martedì 27 febbraio 2018

internazionale 23.2.18
Pacifico
Gli aiuti di Pechino


Via via che i tradizionali paesi donatori tagliano gli aiuti per i paesi del sud del Pacifico, la Cina si fa avanti per riempire il vuoto, scrive Asia Times. Tra il 2006 e il 2016 Pechino ha versato 209 milioni di dollari all’anno in aiuti allo sviluppo per i paesi della regione: Fiji, Timor Leste, Papua Nuova Guinea, Samoa, Tonga, Niue, Isole Cook, Vanuatu e stati federali della Micronesia. L’Australia dona a questi paesi circa 870 milioni di dollari all’anno, il 60 per cento degli aiuti internazionali che arrivano nel Pacifico. La Nuova Zelanda ne dona 235 milioni e gli Stati Uniti 221. Presto però Pechino potrebbe diventare il secondo donatore, perché Stati Uniti e Nuova Zelanda stanno riducendo le loro quote. Se Washington, come sembra, ridurrà di un terzo gli aiuti internazionali allo sviluppo, l’Asia orientale e il Pacifico nel 2018 potrebbero ricevere il 41,4 per cento di aiuti in meno. Circa il 40 per cento degli aiuti cinesi, destinati soprattutto alla Papua Nuova Guinea e alle Fiji, va alle infrastrutture per i trasporti, in vista dell’inclusione della regione nella nuova via della seta. Il resto va al governo, alla società civile e all’istruzione e per l’80 per cento è versato come prestito a 15 o 20 anni con interessi bassi, tra il 2 e il 3 per cento.

internazionale 23.2.18
Il paese comunista che abbandona il Pd
Lorenzo Totaro e Alessandra Migliaccio, Bloomberg, Stati Uniti
Lamporecchio era considerato il “comune più rosso” dell’Europa occidentale. Oggi la cittadina toscana rappresenta bene la disillusione degli elettori


Passeggiando per Lamporecchio, in Toscana, l’ex sindaco Giuseppe Chiaramonte si accorge che manca qualcosa. La targa che indica via Gramsci, tributo al fondatore del Partito comunista italiano (Pci), in un’area che per anni ha rappresentato una roccaforte della sinistra italiana, è sparita. È stata rimossa dal muro di un palazzo mentre lo restauravano e “nessuno si è preoccupato di rimetterla al suo posto”, spiega Chiaramonte, 62 anni. “Per me è un segno dei tempi”. Se c’è un momento in cui l’Italia ha bisogno di un’insegna stradale dal forte significato politico è questo.
Il 4 marzo si terranno le elezioni legislative e la corsa per formare il prossimo governo è aperta. Lamporecchio, a un’ora d’auto da Firenze, è il simbolo di come un elettorato sempre più apatico sia ormai spaccato, indeciso su chi votare, in una fase critica per il futuro del paese e dell’Europa nella battaglia contro le forze politiche estremiste. I 7.500 abitanti di Lamporecchio si considerano una cartina di tornasole del futuro dell’Italia. Se attecchisce una tendenza politica qui, allora è probabile che succeda anche nel resto del paese, spiega lo chef Marco Cassai. Voti cruciali “Qui le persone tendono a essere conservatrici”, dice Cassai, nato a Roma 35 anni fa, mentre controlla la preparazione dei piatti nel ristorante stellato Atman, ospitato nella seicentesca villa Rospigliosi. “Si sente il vento, ma non siamo nell’occhio del ciclone come le grandi città”.
Di sicuro c’è che il Partito democratico (Pd), di cui fa parte anche il presidente del consiglio Paolo Gentiloni, sta perdendo il sostegno della Toscana. Una buona notizia per l’ex presidente del consiglio Silvio Berlusconi: la coalizione che comprende il suo partito è in testa negli ultimi sondaggi. Il sistema elettorale italiano favorisce le grandi coalizioni e, secondo il sondaggio pubblicato a gennaio da Bloomberg, la coalizione di centrodestra otterrebbe il 36 per cento dei voti. Il Movimento 5 stelle sarebbe il primo partito del paese, con il 28 per cento delle preferenze, ma i vertici del partito si rifiutano di formare alleanze per governare. Sempre secondo questo sondaggio, il Pd inseguirebbe con il 23 per cento, perdendo voti a beneficio dei partiti della sinistra radicale. Secondo Chiaramonte molti elettori di Lamporecchio preferiscono l’astensione, i gruppi della sinistra radicale o gli avversari del Pd. In regioni come la Toscana, “un’affluenza ridotta rispetto alle previsioni e la competizione con le altre forze di sinistra potrebbe privare il Pd di voti cruciali per vincere in alcuni collegi”, spiega Mario Caciagli, professore di scienze politiche all’università di Firenze.
In Toscana il Pd sta perdendo molti pezzi del suo mosaico politico. Nella città portuale di Livorno, dove nel 1921 venne fondato il Pci, il sindaco è del Movimento 5 stelle, così come a Carrara. A Pistoia, capoluogo della provincia dove si trova Lamporecchio, i cittadini hanno eletto sindaco Alessandro Tomasi, 38 anni, di Fratelli d’Italia, partito di destra che fa parte della coalizione guidata da Berlusconi. Tomasi è convinto che il governo non abbia fatto nulla per risolvere i problemi relativi alla sicurezza e all’immigrazione, temi che hanno dominato la politica europea negli ultimi due anni, dalla Brexit alle elezioni francesi, tedesche, olandesi e dei paesi dell’est. “Non possono essere sminuiti come argomenti populisti, perché riguardano tutti, a cominciare dai più deboli e poveri”, spiega Tomasi. “Le politiche del governo non hanno risolto i problemi della gente. Il giorno delle elezioni i partiti al governo pagheranno un prezzo molto alto”. Lamporecchio, nonostante la recessione, ha ottimi risultati dal punto di vista economico. Soprattutto grazie alle aziende locali, come quelle che producono i brigidini, tipici dolci toscani all’anice. Naturalmente non tutti gli abitanti sono immuni dai problemi che colpiscono il resto dell’Italia.
