martedì 27 febbraio 2018

Il Fatto 27.2.18
I colleghi contro il renzista
Appello anti-Recalcati “La psicologia non va usata per insultare”


La vicenda non è nuova, nel senso che era già successo che Massimo Recalcati, psicanalista che ha regalato al renzismo qualche parola d’ordine e più di un edorsement pubblico, facesse irritare un pezzo dei suoi colleghi per la disinvoltura con cui usa la sua scienza a maggior gloria del segretario Pd. Allievo di Lacan, Recalcati si è attirato la disapprovazione, per così dire, dei suoi “compagni di corrente”, che l’hanno pubblicamente bacchettato. Stavolta la pietra dello scandalo è un articolo pubblicato su Repubblica la settimana scorsa. Titolo: Berlusconi e Di Maio sul lettino, in cui si esercita sul “ritorno spettrale del berlusconismo” come “residuo (immortale?) del mondo della pubblicità” o sul grillismo “afflitto da una patologia bipolare sempre più evidente”. Stavolta la disapprovazione dei colleghi ha preso la forma di un appello pubblico – firmato finora da una cinquantina di psicologi e psicoterapeuti – che stigmatizza “la pericolosa deriva” di chi usa il “lessico scientifico, diagnostico, che in genere utilizziamo per aiutare chi non sta bene, al posto di un insulto o di una critica personale o politica”.

Repubblica 27.2.18
Salute mentale
Il paziente è un mondo
colloquio con Eugenio Borgna


Terapie brevi e farmaci sono utili Ma non uccidono la psicoanalisi Così le nuove cure omaggiano Freud L a relazione che cura e che aiuta ad affrontare dolori e traumi. Un percorso lungo e faticoso, quello della psicoanalisi, ma che resta una delle strade maestre per affrontare i disturbi psichici. Negli ultimi anni però ha perso terreno, con la diffusione di terapie che rispondono alle esigenze di una società in corsa, dalle cure farmacologiche alle psicoterapie brevi. Così la vede, però, Eugenio Borgna, uno dei padri della psichiatria italiana.
Cosa è cambiato professore?
«Freud ha cambiato il mondo e ancora oggi in area psicoanalitica l’iter freudiano e quello junghiano possono dare quella profondità necessaria per avvicinarsi agli spazi della propria conoscenza interiore. L’evoluzione sociale ha portato a una maggiore diffusione delle psicoterapie brevi, che però non sarebbero mai nate senza Freud. Viviamo nel presente, in un tempo in cui il passato è considerato inutile. L’analisi indaga nel nostro passato, ma lo fa con tempi lunghi. È diminuito anche il numero di specializzandi che scelgono l’analisi freudiana o junghiana».
Lo stesso Freud ammetteva che potessero esistere altre vie.
« Lo aveva riconosciuto elogiando lo scrittore Arthur Schnitzler per la profondità della conoscenza dell’animo umano testimoniata nelle sue opere».
Quali sono le terapie oggi?
«Ci sono state modificazioni rispetto al pensiero freudiano. Alcuni analisti ne seguono il cammino teorico, ma sfumandone il rigore. Si sono molto diffuse le psicoterapie caratterizzate da un numero limitato di sedute ed è cresciuta la consapevolezza dell’importanza che nella genesi dei disturbi psichici hanno le condizioni sociali così imprevedibili nella loro evoluzione».
Quali sono i limiti delle psicoterapie brevi?
«Non si conciliano con le esperienze psicotiche, con quelle depressive e maniacali, con quelle dissociative, e in particolare dove ci sono tendenze autoaggressive. Qui è necessario ricorrere a psicofarmaci e a una psicoterapia di sostegno. Possono invece essere utili per affrontare un singolo sintomo».
E i farmaci?
« Nel ‘ 52 fu messo a punto in Francia il primo psicofarmaco ad azione antipsicotica, la cloropromazina, ancor oggi prescritta. È stata una rivoluzione. Gli psicofarmaci hanno consentito di fare a meno di metodi antiterapeutici, come il coma insulinico, la lobotomia di inenarrabile barbarica violenza, e l’elettroshock, che continua a essere praticato in alcune cliniche psichiatriche universitarie».
Oggi se ne consumano troppi?
« Vengono prescritti troppo facilmente. Spesso dai medici di base. C’è un abuso e questo può essere pericoloso. Basta una lieve crisi d’ansia per indurre a prendere un ansiolitico. È il segno dei tempi. Si tende ad evitare qualsiasi forma di inquietudine dell’anima e di sofferenza andando alla ricerca di un benessere assoluto».
Con che rischi?
« Si crea dipendenza, attenuazione delle proprie reazioni emotive. Diventiamo “ robot” insensibili. Non va bene, perché la vita è fatta anche di dolore. L’ansia ha un significato sociale, ci aiuta a entrare in contatto con gli altri » .
La medicina dell’evidenza può essere applicata alla psichiatria?
« La medicina basata sulle evidenze è difficilmente applicabile alla valutazione dei disturbi psichici. Questi, nella loro genesi e nella loro evoluzione, sono collegati a un insieme di fattori psicologici, biologici e sociali che si intrecciano gli uni agli altri e che sono influenzati da contesti interpersonali e sociali, dalle parole e dai gesti, non consentendo di giungere a certezze, Nei manicomi non c’erano dubbi sull’evidenza delle cause biologiche della sofferenza psichica che si è dimostrata invece conseguente in buona parte a influenze di matrice sociale. Si può quasi dire che in psichiatria ogni paziente ha un suo modo di stare male e un suo modo di essere curato, sulla scia di influenze non sempre prevedibili».

Repubblica 27.2.18
Poteri tecnici
Perché la scienza non può farsi politica
di Massimo Cacciari


