico britannico Acton – conferirono a quella rivoluzione “la durezza del diamante”. Ma la spinta alla rivoluzione sociale, alla gigantesca ridistribuzione delle proprietà dei nobili e della chiesa, è la stessa che spinse la rivoluzione francese anche verso il Terrore. essa dovette liberare tutto il popolo dalla miseria, “liberare le persone cosicché potessero essere libere”. Insomma, oltre a essere un radicale cambiamento della forma-stato, la rivoluzione francese fu anche un profondo rivolgimento della società. Ma questo spinse più volte quella rivoluzione, e le successive avvenute in Europa, verso la deriva totalitaria che gli hanno rimproverato i critici liberali della cosiddetta “libertà positiva”, cioè la libertà di cambiare il mondo. Il testo di Hannah Arendt appena riscoperto è stato inserito in un volume miscellaneo che documenta la polemica filosofica suscitata dal celebre saggio di Isaiah Berlin Due concetti di libertà, del 1958. Berlin aveva chiare le potenzialità totalitarie del concetto di libertà positiva affrontato da Hannah Arendt nei suoi scritti sulla rivoluzione, ma la filosofa dà scarso peso alla libertà negativa che Berlin aveva maggiormente a cuore. Per Arendt le due facce della libertà stanno tra loro in un rapporto d’interdipendenza: i padri delle rivoluzioni del 1776 e del 1789 erano già ampiamente liberi, ma la libertà repubblicana di cui erano esempio alla lunga non poté arrestarsi davanti alle barriere del privilegio. Non è facile controllare l’individualismo della libertà negativa. E così la tragedia della rivoluzione francese fu che, proprio per amore del bene delle masse, tornò a quel despotismo contro cui era insorta all’inizio, sfociando in una dittatura. Lo sguardo di Hannah Arendt è lucido. Secondo lei, nella sua epoca non sono “le concezioni politiche moderne, tra cui le idee rivoluzionarie, a rendere possibile per tutti la libertà di essere liberi”, ma il progresso tecnico. È questo a liberare i molti dal peso dei pochi, “in modo che almeno alcuni possano essere liberi”. La tecnica si sostituisce alla schiavitù. Senza benessere di massa, niente democrazia di massa; e senza democrazia, niente diritti né libertà per gli individui e le masse. Insomma Hannah Arendt, al pari di Isaiah Berlin, non sottovalutò il potenziale dispotico della democrazia di massa. Ma è evidente, anche se non si dice ancora abbastanza apertamente, che oggi di fronte alle tecnologie della comunicazione, di raccolta dati e della sorveglianza, la libertà negativa dell’individuo, che Hannah Arendt guarda con molta sufficienza, assume una portata dirompente drammaticamente nuova.