Attualmente circa quaranta famiglie hanno chiesto un sostegno economico, spiega Selma Ferrali, dipendente pubblica in pensione e direttrice dell’ufficio della diocesi di Pistoia che si occupa di problemi sociali e del lavoro. “Il numero reale è molto più alto, perché molte persone si vergognano di aver perso il lavoro o di non riuscire a pagare l’affitto”. Dopo aver votato per anni il Pd, Ferrali ammette di essere delusa dall’attuale classe dirigente. Michela Rinati, la cui azienda di famiglia produce brigidini nell’area industriale di Lamporecchio, sostiene che il governo non ha fatto abbastanza per le piccole aziende ed è convinta che questo aspetto potrebbe spingere molti a votare diversamente rispetto al passato. Rinati vorrebbe che il prossimo governo snellisse la burocrazia, tagliasse le tasse e riducesse i contributi sociali imposti alle piccole aziende, permettendo di assumere più lavoratori. “La struttura del sistema produttivo italiano è formata in larga parte da piccoli artigiani e aziende. C’è bisogno di un cambiamento politico”, spiega. Nessun risultato è scontato In passato da queste parti la parola cambiamento voleva dire abbracciare i comunisti. Per gran parte del novecento Lamporecchio è stata considerata “il comune più rosso” dell’Europa occidentale, visto l’enorme sostegno al Partito comunista italiano (Pci).
Roberta Carli gestisce una pasticceria con la sorella nella piazza principale del paese e ricorda la folla che nell’aprile del 1981 riempì la piazza e la vicina via Gramsci per il discorso di Enrico Berlinguer. “Dall’ultimo piano del palazzo si vedeva che tutti gli abitanti di Lamporecchio erano in piazza”. Dopo la caduta dell’Unione Sovietica, il paese continuò a sostenere la sinistra. Nel 2013 ha votato per il Pd. Caterina Bini, 42 anni, parlamentare del Pd, è candidata per il collegio di Pistoia e Prato. Durante la campagna elettorale ha dichiarato che nessun partito può aspettarsi che gli elettori votino come hanno fatto in passato. “Sono assolutamente convinta che non si possa dare nessun risultato per scontato, in nessun collegio, neanche in un’area come la mia che ha sempre seguito una certa tradizione politica”, spiega Bini. Mentre cammina verso via Gramsci, dove non c’è più la targa, attraverso le bancarelle del mercato settimanale, l’ex sindaco Chiaramonte parla del vento politico che soffia in tutta Europa e spiega che la gente si sente abbandonata dai leader. “Dopo aver conquistato il potere hanno passato troppo poco tempo con le persone, quindi ora non capiscono più quali sono i problemi reali”.

l’espresso 25.2.18
Sinistra, combatti i predoni
di Saskia Sassen
Saskia Sassen, economista e sociologa, studiosa della globalizzazione di fama internazionale, ha scritto per L’Espresso questo testo in occasione dell’uscita del libro “La sinistra che verrà”


La sinistra lotta per una società più giusta, ma deve affrontare molti ostacoli, come spiegano i saggi raccolti nel libro “La sinistra che verrà”. Uno degli ostacoli maggiori è la crescita di quelle che io chiamo “formazioni predatorie complesse”. Il termine “predatorio” è particolarmente importante: riesce a restituire in modo efficace la violenza che sottintende quel che nella maggior parte dei casi è descritto con un linguaggio più delicato, indiretto. Un primo aspetto che emerge è infatti che la complessità delle dinamiche negative del capitalismo contemporaneo ne camuffa facilmente il carattere predatorio: spesso non c’è quella brutalità che risulta auto-evidente in una fabbrica che sfrutta i lavoratori o in una miniera. Al contrario, le componenti centrali delle “formazioni predatorie” includono elementi caratteristici di molte delle più ammirevoli forme di conoscenza che siano state prodotte dall’uomo: riflessioni filosofiche raffinate, versioni avanzate del diritto, sistemi di contabilità ricavati dagli algoritmi matematici, efficienti strumenti della logistica, e via dicendo. Cerco di spiegarmi meglio. Come possiamo facilmente immaginare, le formazioni predatorie includono le élite più potenti, coloro che detengono il capitale, ma perfino loro rappresentano fattori parziali - soltanto parziali - nel più ampio funzionamento delle formazioni predatorie. Per descrivere questo fatto in modo efficace, in genere ricorro a questa spiegazione: anche se le élite più potenti e i detentori del capitale sparissero da un giorno all’altro, ciò non eliminerebbe ipso facto le formazioni predatorie, molto più complesse; se le élite venissero sconfitte, ciò non neutralizzerebbe in modo automatico le concentrazioni di potere e di vantaggi che caratterizzano l’attuale periodo. I principali detentori del capitale, i più influenti manager aziendali condizionano senz’altro il modo in cui è modellata l’economia, ma da soli non sarebbero mai riusciti a ottenere l’estrema concentrazione di ricchezza e il potere assoluto di cui dispongono nel mondo. Processi riconducibili, invece, alle formazioni predatorie. Le formazioni predatorie sono un assemblaggio di elementi diversi, individui potenti e ricchi, aziende e corporation, governi (in particolare i rami esecutivi, divenuti più forti con la globalizzazione, e non più deboli come si tende a credere), innovazioni tecniche, legali e finanziarie, nuovi spazi operativi. Elementi guidati da una logica che crea crescenti capacità sistemiche che producono esiti negativi: in alto, grandi acquisizioni di potere e capitale; sul piano ambientale, distruzioni su una scala mai vista finora; sul piano sociale, una crescita significativa dei processi di espulsione delle persone dall’ambito delle opzioni di vita ragionevoli, perfino nei paesi ricchi, quei paesi in cui per lungo tempo ha prevalso una logica opposta, inclusiva. Rimane la questione centrale. Di fronte a simili formazioni predatorie, la sinistra cosa deve fare? Io credo che combattere le formazioni predatorie richieda innanzitutto una precisa volontà politica. La volontà di disarticolarle, di disassemblarle, perfino di distruggerle. La sinistra dovrebbe puntare a questo, piuttosto che abdicare alle proprie responsabilità, facendosi scudo della possibilità che le formazioni predatorie si auto-distruggano, sulla base della tendenza ad abusare del proprio potere. Ma in attesa che la battaglia contro le formazioni predatorie diventi politicamente prioritaria, cosa fare? Un passaggio fondamentale è riconoscere che abbiamo a che fare con un nuovo tipo di minaccia, un nuovo mostro, diverso da quelli che lo hanno preceduto. Ci sono certo similitudini con il passato, ma esistono differenze essenziali. Il discorso sulla “maggiore disuguaglianza”, sulla “maggiore povertà” è insufficiente: sono in atto vere e proprie rotture, sotterranee ma fondamentali. Non si tratta soltanto di un “di più” della stessa cosa. Siamo di fronte a un’imponente e diversificata serie di espulsioni, che segnala una più profonda trasformazione sistemica, una nuova fase del capitalismo e della distruzione globale. Opaca, ma brutale. La sida, allora, è rendere più trasparente ciò che è opaco, esplicito ciò che è ancora sotterraneo. È quel che suggerisco nel mio saggio incluso in “La sinistra che verrà”, dedicato ai processi di globalizzazione e alla decadenza dell’economia politica del Ventesimo secolo, iniziata negli anni Ottanta del Novecento, quando con la finanziarizzazione dell’economia si indeboliscono progressivamente i presupporti egalitari e keynesiani alla base del progetto di costruzione di una società giusta, anche se imperfetta, e comincia a emergere una nuova dinamica, quella dell’espulsione. Alla fine del testo enfatizzo un punto centrale: l’importanza di capire, e ri-raccontare, il processo in corso, le strutture che lo hanno reso possibile. È un’operazione preliminare fondamentale, perché se non conosciamo ciò contro cui lottiamo, non possiamo individuare i mezzi adatti per combatterlo. Dove possibile, inoltre, dobbiamo uscire dalla zona di dominio delle formazioni predatorie. Come? Lavorando in direzione contraria a quella verso cui ci spingono. E rendendo concettualmente e politicamente visibili gli spazi di chi è stato espulso, dai migranti ai precari). Quegli spazi non sono una sorta di buco nero. Al contrario, sono ricchi di presenze tangibili. E sono i nuovi spazi in cui agire e fare politica.