Non occorre molta scienza per capire come un Paese che “esilia” i propri giovani ricercatori in ogni disciplina, che investe nella ricerca meno e forse peggio di molti altri, non possa sperare in fulgidi futuri, come analizzava qualche giorno fa Roberto Defez del Cnr in un’intervista apparsa sul Giornale. Ma è arduo ancora più pensare che per superare i nostrani, storici ritardi e avviarci a meravigliose sorti e progressive basti istituire una Casa di Salomone (si veda il grande Bacone, Nuova Atlantide), dimora degli autoproclamatisi più saggi (cioè gli uomini di scienza come auspicato nella stessa intervista), chiamati a promulgare le liste dei meritevoli di appoggio, finanziamento, carriera accademica. Più realistica forse l’ipotesi che la debolezza delle nostre politiche di ricerca e sviluppo sia lo specchio, per molti versi inevitabile, della debolezza economica e politica complessiva del nostro Paese, della sua base produttiva centrata su un tessuto industriale di piccole o minime dimensioni, di un bilancio statale soffocato da un deficit sempre più insostenibile. Lungi da me, tuttavia, sostenere che la decisione per politiche meritocratiche nella selezione delle professioni — e di quelle scientifiche in primis — sia cosa insignificante o marginale.
Riforme che non comportino spesa nessuno le ha viste mai, ma in questo campo se ne potrebbe forse realizzare qualcuna. Come però? Rafforzando i poteri di quelle strutture para-ministeriali e ultra-burocratiche che dall’alto del Campidoglio di Viale Trastevere già oggi stabiliscono modalità di selezione, concorsi, principi dell’offerta didattica, valore dei titoli, ecc. ecc., secondo modelli centralistici degni del “socialismo reale”? Oppure affiancando a queste la Casa di Salomone, appunto, la casa dei Migliori, di fronte alla cui Autorità i non autorizzati dovrebbe recedere dalle proprie pretese e i poteri politici inchinarsi devotamente? Avanzo una modesta proposta alternativa — fermo restando che nulla impedisce agli Scienziati di dar vita anche formalmente a una potentissima Organizzazione, con la quale cercare di imporre al Politico le proprie volontà e che periodicamente pubblichi liste con le pagelle dei meritevoli, dei rimandati e dei bocciati. Puntare davvero su un modello competitivo; rendere reale l’autonomia delle sedi universitarie; permettere a ciascuna di elaborare proprie strategie dall’offerta didattica alla selezione del personale docente, alla definizione delle proprie vocazioni primarie, incentivandone cioè la specializzazione. Con l’eliminazione del valore legale del titolo di studio, i giovani si orienterebbero naturalmente a quelle sedi che sembrino garantire una formazione migliore ed essere in rapporto più forte col mondo produttivo. La proliferazione anarchica delle sedi nel corso dei passati decenni è essenzialmente il prodotto della mancata autonomia reale delle università, le quali, invece, nella situazione che la mia modesta proposta auspica, si troverebbero obbligate a cercare davvero i migliori, anche dal punto di vista delle capacità di ottenere per le proprie ricerche finanziamenti pubblici e privati. L’autonomia è l’uovo di Colombo; nessun potere centrale potrà mai stabilire chi merita e chi no, nessuna combinazione di Politica e Scienza. Lo Stato dovrà limitarsi a stabilire alcune regole precise in materia di diritto allo studio, obbligando gli Atenei a perseguirle. Libero poi di imporre le prove che vorrà per accedere a pubblici impieghi. Ma l’idea di un Tribunale della Ragione (scientifica) riveste un interesse culturale che va ben oltre le vicende delle nostre accademie.
Esso segnala un “destino” che muove quasi di necessità dalla situazione attuale del sistema tecnico-scientifico. La potenza che esso esplica, la rapidità con cui procede, le trasformazioni anche ormai antropologiche che si mostra in grado di produrre, contrastano evidentemente con le procedure e le forme della rappresentanza e della decisione politica. “Metti la Scienza al potere” sostituisce l’ormai arcaico “metti il Politico al comando”. La coincidenza al limite tra Politico e Scienza è, per un certo verso, il senso dell’Utopia del Moderno.
Oggi essa viene invocata nei fatti, anche se non ci si mostra coscienti della portata epocale che tale istanza esprime. Dalla modesta proposta di cui sopra, mi si permetta un modesto consiglio: riflettano bene gli Scienziati — e soprattutto i Migliori tra loro — che fare politica non potrà solo limitarsi a promuovere la loro ricerca di più e meglio.
Significherà anche definire priorità di ordine sociale.
Significherà entrare nel conflitto dei valori, confrontarsi anche con ideologie e demagogie. Insomma, avere a che fare con schiere di diavoli che essi conoscono da lontano. Forse è preferibile che continuino ad avere cura dei vera (la Verità non la possiede nessuno), piuttosto che costituire Organismi esplicitamente orientati in senso politico. Forse è preferibile che esercitino la propria volontà di potenza nel senso della volontà di sapere, senza confondersi con la declinante volontà di potenza del Politico attuale.

Il Fatto 27.2.18
“B. è in confusione. E nessuno ne parla”
Gavin Jones - Il corrispondente: “In Italia i media non scrivono delle sue condizioni, né dei processi”
di Tommaso Rodano


Gavin Jones è corrispondente di Reuters a Roma dal 1995. Segue la politica italiana dall’anno dopo la prima campagna elettorale di Silvio Berlusconi. Osserva da vicino l’ex Cavaliere da 23 stagioni. E i suoi cambiamenti: “In un’intervista di alcune settimane fa – annota Jones – gli ho sentito dire diverse frasi che mi hanno colpito: sembrava in uno stato di confusione evidente. Magari è normale per un uomo di 81 anni. Ma mi lascia perplesso che nessuno ne parli”.
In uno degli ultimi discorsi pubblici Berlusconi si è vantato di aver alzato le pensioni a “mille lire al mese”. La sua “fatica” è solo folklore o è un argomento politico?
Non solo confonde euro e lire, ma dimentica quasi sempre i miliardi quando parla del Pil o del debito pubblico. Mi ha colpito una frase in particolare: ha detto che quando era al governo ha abolito 411mila leggi. Non è un lapsus: è una cifra precisa. Un numero assurdo, senza alcun fondamento.
I media sottovalutano la confusione di Berlusconi?
Da osservatore esterno, mi sembra strano che non se ne parli affatto. Quasi come se tutti facessero finta di non vederlo, come nella fiaba “I vestiti dell’imperatore”: nessuno dice che il monarca è nudo, solo un bambino. Ma c’è una rimozione – e lo dico di nuovo da giornalista straniero – ancora più impressionante.
Quale?
Mi sembra che Berlusconi sia trattato con straordinario rispetto. Quasi con reverenza. Quando è intervistato, non vengono mai citati i suoi problemi: la condanna, il conflitto di interessi, i processi ancora in corso. Sono temi che la stampa estera ha enfatizzato molto. Qui non esistono. In Inghilterra sarebbe inconcepibile che in tutta la campagna elettorale non sia mai citato il fatto che un leader politico sia a processo per corruzione dei testimoni.
L’Italia sembra sotto anestesia. Non trova che queste elezioni siano tra le meno attese che le sia capitato di raccontare?
Trovo che sia stata una campagna spenta, quasi artificiale, finta. Probabilmente perché c’è l’idea di fondo che non vincerà nessuno e troveranno un accordo dopo il voto. Non ci sono idee originali per animare la campagna e non ci sono nemmeno soldi: i partiti sono in rosso. La campagna elettorale si fa tutta in televisione e pochissimo in piazza, ma poi neanche in tv ci sono duelli tra i leader. L’unico che avrebbe interesse a farli è Renzi, ma gli altri si negano, non vogliono riaccreditarlo.
Ricapitolando: B. è un capo politico anziano, poco lucido, senza più guizzi e idee. Com’è possibile che abbia ancora un ruolo centrale, di chi è la colpa (o il merito)?
La mia impressione è che nessuno abbia mai voluto dargli il colpo di grazia, né a sinistra né a destra. Renzi ha disegnato la legge elettorale insieme a lui, danneggiando i 5Stelle. Nel centrodestra nessuno ha mai provato a rimpiazzarlo. Berlusconi non è nemmeno più così popolare, ormai. Guardi i numeri. Forza Italia potrebbe prendere il 16%, con un’affluenza attorno al 70%. Dunque il 10% dell’elettorato. Questo significa che 9 italiani su 10 non votano Berlusconi. Eppure è ancora lì, a capo dello schieramento che potrebbe vincere le elezioni.

Il Fatto 27.2.18
Bonino (per ora) smentisce: “Noi mai con l’ex Cavaliere”


Siamo ancora in campagna elettorale e dunque il +Europa di Emma Bonino, che corre nella coalizione di centro-sinistra a guida Pd, dice che non ci sarà mai un’alleanza con Silvio Berlusconi. Anche se gran parte del personale politico dei Radicali della Bonino è da sempre nell’orbita dell’ex Cavaliere e del centro-destra. Bonino ha smentito i retroscena che la indicano come prossimo presidente del Consiglio da larghe intese scelta proprio da Berlusconi: “Siamo passati dai retroscena giornalistici alla pura fantascienza. Non ne so nulla, né ho voglia di partecipare a questo gioco. Questa cosa non esiste. Piuttosto convinciamo gli italiani indecisi”, ha detto l’ex ministro degli Esteri a Circo Massimo su Radio Capital. A Un giorno da pecora su Radio1, Riccardo Magi – segretario dei Radicali italiani e candidato alla Camera all’uninominale col centrosinistra – ha ribadito il concetto: “Noi non andremo mai al governo con Berlusconi e mai coi razzisti, i nazionalisti e gli xenofobi. Mai con la Lega, e non col Movimento Cinque Stelle”.

La Stampa 27.2.18
L’effetto frustrazione sulle urne
di Alberto Mingardi


La maggioranza delle persone fa la sua scelta nell’ultima settimana prima del voto. Forse, allora, il caos trasporti in cui il Paese è piombato nella giornata di ieri qualche effetto sull’esito delle prossime elezioni l’avrà.
Eventi eccezionali hanno conseguenze eccezionali, è chiaro. Ma tempeste di neve e abbassamento delle temperature erano stati ampiamente previsti. L’amministrazione comunale romana, criticata alla vigilia per la decisione di chiudere le scuole, per ora se l’è cavata. I disagi in città sono parsi poca cosa rispetto a quelli sulla rete ferroviaria.
L’alta velocità Torino-Napoli è una specie di simbolo di quello che in Italia, nonostante tutto, funziona. Ieri però ha funzionato malissimo. I treni «veloci» hanno accusato ritardi anche di tre, quattro ore, perfino sette ore. Che vuol dire che hanno moltiplicato i tempi di percorrenza. Alle sei di sera, lunghe file di persone smarrite assediavano le biglietterie alla stazione Tiburtina, dove ai passeggeri in viaggio per Termini veniva caldamente consigliato di sbarcare.
In un’epoca nella quale siamo assuefatti all’informazione in tempo reale, la cosa più sorprendente è stata la parsimonia di notizie.
Gli account social dispensavano poco rassicuranti «non possiamo fare previsioni sui tempi di percorrenza».
I ritardi non si sono diluiti, come era lecito immaginare nella prima mattinata: sono anzi diventati sempre più significativi. Trenitalia ha cancellato il 20% dei treni a lunga percorrenza e il 70% dei regionali. Gli Intercity con destinazione Roma Termini sono stati tutti soppressi. Anche per oggi sono attesi disagi.
Come molti altri, chi scrive ieri ha passato sei ore e quindici minuti su un Milano-Roma. Essendo equipaggiato di computer e libri, e potendo lavorare con l’uno e gli altri più o meno dappertutto, le conseguenze per me sono state poca roba. Un wi-fi funzionante, per la verità, avrebbe aiutato. Ma per tutti coloro che non possono improvvisare un ufficio di fortuna col cellulare, la giornata di ieri ha avuto un costo ben superiore a quello del biglietto.
Per carità, nessuno può controllare il tempo. Ci si aspetterebbe però che chi gestisce un servizio di importanza tanto cruciale per il Paese sappia prendere adeguate precauzioni. Che una città come Roma, dove nevica una volta ogni dieci anni, non sia equipaggiata contro le nevicate, ha una sua logica. Il costo di attrezzarsi in modo adeguato probabilmente supera di molto i benefici. Ma a chi controlla l’infrastruttura ferroviaria in tutt’Italia non dovrebbe mancare l’esperienza di eventi che, in alcune aree del Paese, straordinari non lo sono affatto.
Sarà difficile stavolta dare la colpa al neoliberismo: la rete ferroviaria è un monopolio, di proprietà pubblica. Forse non è proprio il caso di caricare lo stesso azionista anche della responsabilità di Alitalia, come si sente dire in questi giorni: i trasporti non sono il suo forte.
Sicuramente il guasto di un convoglio (privato, di Italo) in mattinata all’altezza di Orte non ha aiutato. E’ difficile però imputargli la responsabilità di una situazione tanto disperante. Anche perché non è la prima volta che accade. Ricordiamo tutti i ritardi a valanga del Natale 2009, quando l’allora amministratore delegato delle Ferrovie ebbe l’improvvida idea di esortare i passeggeri «a portarsi le coperte» da casa.
E’ fuor di dubbio che ieri molte persone si sono fatte in quattro per fare fronte agli eventi, e nessuno vuole sminuirne il lavoro. E tuttavia i consumatori non sono un fastidio, un fardello piombato a tradimento sul «sistema», un problema da gestire.
E’ sulla loro soddisfazione che si misurano successi e insuccessi: soprattutto nell’emergenza.
I lettori dei giornali, che dedicano molto tempo e attenzione alle questioni politiche, spesso non si accorgono che il gesto di andare a votare richiede grande determinazione. Non è un gesto scontato. In un’epoca nella quale le appartenenze politiche sono debolissime, si può votare per rabbia e si può votare per frustrazione. La frustrazione per un Paese dove i servizi continuano a funzionare malissimo, ad esempio.

Repubblica 27.2.18
Renzi: “ Resto pure se perdo” Ma se il Pd va sotto il 20% il passo indietro è già deciso. Il leader non vuole ripetere gli annunci pre-referendum, che mobilitarono soprattutto i suoi avversari. “Siamo ancora in corsa come primo partito”
di Tommaso Ciriaco


Roma «Resto anche se sconfitto » , promette Matteo Renzi. E non potrebbe sostenere altrimenti, a un soffio dalla resa dei conti elettorale. Ma è soltanto una parte della verità, quella resa pubblica dal leader. Perché esiste già un’asticella oltre la quale il segretario non resterebbe al suo posto: il 20%.
È il numero a cui è appeso ogni ragionamento, al Nazareno. Fermarsi sotto questa soglia spingerebbe Renzi a farsi da parte, per anticipare quello che gli chiederebbero comunque tutti i big del Pd: un passo indietro, appunto. Ufficialmente deve negare, ovviamente, memore anche del suo errore più grave, quella personalizzazione del referendum costituzionale che finì per compattare i suoi nemici. «Non ci sarà nessun passo indietro e trovo sconcertante che tutto il tema della campagna elettorale sia quel che faccio io – sostiene a Sky Tg24 - Se pensate che passiamo l’ultima settimana a parlare del dopo, avete sbagliato destinatario » . Ma ai fedelissimi che lo tallonano in giro per l’Italia non nega la verità: «Possiamo farcela - il senso di quanto sostiene - si decide tutto in questa settimana. Ma se va male sarò coerente con la mia storia». Il tema del suo futuro è insomma sul tavolo da qualche settimana. E il leader è convinto di poter sfuggire alla sconfitta. « Non posso dire in quale, ma il Pd è primo in un ramo del Parlamento». C’è una sola cosa, però, che l’amareggia per davvero: « Molti sembrano dimenticare quanto accaduto ai socialisti in Europa. In gioco non c’è Renzi, ma la sopravvivenza della sinistra».
I sondaggi non sono più d’aiuto, anche perché da qualche giorno sono “ oscurati” per legge. Ma gli ultimi pubblicabili indicavano il rischio che la coalizione di centrosinistra si piazzasse addirittura terza. Le variabili restano mille, naturalmente. Ma al netto delle percentuali, pesano i fatti: un conto è un eventuale stallo tra gli schieramenti, altro un governo del Presidente, altro ancora un rapido ritorno alle urne. Due sole circostanze sembrano invece insostenibili, agli occhi del capo dem. La prima è appunto scendere quella soglia psicologica del 20%, che secondo il board renziano renderebbe impossibile reggere l’onda d’urto interna. L’altra sarebbe quella di assistere alla nascita di un duraturo governo di centrodestra. In questo caso, Renzi sceglierebbe una “ pausa” - chissà quanto lunga - dalla prima linea. E nel Pd, intanto, come si muovono gli altri? Diversi big si agitano ai nastri di partenza, vogliono prendere posizione per il 5 marzo. Non è solo l’ambizione del governatore del Lazio Nicola Zingaretti, oppure l’insistenza con cui gira il nome di Dario Franceschini per ogni incarico possibile, anche quello di traghettatore del Pd: « Il segretario? L’ho già fatto – risponde - Ma ora mi preoccuperei del fatto che se andasse male per il Pd, l’Italia finirebbe in mano a Salvini o ai grillini ». Non è neanche il gelo tra Renzi e Graziano Delrio, oppure l’attivismo del governatore dell’Emilia Romagna Stefano Bonaccini, che preoccupa qualche vedetta renziana. È un intero gruppo dirigente che si prepara all’impatto con il 4 marzo. Con spirito poco renziano.
Il tema, però, non è neanche solo di congiure e ribaltoni. Il vento può cambiare direzione in un baleno, ma sulla carta i tre quarti dei gruppi parlamentari dem rispondono direttamente al leader, dopo l’epurazione nelle liste. La verità è che è Renzi in persona a valutare ogni scenario, in caso di sconfitta. Senza escludere nulla. «Mi assumo sempre le mie responsabilità » . A meno che non intervenga prima qualcosa, a cambiare radicalmente lo scenario. Glielo ha suggerito nelle ultime ore uno dei padri nobili dem: « Matteo, annuncia che il premier sarà Gentiloni. Fallo venerdì, prima del voto. Riapriresti la partita». Difficile, ma non si sa mai.