l’espresso 25.2.18
Onorevole, ma chi sei?
Istruzione, esperienza, fedina penale. L’Espresso passa ai raggi X i futuri parlamentari
di Vittorio Malagutti, Gloria Riva e Francesca Sironi


Eccolo, il Parlamento che verrà. Con una settimana d’anticipo sul verdetto delle urne è già possibile raccontare pregi e difetti di deputati e senatori che si preparano a sbarcare a Roma. L’Espresso ha assegnato un voto a oltre 300 candidati, un campione rappresentativo delle due camere, scelto tra i candidati dei quattro principali schieramenti (Centrodestra, Centrosinistra, Cinque Stelle, Leu) in 85 collegi uninominali. Il rating si basa sul curriculum degli aspiranti parlamentari: livello d’istruzione, eventuali incidenti giudiziari, il numero di anni trascorsi nelle istituzioni, i rapporti con il proprio collegio elettorale e, infine, la popolarità nei principali social network.
Ne è uscito il ritratto, sintetizzato in cifre, dei parlamentari prossimi venturi. Si va da zero a dieci, come a scuola. E il dato finale, quello che riassume la valutazione complessiva dei candidati, non è granché esaltante: il voto medio non va oltre il cinque e mezzo. Per arrivare alla sufficienza, quindi, servirebbe il classico aiutino di un insegnante di manica larga. Del resto, entrambe le coalizioni, quella di Centrodestra e quella di Centrosinistra, viaggiano tra il cinque e il sei, così come i Cinque Stelle e Liberi e Uguali. L’alleanza a guida Pd ottiene il voto più elevato, mentre il nuovo partito guidato da Pietro Grasso è l’ultimo della classe. Questione di decimali, comunque: si va dal 5,86 per i candidati che sostengono Matteo Renzi al 5,35 di quelli targati Leu. In mezzo troviamo i Cinque Stelle, che arrivano a 5,43, poco sopra il Centrodestra, che non va oltre 5,38.
Indagati e no
Dati alla mano, si scoprono punti di forza e debolezze dei singoli schieramenti. La coalizione di Centrodestra si merita di gran lunga il voto più basso alla voce indagati e condannati. Nel campione esaminato da L’Espresso, il 17 per cento dei candidati nel nome del pregiudicato (e quindi incandidabile) Silvio Berlusconi, risultano coinvolti in procedimenti penali oppure hanno già subìto sentenze sfavorevoli in primo o in secondo grado di giudizio. Nelle fila di Forza Italia troviamo per esempio un berlusconiano doc come Salvatore Sciascia, senatore che punta a entrare per la terza volta a Palazzo Madama. Sciascia, già tributarista della Fininvest, di cui è ancora consigliere di amministrazione, ha ottenuto la riabilitazione giudiziaria dopo la condanna in via definitiva a 2 anni e sei mesi nel 2001. Percorso netto per i Cinque Stelle: nessun indagato o condannato nel campione di 85 candidati del movimento guidato da Luigi Di Maio, peraltro alle prese con il caso dei candidati impresentabili (una dozzina in tutto tra massoni e furbetti del rimborso) che potrebbero dimettersi il giorno dopo l’elezione. Una macchia per Liberi e Uguali, che candida il milanese Daniele Farina, condannato per fabbricazione e detenzione di bottiglie molotov e resistenza a pubblico ufficiale durante una manifestazione antifascista dei collettivi universitari negli anni Ottanta. Nelle ile del Centrosinistra, invece, il torinese Stefano Esposito è inciampato in una condanna in primo grado per diffamazione nel novembre 2015, mentre l’imprenditrice Antonella Allegrino, aspirante deputata per il Pd a Pescara, è uscita da un processo per evasione fiscale grazie alla prescrizione nel 2015. Oltre al nome più citato degli ultimi giorni: Piero De Luca, figlio del governatore della Campania, Vincenzo. De Luca junior è stato candidato a Salerno nel collegio uninominale per la Camera nonostante un’indagine a suo carico per bancarotta fraudolenta.
La carica dei prof
Criticati da più parti per aver traghettato in Parlamento una pletora di giovani inesperti, questa volta i Cinque Stelle hanno fatto il pieno di professori universitari. Negli 85 collegi uninominali esaminati da L’Espresso, oltre un quarto dei candidati del Movimento vanta un titolo accademico superiore alla laurea (dottorato di ricerca, phd) oppure insegna all’università. A Torino sono addirittura due i professori arruolati nelle liste del partito guidato da Di Maio, entrambi economisti: Giuseppe Mastruzzo al Senato e Paolo Biancone alla Camera. Gli altri schieramenti inseguono a distanza: i candidati che hanno proseguito gli studi dopo la laurea sono il 15 per cento per Liberi e Uguali, quasi il 12 per cento nelle fila del Centrosinistra e poco più dell’8 per cento per il Centrodestra.