Repubblica 27.2.18
Il grande dilemma a sinistra: votare o no per i dem?
di Concetto Vecchio


Bisogna sostenere il centrosinistra, non c’è altra scelta, ma dando a Renzi meno chance di tutti. Così voto Bonino
Il Pd unica scelta. A Roma gli elettori hanno voluto dargli una lezione, ma non è servito. I partiti umiliati peggiorano
Renzi non è il mio nemico, ha fatto molti sbagli ma non il responsabile di tutti i mali
Non abbandoniamo l’idea di cambiare radicalmente il Paese, basta rassegnarsi al meno peggio

«Comunque io il Pd non lo voto». Ci hanno costruito perfino lo spot elettorale sul dubbio che dilania, mai come questa volta, il popolo del centrosinistra. Che fare, domenica? Sicuri di dare ancora fiducia ai democratici? In ogni famiglia c’è uno che si alza e annuncia solenne: «Voto Bonino, per lanciare un avvertimento a Renzi». «Sì, - è la rituale replica però ricordati che Emma in economia è di destra». Votare Insieme, come ha suggerito Romano Prodi, per stare dentro il perimetro della coalizione?
D’accordo, ma Insieme supererà mai la fatidica soglia del tre per cento? Turarsi allora il naso e segnare la croce sul simbolo del Pd, come suggerì Indro Montanelli per la Dc nel ’76, temendo il sorpasso comunista (che non ci fu)? Quanta confusione, quante incertezze.
Ieri anche l’ex direttore dell’Unità Emanuele Macaluso, grande vecchio della sinistra, ha fatto un endorsement per +Europa. «E si stupisce?», dice al telefono. «Bisogna sostenere il centrosinistra con tutte le forze, non c’è altra scelta, ma bisogna fare in modo che Renzi abbia meno chance di tutti. Come me la pensano tanti vecchi compagni. Vede, il segretario non pronuncia mai la parola centrosinistra, dice solo Pd, al singolare. Allo stesso tempo i delusi percepiscono che dare un voto a Grasso è come annullarlo, perché Leu è fuori dalla vera partita, che riguarda centrosinistra, destra e M5S. La scissione è stata una scelta disastrosa».
Che fare, quindi? Se ne parla sui luoghi di lavoro, sui social.
Tradire il Pd, è il ragionamento che fanno in tanti, significherebbe favorire una destra con venature razziste, o l’incompetenza Cinquestelle.
Non resta che il Pd, «una scelta tanto semplice quanto deprimente»: si può riassumere così il post del vicedirettore del Post Francesco Costa, il sito online diretto da Luca Sofri, la cui accorata confessione, “Guardiamoci negli occhi”, vanta la palma del post più virale di questa campagna elettorale. La sua tesi: il Pd, con tutti i suoi limiti, è l’unico partito in grado di governare il Paese, perché dispone di una classe dirigente degna di questo nome. Il pezzo è stato letto da un milione di persone, segno che ha saputo interpretare lo straniamento di un mondo. Ne è sorto un dibattito appassionato. I più hanno rinfacciato a Costa di esercitare il solito ricatto del voto utile, di imporre di votare il meno peggio. Una tesi questa sostenuta su minima& moralia da Marta Fana e Giacomo Gabbuti, in un lungo pezzo in cui si bocciano molti protagonisti del governo Gentiloni, da Poletti a Madia, da Minniti a Lorenzin, perché «una cosa che noi, tutti, non possiamo proprio più permetterci è di continuare a considerare tutto questo “governo da paese normale”».
«Facendo così il Pd non imparerà mai a essere migliore, e io voglio votare una vera sinistra», è l’altra obiezione ricorrente. Costa ha risposto citando il caso Raggi: «A Roma gli elettori hanno voluto dare una bella lezione al Pd alle ultime comunali, col risultato di… far restare il Pd romano quello che era prima. I partiti umiliati e sconfitti si rimpiccioliscono: fanno scappare i benintenzionati e fanno restare gli altri».
Claudio Giunta, che ha scritto Essere # Matteo Renzi, giudica l’analisi di Costa «molto ragionevole, nei modi e nella sostanza», ma non vuol dire cosa voterà. «Questa è la prima campagna elettorale decisa dai social, la più triste e la più allarmante di sempre, anche i politici più assennati si sono dovuti adattare a una comunicazione emotiva». Ha avuto vasta circolazione anche un decalogo elettorale dello storico Antonio Gibelli, per cui «Renzi non è il mio nemico. Ha fatto molti sbagli, ma non è responsabile di tutti i mali».
Gibelli chiude con un appello tutto in maiuscolo: «È assai probabile che ci aspettino venti anni peggiori dei venti che ci hanno preceduto: se la diga si rompe il nuovo fascismo dell’indifferenza è alle porte».
«Il mio spaesamento è totale», confessa però Nadia Terranova, l’autrice de Gli anni al contrario.
«Nel mio collegio il Pd candida Orfini. Non ho ancora deciso quel che farò, ma ho deciso quel che non farò: votare Pd o Cinquestelle. I democratici sull’immigrazione si sono allineati alla destra: una delusione enorme». Giuseppe Provenzano, vicedirettore dello Svimez, fresco di rinuncia a una candidatura nel Pd, aggiunge questo dettaglio. «Sono stato all’Università di Salerno, dove alcuni professori mi hanno detto: “Ma perché dovremmo votare per il figlio di De Luca? È più dignitoso il candidato del Movimento”. Al Sud ci sono troppi impresentabili: lo dico con dolore».
La sinistra è in affanno ovunque in Europa. In Germania l’Spd, precipitata al 20,5%, suo minimo storico, accende discussioni infinite sul suo destino. La faglia non riguarda più soltanto destra e sinistra, ma anche globalizzazione e sovranismo, garantiti e precari, e pone a tutti un ripensamento. Il caso italiano è reso più complicato dal fattore Renzi, un leader reputato antipatico. La lista +Europa rischia così di diventare un rifugio per un mondo che aveva guardato con speranza al Pd negli anni di Veltroni. Ieri anche il critico Goffredo Fofi ha detto che sceglie Bonino: «Ci si può ancora fidare delle singole persone che credono ancora nella politica».
Votare per il Pd o punirlo? Nello spot alla fine spunta Renzi in carne e ossa, e dice al militante dubbioso: «Pensaci». Convincerà i tanti disorientati di queste ore?

La Stampa 27.2.18
Quel Pd che non vota per il Pd
di Federico Geremicca


Magari era inevitabile e non è solo colpa sua, di Matteo Renzi, intendiamo. O magari è soltanto la riprova che qualcosa di profondo si è davvero rotto nel rapporto tra l’ex presidente del Consiglio e il Paese. Ma la sensazione che va consolidandosi in avvio di quest’ultima settimana di campagna elettorale è che il voto del 4 marzo si stia trasformando - per Renzi personalmente - in qualcosa di molto simile alla Madre di tutte le battaglie, quella persa il 4 dicembre del 2016.
E cioè, in un nuovo referendum su di lui: a prescindere dal merito, che ieri era una innovativa ipotesi di riforma costituzionale e oggi un voto per decidere del governo del Paese.
Naturalmente, a differenza di quanto accaduto nel dicembre di due anni fa - quando un eccesso di personalizzazione di quella consultazione convinse molti elettori di diversi partiti che votare «no» avrebbe potuto significare liberarsi di Renzi come capo del governo - stavolta il possibile uso «distorto» della scheda elettorale è questione che riguarda e agita solo parte dell’elettorato Pd. L’analisi (o la speranza) che motiva quelle frange di dirigenti, militanti e simpatizzanti è secca e semplice: se il Partito democratico tracolla, stavolta Renzi sarà davvero costretto alle dimissioni.
Certo, si tratta di una strategia rudimentale: che ricorda molto, volendo, il vecchio adagio su quel signore che per far dispetto alla moglie... Ma la tentazione esiste ed è forte: votare per il centrosinistra (la lista Bonino o quella ulivista, per dire), ma non per il Pd, così da assestare l’ultimo colpo al segretario in carica. È una presa di campo forse discutibile, ma certo non incomprensibile: in fondo, anche se declinata in altro modo - e cioè in nome dell’unità - è la scelta annunciata dallo stesso Romano Prodi, influente padre fondatore. Quanto sia diffusa tra l’elettorato di centrosinistra, naturalmente, è difficile dire. Che sia invece assai presente nei gruppi dirigenti Pd - a Roma come altrove - è certo e perfino evidente.
È la scommessa - per esempio - degli scissionisti del Pd, che si sono addirittura mossi in anticipo puntando tutte le loro fiches proprio sulla sconfitta di Matteo Renzi. Ed è la scelta - in fondo - anche di personalità come Grasso e Boldrini, che oggi sembrano avere come primo nemico proprio il Pd a trazione renziana. Si tratta di un sentire - naturalmente non esprimibile in questi termini - che non è estraneo nemmeno al ragionare di molti e importanti esponenti democratici (da Franceschini a Delrio, passando per Minniti fino addirittura a Gentiloni) che hanno vissuto con mortificazione - per usare un eufemismo - la fase di preparazione delle liste elettorali, che ha visto il segretario fare il pieno di collegi ed eletti sicuri.
Nulla di tutto questo, naturalmente, è sconosciuto a Matteo Renzi: che forse non a caso ieri ha tentato di depotenziare l’eventuale trappola, annunciando in diretta tv che dopo il voto non farà passi indietro, nemmeno in caso di sconfitta elettorale. È la seconda delle mosse «difensive» del segretario, visto che la prima era stata già avviata una decina di giorni fa, favorendo un maggior attivismo (ed una più visibile presenza) degli uomini della cosiddetta squadra. Iniziative comuni e maggior spazio a Gentiloni e Minniti, in particolare: non solo per ampliare l’offerta politica del Pd, ma anche per tentare di mettere agli atti la circostanza che una eventuale sconfitta non avrebbe un solo padre, ma i volti di molti. A differenza, appunto, di quanto accadde nella battaglia persa il 4 dicembre di due anni fa.
Sui progetti di alcuni e sulla strategia difensiva di altri, peserà come un macigno - ovviamente - il risultato che arriverà dalle urne domenica sera: ma già col 20-21 per cento si può dar per certa l’ennesima resa dei conti all’interno del Pd. Matteo Renzi avrebbe forse potuto evitarla - e contemporaneamente aumentare le chance di successo del suo partito - investendo con più convinzione sulla popolarità e la placida simpatia riscossa in questo anno da Paolo Gentiloni. Seppur sollecitato, non l’ha fatto. E non sappiamo - ora - se ne sia pentito: non solo per le incerte sorti del Pd, ma per l’aleggiare -15 mesi dopo - di un nuovo, seppur poco ortodosso, referendum su di lui.

Corriere 27.2.18
Partiti e candidati
Il valore di chi è più capace
di Sabino Cassese


P er il prossimo 4 marzo circa 50 milioni di italiani sono chiamati al voto. Questo — lo dice la Costituzione — è un «dovere civico».
Quel voto servirà a scegliere i membri del Parlamento, non il governo. In una repubblica parlamentare, il popolo elegge chi dovrà esercitare il potere legislativo, non chi è chiamato a svolgere compiti esecutivi. I sistemi elettorali e la divisione in due grandi forze politiche (centrodestra e centrosinistra), avevano permesso per circa vent’anni di conoscere la sera delle elezioni chi avrebbe governato. L’attuale tripolarismo e la nuova legge elettorale impediranno, di fatto, che questo avvenga.
Nel seggio, i votanti non potranno decidere liberamente chi votare, ma dovranno approvare o respingere le candidature proposte dai movimenti politici. È, quindi, importante sapere come queste siano state selezionate, quale è stato l’equilibrio tra popolarità, esperienza, legame con il «territorio» (cioè con un collegio elettorale), rappresentanza della «società civile», che le forze politiche hanno stabilito.
Di tutto questo sappiamo poco, ma possiamo evincere alcuni elementi da uno studio dell’Istituto Cattaneo sulle pluricandidature e sul ricambio dei candidati. Alle molto temute pluricandidature, le forze politiche hanno fatto ricorso con moderazione: solo un sesto dei candidati è nelle liste di più di un collegio.
Q uesto vuol dire che non c’è stato quello strapotere delle segreterie dei partiti o dei leader, che prima si temeva, nel collocare i candidati preferiti in più posti, per assicurarne l’elezione.
Altro elemento importante è il ricambio della classe politica (almeno, per ora, quello «in entrata», perché solo al termine delle elezioni potremo misurare quello «in uscita»). Oltre il 75 per cento dei candidati nei collegi uninominali non ha mai seduto in Parlamento (ma la percentuale varia molto da partito a partito). Il 79 per cento dei candidati nei collegi plurinominali non è stato in precedenza parlamentare (ma i «nuovi» sono per lo più nelle posizioni ultime delle liste, e quindi il numero dei volti nuovi è destinato ad essere ridimensionato dopo le elezioni).
Questo ricambio ha un aspetto positivo ed uno negativo. Ci si può aspettare che il prossimo Parlamento avrà molti volti nuovi, perché molti volti vecchi non hanno meritato. Dai candidati nuovi ci si può anche attendere molta inesperienza: occorrerà che essi si «facciano le ossa». Tanto più che un ricambio così forte si aggiunge al ricambio degli anni precedenti, mentre un certo grado di «professionismo» politico è necessario. Non va dimenticato che non esistono più i partiti di una volta, i partiti-macchina, quelli che servivano a selezionare, formare, promuovere, una classe politica, dal basso, fino ai livelli più alti.
Tra i candidati, il corpo elettorale (i votanti) dovrà scegliere. Il criterio di questa scelta, dicevano i costituenti americani alla fine del ’700, è «quello di assicurarsi come governanti uomini dotati di molta saggezza per ben discernere, e molta virtù per perseguire il bene comune della società» («Il federalista» n. 57). Uno dei padri fondatori dello Stato italiano, Vittorio Emanuele Orlando, scriveva nel 1889 che l’elezione è «una designazione di capacità», perché l’esercizio delle funzioni pubbliche «spetta ai più capaci».
Si è, invece, diffusa l’idea che i parlamentari non vadano scelti per le loro qualità e per lo scrupolo negli impegni che prendono, perché basta che ascoltino il proprio elettorato. Chi pensa questo non sa che i Parlamenti discutono prima di votare, che la maggior parte del loro lavoro si svolge in commissione, che i rappresentanti del popolo non sono macchinette per votare ma esseri pensanti, che debbono discutere, soppesare le varie opzioni, convincersi, prima di decidere. Un grande uomo politico inglese, e uno dei più acuti osservatori dello sviluppo della democrazia, Edmund Burke, disse nel 1774 ai suoi elettori di Bristol che il Parlamento non è un «congresso di ambasciatori d’interessi diversi, l’un l’altro ostili», che agiscono come mandatari, e che la legislazione è questione di ragione e di discernimento e i deputati non possono essere teleguidati da un mandato imperativo dei loro elettori. Questo è ancor più vero in Italia, dal momento che il Parlamento invade continuamente l’area di azione del governo e dell’amministrazione, nella quale sono necessarie competenza, esperienza e preparazione tecnica.
Insomma, se chiediamo all’idraulico o al falegname, al chirurgo o all’ingegnere che sappiano fare (e bene) il loro mestiere, perché la competenza non dovrebbe essere uno dei criteri per scegliere coloro che debbono svolgere una funzione molto più importante e gravida di conseguenze per la collettività, di quella del falegname, dell’ingegnere, del medico? La politica non è e non dovrebbe essere un mestiere, perché essere eletti deputati non vuol dire trovare un impiego e non è auspicabile che i politici siano tali a vita. Tuttavia, essa è una professione, ed è anche una professione difficile, che bisogna imparare e saper esercitare.