Accanto agli accademici, i banchi del prossimo Parlamento saranno occupati anche da una nutrita pattuglia di deputati e senatori che all’università non sono mai andati, oppure che l’hanno abbandonata senza arrivare al traguardo della laurea. Circa un terzo dei candidati del Centrosinistra e di Liberi e Uguali si trova in questa situazione, mentre la quota dei Cinquestelle fermi al diploma non va oltre il 18 per cento del campione analizzato in questa inchiesta. Va detto che nelle fila di Leu, come anche del Partito Democratico, sono numerosi i non laureati che vengono da una militanza politica di lungo corso, che spesso li ha portati ad abbandonare gli studi prima dell’università. Altri sono cresciuti in fabbrica per poi dedicarsi al sindacato. È il caso di Ugo Verzeletti, una vita in Iveco, con la tessera della Fiom e oggi candidato a Brescia per Liberi e Uguali. Se dal titolo di studio si passa a esaminare i candidati in base alla loro professione, si scopre che la categoria di gran lunga più rappresentata è quella degli avvocati. L’11 per cento del campione analizzato da L’Espresso esercita o ha esercitato la professione forense. Il gruppo più numeroso è stato arruolato nelle fila della sinistra. Sono una dozzina i legali in lista con il Pd e i suoi alleati, 11 quelli con Leu, mentre la pattuglia degli avvocati a Cinquestelle arriva a 10. Nel Centrodestra invece non si va oltre quota quattro.
Gioventù addio
Nel 2013 l’arrivo in Parlamento di un esercito di esordienti del Movimento fondato da Beppe Grillo aveva avuto l’effetto, tra i tanti, anche di abbassare l’asticella dell’età media dei deputati, scesa a 45,8 anni rispetto a 50,8 anni della legislatura precedente, quella cominciata nel 2008. Adesso invece la caccia al candidato esperto da parte dei Cinque Stelle rischia di produrre l’effetto opposto. Gli aspiranti deputati presi in considerazione per questo articolo hanno in media 48,6 anni, quasi tre anni in più rispetto agli onorevoli della Camera appena sciolta. Va detto che i candidati guidati dal trentunenne Di Maio restano di gran lunga i più giovani: solo 45,3 anni, mentre l’eta media degli altri tre schieramenti si aggira intorno ai 50 anni, con un massimo di 51,1 per Liberi e Uguali. È il partito di Pietro Grasso quello che presenta nei collegi uninominali (Camera e Senato) il maggior numero di over 65: il 27 per cento, quasi il doppio rispetto al Centrodestra (15 per cento), mentre il Centrosinistra si ferma all’11 per cento e i Cinque Stelle all’8 per cento.
I candidati più esperti, cioè quelli con il maggior numero di legislature alle spalle vanno invece cercati nelle fila del Centrosinistra. Negli 85 collegi uninominali analizzati solo il 17 per cento dei nomi proposti dal Pd e alleati è un esordiente assoluto. Cioè non ha mai fatto politica in Parlamento a Roma oppure a Bruxelles, nemmeno in un consiglio regionale o comunale. La quota dei candidati alla loro prima esperienza sale di molto tra i Cinque Stelle, addirittura al 76 per cento.
Social, no grazie
Buona parte della campagna elettorale passa dai social network. Facebook e Twitter hanno il potere di moltiplicare l’audience, di creare casi mediatici e rilanciare all’infinito le parole d’ordine Un terzo dei candidati di Grasso è over 65. Nel centrodestra il 90 per cento disdegna i social della propaganda. Per questo motivo appare quantomeno sorprendente il dato che emerge dall’inchiesta dell’Espresso. I numeri infatti rivelano che quasi nove candidati su dieci usano poco o per nulla il web per promuovere la propria immagine o le iniziative elettorali a cui partecipano. Ad esempio, un politico della notorietà di Vasco Errani, per 15 anni presidente della regione Emilia Romagna, ora candidato a Bologna tra le fila di Leu, è un perfetto sconosciuto per i frequentatori di Twitter, mentre la sua pagina personale su Facebook ha un seguito di 11 mila persone. Poca cosa davvero per un politico di lungo corso come Errani, che naviga lontanissimo non solo da un twittatore seriale come Matteo Renzi, che può contare su oltre 3 milioni di follower, anche se una ricerca di PoliCom.Online ha dimostrato che gli attivi sono solo 400 mila, 1 su 8. Ma anche dai 600 mila seguaci del leader di Liberi e Uguali, Pietro Grasso. Lo schieramento più attivo in Rete è quello di Centrosinistra, ma si vola comunque basso. L’80 per cento circa dei candidati con il Pd e i suoi alleati frequenta poco o nulla Twitter e Facebook, percentuale che sale oltre il 90 per cento nelle fila del Centrodestra. Ma non è solo questione di social network. Un cittadino alla ricerca di informazioni sui candidati nel suo collegio rischia di navigare a lungo sul web senza successo. In molti casi è diicile perfino rintracciare un curriculum dell’aspirante parlamentare. La ricerca via Google finisce nel nulla anche per alcuni Cinque Stelle. Ed è quasi un paradosso per un movimento che è cresciuto cavalcando l’onda del web. Prendiamo il caso di Tiziana Santaniello, selezionata da Di Maio e dal suo staff per tentare l’elezione al Senato in uno dei tre collegi uninominali di Milano. La candidata Santaniello non aveva mai lasciato traccia di sé in Rete fino ai primi di febbraio, quando su Facebook e su Twitter sono comparsi due profili a lei dedicati. Meglio tardi che mai.

l’espresso 25.2.18
Globe theatre
di Sabina Minardi
Sfida i regimi. Denuncia le crisi. Mette in scena battaglie civili. Si impegna contro violenze e razzismi. Il teatro torna a essere politico


Nei Cavalieri di Aristofane, commedia rappresentata ad Atene per la prima volta 2442 anni fa, un salsicciaio cinico e ignorante accusa Demos, rappresentante del popolo, di non avere più fiducia nell’élite urbana dei “belli e buoni”. E, nel tentativo di portare acqua a quella parte sociale, e di condizionare un dibattito di attualità (che Luciano Canfora ha ricostruito in “Cleofonte deve morire”, Laterza, dedicato agli obiettivi politici del teatro di Aristofane), lo copre di minacce e di insulti, di falsità e violenza. Di fango. Lo stesso nel quale rotolano, amandosi e odiandosi, colpendosi senza pietà, rievocando sopraffazioni antiche e nuove, gli interpreti di “No43Filth” della compagnia di Tallinn TeatrNO99: metafora in troppo chiara del populismo e delle sue retoriche. E se Medea, con le mani sporche del sangue dei figli suoi e di Giasone, urla ancora - l’ultima messa in scena è a cura di Walter Pagliaro, al Teatro Palladium di Roma, dal primo marzo -, è perché c’è un legame stretto tra lei e il presente: non con la feroce assassina cantata da Euripide, ma con la donna sola proveniente dalla Colchide e immigrata a Corinto, aggredita ed emarginata dalla nuova comunità (di Christa Wolf l’emozionante rilettura in “Medea. Voci”, e/o). Denuncia le crisi contemporanee. Si fa carico di battaglie civili. Alza la voce contro censure e regimi. Tocca i nervi scoperti della società, dalla violenza sulle donne alle identità di genere. E li proietta su quella zona franca dalla realtà che è il palcoscenico: il teatro si (ri)scopre politico. Non che per l’Italia sia una vera novità: politica era già l’idea di Giorgio Strehler e del Piccolo Teatro di Mi lano di trasformare in stabile il teatro d’arte. O il teatro di Dario Fo, da “Pum pum chi è la polizia” a “Morte accidentale di un anarchico”. Ma il rilancio - che all’estero è evidente, genera spettacoli cult, contagia soprattutto il pubblico più giovane - è nell’aria: come spiegare l’incantesimo di Pierfrancesco Favino a Sanremo, che per quattro minuti tiene incollati 11 milioni di spettatori con un monologo scomodo del 1977, tratto da “La notte poco prima delle foreste”, del drammaturgo francese “maledetto” Bernard-Marie Koltès? Ode al «nuovo bardo che ha fatto vincere il teatro al Festival», scrive il giorno dopo su Repubblica lo scrittore e regista Stefano Massini, che con “Qualcosa sui Lehman”, indiretta critica al capitalismo e ai suoi disastri, entra a pieno titolo nella nouvelle vague di un teatro sincronizzato sul presente: «Il teatro torna tra il popolo come nella polis greca». «L’Italia ha inventato una ventina d’anni fa un genere di teatro politico e civile: con Marco Paolini e “Il racconto del Vajont”. Poi è stata la volta di Marco Baliani, Ascanio Celestini, Giulio Cavalli», ricorda il critico Oliviero Ponte Di Pino, direttore di Ateatro.it, webzine di cultura teatrale: «Esiste la tradizione di un teatro che riflette sulla nostra storia, come ha fatto Mario Martone, sia in “Noi credevamo” che in “Morte di Danton”. O come hanno fatto Elvira Frosini e Daniele Timpano in “Acqua di colonia”, sul colonialismo italiano, uno degli spettacoli più intelligentemente politici degli ultimi anni, e prima ancora con “Dux in scatola” e “Aldo Morto” sul caso Moro», nota Ponte Di Pino: «E non va trascurato il teatro sociale e di comunità, che è una specificità tutta italiana: come quello di Armando Punzo che, lavorando con i detenuti del Carcere di Volterra, ha dato vita alla Compagnia della Fortezza; di Alessandro Garzella, che coinvolge malati psichiatrici, in Animali Celesti; come il Teatro La Ribalta, Accademia Arte della diversità di Antonio Viganò che a Bolzano rende partecipi i portatori di handicap o il Teatro patologico di Dario D’Ambrosi, che opera con persone con problemi psichici. Questo lavoro per l’integrazione degli emarginati è molto evidente anche in un festival interculturale, Suq, al porto antico di Genova», aggiunge Ponte Di Pino. Il tema dell’immigrazione è al centro anche dell’impegno teatrale di Mario Perrotta: con “Versoterra” e “Lireta - A chi viene dal mare”, messa in scena del diario di Lireta Katiaj, solo per citare qualche titolo. E ora Jacopo Fo e Nazzareno Vasapollo destinano un finanziamento europeo a un progetto per migranti: workshop e corsi di teatro sperimentale, tra Italia, Portogallo e Svezia (tellmeproject. com), per far acquisire loro padronanza linguistica. «La grande differenza tra l’Italia e paesi come la Germania o la Gran Bretagna è che all’estero sono i teatri pubblici a proporre spettacoli che provocano e che dividono. In Italia si coltivano reazioni più ovattate del pubblico». I dati ufficiali confermano: a guidare la classifica degli spettacoli più visti nell’ultimo anno, secondo l’Osservatorio dello Spettacolo di Siae, sono musical come “Notre-Dame De Paris” e “Grease”. «Anche se poi i testi più impegnati e difficili circolano eccome: penso ad “Afghanistan: Il grande gioco”, diretto da Ferdinando Bruni ed Elio De Capitani per il Teatro dell’Elfo», aggiunge Ponte Di Pino, affresco in tredici stazioni che il Tricycle Theatre di Londra ha commissionato per raccontare le relazioni complesse di quel Paese con l’Occidente. «O “Democracy in America”, sul rapporto tra l’America di Trump e la democrazia»: ispirato al trattato di Alexis de Tocqueville, rilegge la storia della democrazia a partire dalle colonie della vecchia Europa. All’estero, la tendenza di affidare al teatro un ruolo politico, rendendolo specchio, antico e rinnovato, dell’attualità è sempre più netta: se gli estoni di TeatrNO99, premiati come “Realtà teatrale” all’ultimo Premio Europa per il Teatro, hanno rappresentato al teatro Argentina di Roma il loro “Filth”, Gianina Carbunariu, dalla Romania, guida l’ondata di autori alle prese con temi come censura, nazionalismo, scontri etnici. Nell’ultimo spettacolo, “Sprechen Sie Schweigen?” (Do you speak silence?), attori rumeni, ungheresi e tedeschi esplorano il nodo della manodopera a basso costo che dalla Romania arriva in Germania. Amir Reza Koohestani, col suo Mehr Theatre Group, rende evidente attraverso i suoi spettacoli la paura e la tensione dell’Iran di oggi, da “Timeloss” a “Hearing”, appena rappresentato a Milano, ambientato in un dormitorio femminile e con una protagonista significativamente chiamata Neda: come la donna uccisa a Teheran