La Stampa 27.2.18
Dalla nostalgia per Salò all’ascesa nelle periferie
Radiografia del movimento dell’ultradestra cresciuto nelle università ed entrato nelle istituzioni Web radio, librerie e strade con manifesti neofascisti. Il leader Di Stefano: siamo stati sdoganati
di Francesco Grignetti


Era il lontano 2003: all’Esquilino un gruppo di giovani di estrema destra occupava uno stabile a Roma, zona Piazza Vittorio, e lo intitolava al loro mito, il poeta Ezra Pound. Un poeta maledetto, che amò talmente il fascismo e la Repubblica sociale da rinnegare i suoi Stati Uniti, e perciò in patria fu rinchiuso 13 anni in un manicomio dopo la guerra.
Da allora, ne hanno fatta di strada, i giovanotti di CasaPound. Amano le azioni eclatanti, quelle che non piacciono a nessuno, tipo i manichini impiccati sotto i ponti (era il 16 gennaio 2005), oppure i cappucci sulle statue degli eroi risorgimentali (nel novembre 2008), l’assalto al set dove si registra «Il grande fratello» a Roma (sempre nel 2008), fino alla distribuzione di generi alimentari in Grecia assieme ai camerati di Alba Dorata (nel settembre 2015).
Nel frattempo crescono le sedi in giro per l’Italia. Aumentano le occupazioni «non conformi», nel senso che non sono quelle dei centri sociali di estrema sinistra, ma in fondo si assomigliano. Di pari passo alle manifestazioni lugubri contro i centri di accoglienza per migranti, intanto, CasaPound ha curato anche la diffusione di una sua cultura. Di qui una rete librerie per le pubblicazioni d’area, decine e decine di conferenze con autori anche illustri, pubblicazioni. Hanno anche una band di riferimento, gli «Zetazeroalfa», di cui il presidente Luca Iannone è il leader.
Rapidamente il gruppo estende il suo raggio di azione. Dal 2006 in poi cresce lentamente ma inesorabilmente anche nelle scuole e nelle università attraverso la sigla Blocco Studentesco. Oggi è presente in 40 città e fa promozione tra i giovanissimi: a Roma, nel 2009, ha raccolto oltre 11.000 voti, pari al 28% del totale.
Nel 2008, un altro fondamentale step: CasaPound si struttura e diventa «associazione di promozione sociale». Da quel momento dedica molta attenzione alle attività collaterali. Nascono una associazione satellite di Protezione civile, «La Salamandra»; l’associazione di volontariato «Impavidi destini» dedicata alle famiglie con un disabile in casa; la sigla ecologista-animalista «La foresta che avanza»; fino al cartello di avvocati «Società degli scudi» che garantisce assistenza legale ai militanti finiti nei guai.
Non sottovalutano una grafica moderna. Né il digitale. Hanno una rete di circa 20 web-radio con il marchio comune «Radio Bandiera Nera». Fino all’ultimissima novità, un manipolo di «websupporter» che pagano 15 euro una tessera da esporre sul proprio profilo Facebook.
Velocemente, cavalcando il disagio sociale, CasaPound cresce, anzi dilaga nelle periferie d’Italia. «Siamo stati sdoganati - diceva qualche tempo fa il leader Simone Di Stefano in un intervista - dai risultati elettorali». E in effetti fa impressione che un anno fa a Ostia, 230 mila abitanti, CasaPound abbia sfiorato il 10% dei consensi; il 7% a Bolzano, l’8% a Lucca, il 5% a Todi, quasi il 7% a Lamezia Terme. Nel Bresciano, un sindaco a fine mandato è passato nelle loro file. A Bologna, si è candidato con la tartaruga un illustre ex sottosegretario alla Difesa come Filippo Berselli, ex An.
Piccoli exploit locali, per il momento. Ma domani chissà. Di sicuro pregustano i primi consiglieri regionali nel Lazio e in Lombardia. «E se continuano a farci così tanta pubblicità, questi imbecilli che stanno in mezzo alla strada probabilmente possono portarci anche al 5 per cento», ironizza Di Stefano sull’allarme del neofascismo che avanza. Ironico, paradossale e contorsionista al punto giusto, il loro candidato premier, come quando afferma: «Dire che noi dobbiamo rinunciare al fascismo è anticostituzionale».
Fanno anche campagna elettorale alla vecchia maniera, i camerati di CasaPound. Unici a tappezzare di manifesti con il faccione del leader i muri, sia dove è concesso, sia dove sarebbe vietato. Presenti spesso e volentieri nelle piazze con banchetti e volantini. Prodighi di incontri con la gente esasperata nelle periferie. Qualche giorno fa, per dire, Di Stefano incontrava a Firenze un gruppo di tassisti e di residenti di case popolari nella zona di Novoli: «Mi hanno esposto i problemi che si vivono a causa dell’immigrazione incontrollata». Solito parafulmine, gli immigrati, dei tanti problemi italiani.

il manifesto 27.2.18
Cina, Xi Jinping «ad libitum». E per gli eredi un futuro oscuro
Cina. Di fatto la prossima generazione di leader cinesi, la sesta, considerando che Xi Jinping fa parte della quinta, è stata completamente falciata. Inoltre questa mossa stabilisce una regola costituzionale, che quindi vale per tutti: anche per chi, chissà quando, succederà a Xi Jinping
di Simone Pieranni


Ieri il Comitato centrale del Partito comunista cinese ha deciso di rimuovere il limite a due mandati per la carica di presidente e di vice presidente della Repubblica popolare, sancito dall’articolo 79 della Costituzione. In questo modo Xi potrà estendere il suo dominio
La scelta del partito, in pratica, consentirà a Xi Jinping – com’era prevedibile – di potere rimanere in carica più dei dieci anni canonici, quando nel 2023 scadrà il suo doppio mandato di dieci anni. Questo limite fu voluto nell’era post-Mao da Deng Xiaoping proprio per evitare fenomeni di dominio «rischiosi», ovvero «l’eccessiva concentrazione di potere suscettibile di dare origine a regole arbitrarie da parte di individui a spese della leadership collettiva». Con il limite dei dieci anni Deng voleva regolarizzare la vita politica attraverso una «successione pacifica» della leadership. Ieri su Chinafile, un sito di riflessione sulla Cina contemporanea, la «China watcher» Susan L. Shirk citava proprio Andrew Nathan quando definiva con il termine « resilienza autoritaria» la capacità cinese di garantire una sorta di «legalità» alla successione delle massime cariche.
Per quanto riguarda Xi, però, con questa decisione, che sarà ratificata dall’assemblea nazionale a marzo, non viene a modificarsi solo l’assetto istituzionale della Cina ma anche l’immagine del potere politico cinese e le conseguenze sulla futura tenuta o meno di questo nuovo corso. La presidenza della Repubblica è una carica simbolica, ma è pur sempre sottoposta ai dettami della Costituzione. Xi Jinping, dunque, che tanto ha insistito durante il suo «regno» a rafforzare la giustizia e la sua concezione del diritto, è parso volere una sorta di giustificazione «legale», anzi «costituzionale», al suo potere già incontrastato (è anche segretario del partito e capo della commissione militare centrale). Del resto, si tratta di un percorso segnato nel tempo da decisioni che via via sono venute a rendere quasi ovvia questa nuova evoluzione.
Nel 2016 Xi Jinping era stato definito il «nucleo» del partito comunista, a ottobre 2017 nell’ultimo congresso del partito, il diciannovesimo, il suo «pensiero» («il socialismo con caratteristiche cinesi per una nuova era») aveva ottenuto l’inserimento nello statuto del partito comunista (evento capitato solo a Mao, perché la teoria di Deng venne inserita quando il «piccolo leader» era già morto). Analogamente nello statuto era stato inserito il progetto di «Nuova via della Seta», ovvero la visione «globale» della Cina di Xi Jinping. Adesso è il turno di sancire la sua possibilità di andare oltre ai 10 anni di potere.
Si dirà, come fanno le veline governative, che questo faciliterà la «stabilità» visto che Xi Jinping ha stabilito le linee guida per i prossimi 40 anni, in pratica; si dirà, come hanno fatto alcuni osservatori del paese, che tutto sommato questo lascerà alla luce del sole quanto più o meno in Cina succede sempre, ovvero: il potente «uscente» continua a gestire sacche di potere manovrando più o meno a lungo i suoi «eredi» politici. Ma è proprio questo il rischio di questa mossa politica di una Cina sempre più globale e sempre più autoritaria (perché è innegabile che con Xi sia aumentato il controllo sulle informazioni, sulla libertà di espressione così come sulle minoranze etniche e in alcune regioni «sensibili» per Pechino): Xi Jinping ha fatto tabula rasa di avversari e soprattutto di successori. Di fatto la prossima generazione di leader cinesi, la sesta, considerando che Xi Jinping fa parte della quinta, è stata completamente falciata. Inoltre questa mossa stabilisce una regola costituzionale, che quindi vale per tutti: anche per chi, chissà quando, succederà a Xi Jinping.
E chi ci garantisce che questa nuova regola non diventerà pericolosa per la Cina e non solo, visto come potrebbe essere il mondo tra vent’anni? Xi Jinping ha voluto questa forzatura e una classe politica intera – ora affidabile, ma chissà in futuro – si è completamente piegata al volere del leader. In questo senso c’è un ulteriore messaggio da parte di Xi Jinping ai suoi rivali: con questa decisione sembra volere mettere una pietra tombale su una eventuale opposizione perché è chiaro che chi vorrà fare carriera dovrà prima di tutto essere pronto a dire «sì», a Xi.