durante le manifestazioni post-elettorali del 2009, represse dalle autorità. Ismael Saïdi, dal Belgio, ha avuto il coraggio di far riflettere sul fanatismo islamico con “Djihad”: storia di tre musulmani costretti a compiere un viaggio in Siria, e a toccare con mano le conseguenze della guerra santa. Contro gli stereotipi di genere è l’impegno di Esmeray Özatik, curda, femminista e trans, che in Turchia ha osato portare in scena stupri e violenze della polizia. ro erede di Beckett e di Pinter per la capacità che ha di affondare la lama nelle ferite del genere umano. Considerata la virtualizzazione nella quale siamo immersi, il teatro resta l’unica forma d’arte irriproducibile, che vive il qui e l’ora. E il pubblico lo sente: si identifica nel corpo dell’attore, ne coglie la fragilità». Ne percepisce la fatica, e quel messaggio universale che supera le riscritture, le traduzioni, il tempo: come nei classici, appunto. Shakespeare, per cominciare: sia che si esprima col “Riccardo III” di homas Ostermeier, metafora di un dittatore perverso attorniato da una classe politica assetata di potere, sia che aleggi, nei panni del Calebbano (il Calibano della “Tempesta”) in “EterNapoli”, melologo sul degrado morale di una città-mondo, su testo di Giuseppe Montesano e musica di Fabio Vacchi, interpretato da Toni Servillo al San Carlo di Napoli. E una tragedia come “Antigone” di Sofocle è tra i testi più emblematici di questa universalità di messaggi: l’ultima riproposta arriva da una produzione di Federico Tiezzi per il Teatro di Roma (prima nazionale dal 27 febbraio al 29 marzo), dove lo scontro tra le ragioni del potere e quelle del cuore si svolge in un ospedale-obitorio, e Antigone - ha chiarito lo stesso Tiezzi - è un’integralista, dai discorsi folli e farneticanti come quelli dei combattenti dell’Isis. «I classici ci rivolgono domande attualissime», concorda Daniela Nicolò, che ha fondato, con Enrico Casagrande, i Motus: la loro Antigone-Silvia Calderoni, in felpa e casco, addensava un potente, modernissimo, spirito di ribellione: «In Italia continuiamo a essere considerati outsider, ma c’è un’attenzione nei teatri di tutto il mondo verso i temi più urgenti e brucianti. Il nostro spettacolo “Mdlsx”, inno di libertà contro i confini e i generi, ha raggiunto le 250 repliche. Ora, al tempo di Trump, e di razzismo anche artistico, “Panorama”, il nostro nuovo progetto, lancia una rilessione sull’identità nomade, sui confini fisici e mentali e sul diritto alla non appartenenza». Debutto europeo il 14 e 15 marzo a Gent; in Italia dal 2 al 7 maggio alla Triennale Teatro dell’Arte di Milano, con «performer che hanno vissuto esperienze diasporiche sulla loro pelle, in grado perciò di incarnare il tema della territorialità. Il teatro è diventato il nostro modo di confrontarci con pubblici diversi su questi argomenti: smetteremmo di farlo, se dovessimo dedicarci al teatro da salotto. Lo sforzo in più è quello di agire non solo sulla parola ma anche sulle immagini: dando vita a un linguaggio visionario. Anche questo è un gesto politico». Come sanno tutti i nuovi autori: «Dall’estero arrivano esempi di teatro partecipato e di nuovi linguaggi espressivi, nei quali l’Italia è rimasta un po’ indietro», aggiunge Ponte Di Pino: «Come fa Roger Bernat, capofila di un teatro che richiama letteralmente la polis». Vedi “Pendiente de voto”, voto sospeso, che arriva in Italia mentre infuriano i dibattiti pre-elettorali: gli spettatori, muniti di telecomando, votano realmente. «Non è un caso che oggi gli spettacoli più interessanti, ispirati dalla realtà, provengano da luoghi inquieti e in fermento politico come la Catalogna», nota Daniela Nicolò: «Come il collettivo El Conde de Torreiel, che coinvolge il pubblico in una delle tante guerrille che attraversano l’Europa. O Agrupación Señor Serrano, che riflette sulle disuguaglianze sociali, mescolando performance, video, suono, modellini in scala: come in “Birdie”, recentemente rappresentato a Milano, che tiene insieme i migranti, gli uccelli del capolavoro di Hitchcock, il golf. Emoziona l’impegno sociale e politico di una compagnia come il Belarus Free heatre, osteggiata in patria per la sua battaglia contro la pena di morte e in difesa dei prigionieri politici. Provoca, e conquista, il lavoro di Milo Rau, non a caso protagonista già da qualche anno del Festival internazionale del teatro in piazza di Santarcangelo. Dopo aver dato voce all’attentatore di Utoya, con il suo discorso pronunciato davanti alla corte di Oslo, rito collettivo che chiamava in causa gli spettatori e le loro vere idee su immigrazione e multiculturalismo, l’ultimo lavoro è dedicato all’infanzia violata: “Five Easy Pieces” coinvolge ragazzi tra i 9 e i 13 anni, e rievoca uno degli episodi più tragici e scabrosi della storia del Belgio: quella del pedoilo e assassino Marc Dutroux. Ed è un nodo allo stomaco. Solo il teatro sa come scioglierlo.

l’espresso 25.2.18 
Ancora con Freud… e certo che i sogni sono orrendi!
Spettatori sul lettino
colloquio con Stefano Massini
di Emanuele Coen


Tutto il teatro è politico. Shakespeare, Molière, perfino Goldoni. «Aristotele diceva che ogni gesto è politico. E il teatro non può non parlare alla società», incalza subito Stefano Massini. Sotto questo aspetto, il grande drammaturgo e scrittore fiorentino si muove nel solco della tradizione. Del resto la sua opera più nota, “Lehman Trilogy” (andrà in scena da luglio al National Theatre di Londra, con la regia del premio Oscar Sam Mendes) racconta con trama fittissima i 160 anni di storia di una delle famiglie più potenti d’America, i Lehman, e della banca da loro fondata, fallita nel 2008. Il crac che diede inizio alla grande crisi globale. In un certo senso è un testo “politico”, senza sbavature né scorciatoie populiste. Eppure alcuni l’hanno accusata di aver scritto un testo in cui non esprime la sua posizione, non emerge la condanna del sistema economico. «Mi limito a raccontare i fatti, la storia di una famiglia americana che ha fondato una banca, con pregi e difetti, luci e ombre. Cosa avrei dovuto fare? Dare il cartellino rosso etico e morale, come l’arbitro di una partita di calcio, in base alle mie convinzioni politiche? E poi siamo sicuri che la colpa sia solo dei banchieri cattivi? Qualcuno mi ha chiesto: “Perché non ha parlato del Monte dei Paschi di Siena?”. Non c’è bisogno che arrivi io a dire che le banche sono cattive e rubano i soldi dei poveri risparmiatori. Io devo raccontare ciò che il pubblico non vuole sentire, non ciò che sa già».
Ogni settimana lei recita un monologo in tv durante il programma “Piazzapulita” (La7), in cui affronta temi di attualità: il populismo, l’amore per la cosa pubblica, la figura del sindaco di Roma Ernesto Nathan. È una forma di impegno civile?
«Non è una novità. I grandi autori di teatro, anche in passato, non erano chiusi nel mondo asfittico del teatro ma scrivevano romanzi, partecipavano al dibattito politico. Non consideriamo Pirandello un autore sminuito dal fatto che scriveva romanzi come “Il fu Mattia Pascal” o articoli per riviste letterarie. E non riteniamo Verga un autore teatrale meno forte perché ha scritto “I Malavoglia”. Il teatro è un genere aperto, guai se restasse solo nei teatri».
A volte il teatro resta impigliato nella gabbia del politicamente corretto. Sul palco lirico di Firenze la “Carmen” di Bizet è andata in scena con il finale modificato: l’eroina non muore, uccisa da Don José, perché non si può applaudire un femminicidio. Cosa ne pensa?
«L’arte pura non è mai politically correct. È il discorso politico che tende invece a essere inclusivo, consolatorio, perbenista, non deve lasciare fuori nessuno. Se il teatro fa questo perde la propria ragion d’essere».
Dal suo romanzo “L’interpretatore dei sogni” (Mondadori) è stato tratto lo spettacolo “Freud o l’interpretazione dei sogni”, in scena al Piccolo Teatro Strehler di Milano. Anche il padre della psicoanalisi è politico?
«Freud è la quintessenza di questo ragionamento. Di notte, quando chiudi gli occhi, ti dici la verità su te stesso. Che è talmente orrenda che hai bisogno di renderla metafora, perché altrimenti non la sosterresti. Ecco, il teatro sta alla società come i sogni stanno all’individuo. È il luogo in cui vedi la realtà su te stesso: cattiva, tremenda, spietata. Ma ne hai bisogno».

l’espresso 25.2.18
Tu quoque, populismo
di Leonardo Clausi
Giulio Cesare, Bruto, Marco Antonio: Shakespeare infiamma le platee a Londra e a New York. Con i suoi simboli di potere e di ambizione. Attualissimi


Se il liberismo anglosassone ha sempre tenuto a bada la demagogia, lo deve anche a Shakespeare. Non è dunque per coincidenza che le élite metropolitane di New York e Londra, giustamente turbate dal trumpismo imperante come dal nazionalismo targato Brexit, ricorrono al Bardo per mettere in guardia sul pericolo corso da una democrazia odiosamente sottratta al loro oligopolio. Il colpevole si chiama naturalmente populismo, una delle parole-feticcio dell’era corrente. “Uniti” ormai solo di nome, Stati e Regno stanno interrogandosene in mille modi. E il teatro non è che uno di questi. Il “Giulio Cesare” di Shakespeare è un dramma che da quattrocento anni si presta più egregiamente di altri a una simile indagine. È un testo sul potere del potere, dell’ambizione, della retorica, sulla cospirazione, il tirannicidio e la genesi della tirannia. Shakespeare lo scrisse in una congiuntura storica del regno di Elisabetta I, al termine del quale si apriva un vuoto pericoloso e segnato dalla paura, dal sospetto e dalla censura. Un crocevia la cui importanza echeggia più che mai ora che le due sedi centrali del mondo libero, la Casa Bianca e Downing Street, sono investite da un duplice turbinio che ne conferma la “special relationship”. La prima, complice l’ormai celeberrima passione di Donald Trump per i tweet, pare un agrumeto siciliano i cui rami diffondono politica interna ed estera in forma di cinguettii mattutini; proprio mentre, tra le pareti della seconda, echeggiano nervosi i tacchi leopardati di una heresa May trafelata, inconcludente e alle prese con il caleidoscopico dilemma Brexit. Le ragioni, come anche le conseguenze, di tanto tumulto sono invariabilmente individuate nel populismo, temibile Godzilla che ciclicamente emerge dal proprio sonno secolare per mettere alla prova, temprare e alla fine confermare l’insostituibilità inoppugnabile delle istituzioni democratiche. In entrambe le situazioni, un capolavoro come “Giulio Cesare” - dove la dimensione politica della condizione umana trova validità imperitura e le scelte delle élite scatenano spesso incontrollabili e nefaste conseguenze -, pare fatto apposta per toccare nervi scoperti. È successo la scorsa estate al Central Park di New York, quando la messa in scena di Oskar Eustis e la sua Public heatre, completa di assassinio di un Cesare non casualmente biondo e arancione, ha provocato gli strilli della destra, amplificati da Breitbart e Fox News. Inorriditi alla vista di debosciati attori liberal che inneggiano all’assassinio del palazzinaro-presidente, i paladini della alt-right hanno provocato il precipitoso voltafaccia di alcuni grossi sponsor dello spettacolo, come Delta Airlines e Bank of America. Ma l’arruolamento di Cesare per ammonire la plebe circa i pericoli della democrazia plebiscitaria raggiunge vette particolari nella Londra anti-Brexit: in questa capitale improvvisamente eurofila dove l’alta finanza, pur di non veder striminzire i propri dividendi, non esita a mettere sui propri altari gli ex-voto di perfetti sconosciuti come Altiero Spinelli e Jean Monnet. Sotto la potente direzione di Nicholas Hytner, peso massimo del palcoscenico in lingua inglese, già direttore del National heatre, amico e collaboratore di Alan Bennett, “Julius Caesar” è lo spettacolo da vedere a Londra in questo momento. Il Cesare di Hytner spunta tutte le caselle della contemporaneità: nel Bridge heatre, il nuovo ambizioso spazio presso Tower Bridge da lui diretto e fondato di recente, parte del pubblico è “scritturata” come plebe, partecipando all’azione, stando in piedi come in una piazza romana, gridando, spostandosi, sdraiandosi per terra. Niente toghe, porpora o calzari: tutto è rigorosamente contemporaneo, quello che le locandine deinirebbero come un autentico «assalto ai sensi». Lo spettacolo inizia con una band che suona a tutto volume un pacchiano pezzo rock come “Eye of the Tiger” seguita da “Seven Nation Army” dei White Stripes: che in Italia è un cantico nazionalpopolare - e non populista - per eccellenza, mentre in Gran Bretagna è l’inno uicioso del Labour di Corbyn l’estremista: e infatti le bandiere intorno sono tutte rigorosamente rosse. Reduce dalle vittorie galliche, e interpretato dal veterano David Calder, Cesare entra in scena spavaldo, lanciando un cappelletto da baseball rosso in mezzo all’entusiasmo del popolino, proprio come farebbe l’attuale presidente americano. Ma attenzione, sembra ammonirci Hytner, a concentrarsi solo sulla destra. L’uso politico del (brutto) rock vorrebbe farci rivolgere pensosi lo sguardo alla memorabile comparsata dello stesso Corbyn su un altro palcoscenico: quello del festival di Glastonbury la scorsa estate, quando il pubblico composto da potenziali suoi nipoti proruppe spontaneamente nell’inno «Oh, Jeremy Corbyn» sulle note del succitato brano dei White Stripes. Gli opposti estremismi insomma, gli stessi di cui l’Italia è diventata doloroso laboratorio. Ovviamente a fine spettacolo è possibile comprare gadget a tema - magliette, cappellini, spillette - tanto per confondere un po’ le acque fra l’ammiccamento metaforico della regia e il modello di business: il Bridge è un teatro commerciale che si sostiene grazie a donazioni di privati e vendita di biglietti, ed è costato una quindicina di milioni di euro. Marco Antonio (interpretato da David Morrissey) indossa una tuta da ginnastica acetata che ricorda la gioventù povera di “housing estate” come la tragicamente nota Grenfell Tower. Cassio invece è diventato di genere femminile (Michelle Fairley), una licenza al cast tutto maschile della versione originale che obbedisce a un’altra prepotente urgenza dell’attuale Zeitgeist. Ma il pezzo forte della serata è la sua star, il lucido e assieme tremebondo Bruto di Ben Whishaw, tragica figura d’intellettuale occhialuto che nell’ossequio eccessivo di teoria e valori sarà doppiamente soggiogato: dagli eventi come dalla formidabile oratoria di Marco Antonio. È l’unica star nel senso extra-teatrale, cinematografico: ha al suo attivo molti film oltre che il ruolo di Q, il lemmatico procacciatore di gadget mirabolanti nella filiera 007. Nell’approccio al suo ruolo, Whishaw ha detto di essersi ispirato alla figura di Tony Blair, in particolare alla ideistica convinzione di essere nel giusto che avrebbe portato l’allora premier laburista alla disastrosa e criminale invasione dell’Iraq. Bruto, un vanitoso accademico repubblicano che vuole salvare Roma dal precipizio verso la tirannide (a un tratto firma anche uno dei suoi libri per un fan), in Italia diventerebbe facilmente un cattivo maestro, una igura patetica il cui astratto rigore ideologico trova fatale compimento in uno spietato cretinismo omicida.
Whishaw, la cui corporea esilità presenta una sida ulteriore al ruolo, diventa meno credibile quando accarezza il calcio di una pistola: l’arma dell’omicidio è da fuoco e non da taglio, in linea con la modernità di tutta la produzione. Hytner spara tutte le cartucce in suo possesso per svecchiare un testo senza età. Fonde il modello di business di Ryanair (al “viaggiatore-bigliettaio di se stesso” corrisponde il pubblico pagante che diventa attore) con certo teatro d’avanguardia ormai vintage, e richiama perino l’esperienza del gaming: il ricorso all’elemento immersivo che lega pubblico e attori è stato lodato particolarmente dal pubblico più giovane. Le due ore filate di spettacolo passano veloci in mezzo al plauso generale di pubblico e critica, comprese le parti delle battaglie considerate le meno efficaci da un punto di vista della tensione scenica. Nelle parole del regista: «Non è l’approccio intellettuale e, se vogliamo, razionale di Bruto a convincere la folla, ma quello emozionale di Antonio, basato meno sui fatti o sulla verità, che parla alle viscere». Per poi quasi schermirsi: non è tanto sul leader populista che si basa la regia, «quanto sull’irriconciliabile scontro fra due modi di guardare all’organizzazione della società e sul caos conseguente all’incapacità dei leader di risolvere le proprie differenze e di comprendere il modo migliore di sottoporre i propri argomenti al resto del popolo». Ma attenzione a non sottovalutare, in mezzo a tanta modernità un virtuosistico, e altrettanto forte, richiamo registico alla filologia: dopotutto il pubblico seicentesco del Globe assisteva agli spettacoli in piedi e per ore, spesso anche sotto la pioggia. Ormai è dalla crisi economica del 2008 che il cosiddetto populismo è tornato ad aggirarsi, non solo per l’Europa, ma per il globo intero. Per essere uno spettro, sembra in troppo tangibile, praticamente in carne, ossa e tastiera. Come ha brillantemente notato Marco D’Eramo, nessuno si proclama populista, non è un’autodefinizione: è un termine peggiorativo che punta quasi esclusivamente a stigmatizzare l’inferiorità socio-culturale di chi se lo vede affibbiare. E la ricorrenza, ormai petulante, di questo termine - classista, un filo borioso, utile a definire chi lo usa più e meglio di chi vorrebbe etichettare - non ne è certo l’unico segnale. Se nel dibattito corrente dei media tradizionali l’appellativo è usato a ogni piè sospinto per bacchettare la volgare tracotanza del “popolo bue” - reo di volersi appropriare dell’istituto democratico strappandolo alla condiscendente civiltà e civismo degli “optimates” salvo poi precipitare puntualmente e inesorabilmente nel dispotismo – era solo questione di tempo prima che il teatro facesse propria quest’esigenza, come questi due spettacoli felicemente dimostrano. Se i grandi classici (altro temine “classista”) sono divenuti tali, è perché contengono i tipi ideali di una tragedia umana che sembra declinarli ciclicamente. E non è per nulla esagerato affermare che, da soli, il teatro greco, quello elisabettiano e la commedia dell’arte potrebbero tranquillamente riassumere certi tempi e luoghi ricorrenti della nostra vicenda terrena. Nella loro magistrale sintesi di universale e particolare continueremo a specchiarci nei secoli a venire. «Ogni storia è storia contemporanea», insegnava giustamente don Benedetto Croce. Vale lo stesso per il teatro. Come ci ricorda Shakespeare: ogni suo dramma è un dramma contemporaneo, e tutto il mondo è un palcoscenico.