Il Fatto 27.2.18
Apple, il morso alla mela l’ha dato l’imperatore Xi
Il presidente Xi Jinping, uscito più potente che mai dal congresso del partito comunista
di Giampiero Gramaglia


Non è proprio la resa del Bene al Male, e tanto meno la vittoria di San Giorgio sul Drago: non è né un apologo né un’allegoria. È una storia d’affari e di realismo, un calcolo d’interesse tra il meno – il dare i dati – e il più – restare nel mercato cinese. L’Apple è un gigante dell’informatica ed è pure un’icona della libertà d’informarsi e di comunicare, ma il miliardo e 300 milioni di potenziali clienti cinesi sono una potente calamita.
Così, l’azienda che fu fondata da Steve Jobs accetta di consegnare alla Cina, entro fine mese, i dati degli utenti cinesi che usano il servizio iCloud, la ‘nuvola’ su cui conservare file, foto, sms, email. Significa sicuramente compromettere la privacy degli utenti nei confronti delle autorità cinesi.
Ma c’è la necessità di adeguarsi alle leggi sulla cybersicurezza cinesi: prevedono che i dati siano memorizzati su server fisicamente localizzati nella Repubblica popolare cinese, e non più – come finora avvenuto – su server statunitensi. È probabilmente un caso che la decisione della Apple coincida con l’annuncio, da parte della Cina, di una riforma della Costituzione che cancella il limite di due mandati presidenziali quinquennali e consecutivi: Xi Jinping, l’attuale presidente, uscito più potente che mai dal congresso del Partito a novembre, non dovrà, quindi, farsi da parte alla fine del suo secondo mandato, che sta per iniziare. La conferma di Xi a marzo da parte del Comitato del Popolo, il Parlamento cinese, è una formalità. Può anche darsi che Xi stia esercitando una positiva influenza sulla Corea del Nord, come dice ora il presidente Trump, che fino a poco tempo fa gli rimproverava di tenere bordone a Pyongyang – adesso, lo farebbe Mosca -. Di certo, Xi prende a prestito dai Kim la nozione di ‘presidente eterno’, cara alla dinastia dittatoriale comunista nord-coreana.
Al mondo degli affari, la novità non sembra dispiacere: alle borse di Shanghai e di Shenzhen, i titoli delle società con nomi legati ai termini ‘imperatore’ o ‘re’ fanno un balzo in avanti, adesso che Xi più che un presidente appare, appunto, un ‘imperatore’, nella tradizione cinese. Vanno forte aziende d’ogni genere, elettroniche, meccaniche, agro-alimentari, di servizi di pulizia, purché nel nome ci sia un riferimento imperiale o reale.
Certo, gli operatori cinesi hanno un’inclinazione allo scaramantico superiore a quelli occidentali e, quindi, la mossa è più cabala che calcolo. Ma, giaculatorie a parte, la Cina si sta attrezzando per essere protagonista, a suo modo, sulle scene politica ed economica del XXI Secolo.
A marzo, il Comitato del Popolo avallerà numerose riforme della Costituzione: oltre a iscrivere, come già deciso, nella Carta Suprema il pensiero del presidente “sul socialismo con caratteristiche cinesi per una nuova era”, v’inserirà la visione della “costruzione per l’umanità di una comunità con un futuro condiviso”, altra teoria cara a Xi. Le novità – assicura l’agenzia Nuova Cina – rafforzeranno “i valori centrali del socialismo”, ma in primo luogo il ruolo del Partito (“la leadership del Pcc definisce la peculiarità del socialismo con caratteristiche cinesi”) e quello di Xi.
Pechino invia emissari economici negli Stati Uniti, diventa ago della bilancia nella crisi coreana e si dota d’una stabilità politica interna che è musica alle orecchie degli investitori internazionali. Ansie e timori di attivisti e associazioni per i diritti umani in questo contesto non ‘fanno il peso’: prevedendo la mossa delle Apple, Reporters sans frontières aveva invitato due settimane or sono blogger e giornalisti in Cina a non usare iCloud per non essere individuati dal governo. Qualche giorno fa, la Apple ha inviato notifiche agli utenti cinesi per avvisarli del cambiamento, cui – spiegava – aveva cercato di opporsi, senza successo. I dati cinesi finiranno sui server della Cloud Big Data Industry, società creata a Guizhou nel 2014, con stretti legami con il governo e il Pcc.
Pechino ha un record impressionante di repressione, restrizioni, violazioni dei diritti umani, non solo su Internet. Ma Tim Cook, Ceo di Apple, non ci pensa proprio a mollare il mercato cinese, in nome della tutela della privacy e della salvaguardia dei diritti umani. Comunisti o liberals, siamo tutti capitalisti!

il manifesto 27.2.18
La Brexit “dolce” di Corbyn
Gran Bretagna-Ue. Il leader laburista propone che Londra resti nell'Unione doganale, ma limita la partecipazione al mercato unico alla libera circolazione dei beni. Il governo May in difficoltà. Nicola Sturgeon (Scozia): "Corbyn è come May, vuole la botte piena e la moglie ubriaca"
di Anna Maria Merlo


Siamo quasi a marzo e tra un anno, a fine mese (il 29), la Gran Bretagna dovrà essere fuori dalla Ue, salvo poi accedere a un periodo di transizione di meno di due anni (fine 2020). Ma venti mesi dopo il referendum che ha approvato la Brexit, la situazione resta altamente confusa.
Ieri, è sceso in campo il leader laburista, Jeremy Corbyn, più con l’intenzione di nuocere ai Tories in piena tormenta che per delineare una soluzione che possa essere accettata da Bruxelles. Era da un anno che Corbyn non faceva un discorso sulla Brexit e che sfuggiva a una presa di posizione. Ieri, a Coventry, per far uscire la Gran Bretagna dal “buio” in cui la tiene il governo May, ha proposto a Bruxelles una “nuova unione doganale”, con l’obiettivo di “garantire l’assenza di diritti doganali con l’Europa e evitare la necessità di una frontiera rigida con l’Irlanda del Nord”, uno dei grossi nodi della questione (una frontiera “dura” metterebbe in crisi gli accordi di pace del ’98).
Corbyn vuole un’unione doganale fatta su misura per la Gran Bretagna, sul modello degli accordi che la Ue ha con Svizzera, Norvegia e Turchia. L’Unione doganale implica eguali tariffe doganali con il resto del mondo. Ma Corbyn vorrebbe, al tempo stesso, poter lasciare alla Gran Bretagna mano libera per concludere accordi con paesi terzi, cosa che Bruxelles rifiuta categoricamente.
Malgrado un appello di un’ottantina di laburisti per restare nel mercato unico, il leader laburista su questo altro pilastro della costruzione europea accetta soltanto la libera circolazione dei beni: una misura di buon senso, che ha esemplificato con la storia della Mini, l’auto costruita a Oxford dalla Bmw, che secondo Corbyn fa tre andate e ritorno dalla Manica prima di essere ultimata, perché le catene di costruzione sono complesse (il 44% dell’export britannico e il 50% dell’import sono con la Ue). Corbyn non vuole che l’economia britannica ci rimetta dalla Brexit, ma al tempo stesso non intende andare contro il voto e riammettere tutti gli aspetti del mercato unico: le “4 libertà” di circolazione, oltre ai beni, anche persone, servizi e capitali (difatti, gli industriali hanno accolto con favore la posizione di Corbyn, che irrita invece la City).
“La libertà di movimento si fermerà”, ha aggiunto, senza pero’ chiarire sul nodo della libera circolazione dei cittadini Ue. Vuole negoziare “protezioni, chiarificazioni e esenzioni là dove sono necessarie”. Corbyn vuole un accordo su misura, perché rifiuta che la Gran Bretagna debba sottostare a tutte le regole della Ue (l’esempio negativo è la vicenda della Royal Bank of Scotland, dieci anni fa, che venne salvata ma obbligata a disfarsi di parte dell’attività), se andrà al potere vuole avere le mani libere (sulle rinazionalizzazioni di certi servizi, per esempio). Ha ribadito che Londra dovrà poter intervenire nelle decisioni Ue che riguardano unione doganale e libera circolazione dei beni, cosa che non è concessa a Svizzera, Norvegia o Turchia. Ha promesso, come i Brexiters, di utilizzare per migliorare i servizi pubblici i “dividendi della Brexit”, cioè i soldi risparmiati uscendo dalla Ue (ma Londra dovrà continuare a pagare anche nel periodo di transizione), dimenticando di dire che Norvegia e Svizzera versano contributi alla Ue pur non partecipando alle decisioni che poi devono rispettare.
Nicola Sturgeon, primo ministro della Scozia, ha commentato: “il discorso di Corbyn è simile a quello di Theresa May”. In difficoltà David Davis, segretario di stato alla Brexit, che ha liquidato, sprezzante: “vende snake oil” (un ciarlatano). Ma potrebbe riuscire la manovra di far cadere il governo May, se dei deputati Tory uniranno i loro voti a quelli del Labour su un emendamento alla legge, in discussione, sulla riorganizzazione delle dogane per il dopo-Brexit.

il manifesto 27.2.18
Afrin smentisce Erdogan: «Stiamo fermando i turchi»
Siria. Reportage dal cantone curdo-siriano, sotto attacco dal 20 gennaio scorso. Raid su ospedali, case, convogli e forni per il pane. L’embargo impedisce il rifornimento di medicinali. Ma la popolazione si mobilita
di Jacopo Bindi


AFRIN (SIRIA) La resistenza di Afrin contro l’invasione turca e jihadista dura da trentasei giorni. Contraddicendo le iniziali dichiarazioni di veloce e sicura vittoria, il presidente turco Erdogan ha ammesso che non è possibile dire quando l’operazione «Ramo d’ulivo» si concluderà.
Le televisioni vicine alla resistenza ripercorrono le dichiarazioni strillate dalla stampa turca sulla rapidità con cui Afrin sarebbe caduta: «tre ore», «tre giorni», «una settimana», «non lo sappiamo».
UNA FONTE DI IRONIA al fronte, nelle strade e le case del cantone, luoghi di una resistenza popolare che, di fatto, è già vittoriosa. Le mobilitazioni popolari sono senza sosta ed è idea comune che la Turchia stia cercando di spaventare la popolazione per farle abbandonare la battaglia.
Proprio il popolo di Afrin, sfidando i bombardamenti con le manifestazioni e rimanendo a vivere nei propri villaggi, sta mettendo in difficoltà la strategia militare dell’esercito turco basata sulla supremazia tecnologica.
Il 13 febbraio le donne di Afrin hanno manifestato in migliaia contro l’aggressione turca, islamista e salafita. Durante il concentramento delle manifestanti, a poche centinaia di metri, i mortai dell’esercito turco hanno colpito la strada adiacente l’ospedale: due morti e tre feriti, tutti civili. Il 15 febbraio, anniversario dell’arresto del leader del Pkk Abdullah Öcalan, migliaia di persone hanno marciato a Cindirese, a pochi chilometri dal fronte e particolarmente colpita dai bombardamenti.
ARIN, GIOVANE di Cindirese e calciatrice nella squadra di Afrin, indica la caviglia fasciata: «Mi sono ferita quando hanno bombardato la mia casa. Ora è distrutta. Loro sono mie vicine, anche casa loro è stata colpita», dice indicando due ragazze che erano con lei.
Durante la manifestazione l’esercito turco bombardava i villaggi a poca distanza e alcune granate di mortaio sono arrivate sul centro città. Il 19 febbraio il popolo di Afrin ha accolto una carovana di 700 persone proveniente da Aleppo. Di nuovo i colpi dell’artiglieria turca hanno raggiunto la città a breve distanza dai manifestanti.
NELLA NOTTE tra il 22 e il 23 febbraio un convoglio civile proveniente dal cantone di Cizire e dalla regione dell’Eufrate è stato colpito dai bombardamenti turchi lungo la strada.
Una persona è morta e 14 sono state ferite. Ararat, mediattivista di Qamishlo, racconta di essersi trovato in uno dei mezzi rimasti bloccati in un villaggio: «Hanno colpito la prima macchina. Allora ci siamo fermati e siamo andati vicino a un muro per proteggerci. Una granata è arrivata a pochi metri da me. Mi sono buttato a terra, ho sentito l’onda d’urto e le schegge hanno perforato i muri delle case».
Heife, arrivata da Shingal, si trovava in un altro tratto del convoglio: «Noi, invece, abbiamo dovuto correre tra gli uliveti per raggiungere un posto sicuro nel villaggio successivo. C’erano esplosioni tutto intorno a noi, ci dovevamo buttare a terra per non essere colpiti». Mentre parla i suoi occhi diventavano lucidi. Non è stato un caso. L’esercito turco si è dovuto giustificare dicendo che si trattava di un convoglio militare, una versione contraddetta dai fatti, documentati dalle immagini delle vetture civili distrutte pubblicate il giorno successivo.
IL NUMERO DI VITTIME civili aumenta ogni giorno e i bombardamenti turchi stanno colpendo strutture civili: scuole, forni del pane, siti archeologici e stazioni di pompaggio dell’acqua. Come la diga di Medanki, l’impianto di purificazione di Metina e la stazione di pompaggio di Cindirese, lasciando senz’acqua 5mila famiglie. La situazione è resa ancora più drammatica dalla carenza di medicinali e forniture mediche dovuta all’embargo in cui il cantone di Afrin è costretto ormai da lungo tempo.
Il 16 febbraio l’esercito turco ha usato armi non convenzionali sul villaggio di Aranda, nella regione di Syve. Almeno sei civili risultano intossicati. Il direttore dell’ospedale di Afrin, Xelil Sabri, durante una conferenza stampa ha dichiarato che i risultati delle analisi confermano che quello utilizzato fosse gas di cloro.
EPPURE LA COMUNITÀ internazionale è rimasta silenziosa. Zhara, curda di religione cristiana, commenta: «Questo dimostra che Erdogan è una persona senza umanità , ma non è la prima volta che questo tipo di armi viene usato contro i curdi». Siar, di Afrin, si chiede: «Perché il papa ha incontrato Erdogan e gli ha regalato una medaglia che simboleggia la pace? Le azioni di Erdogan sono contro i principi cristiani. Ho l’impressione che il papa non abbia agito da guida spirituale, ma da politico».
Nel frattempo è stato annunciato l’accordo militare tra Ypg e regime di Damasco per difendere i confini del cantone, nel quale sono arrivati un centinaio di uomini di una milizia popolare legata all’esercito siriano. Il potere politico rimane in mano alle istituzioni del cantone, spiega Zilan, del movimento delle donne: «Il regime vuole che cediamo il controllo del cantone, ma per noi è fuori discussione».
Il 22 febbraio nella piazza centrale di Afrin si sono raccolte un migliaio di persone che osservavano incuriosite gli uomini della milizia del regime scandire lo slogan «Uno, uno, uno, il popolo della Siria è uno!» da due pick-up e un centinaio di persone che reggevano bandiere dello Stato siriano e cartelli con le foto di Assad mentre ascoltavano un comizio in arabo.
Hamer, del movimento dei giovani, spiega: «Hanno chiesto di poter fare questo comizio per dire che ora la guerra è dello Stato siriano contro quello turco. Però poi non stanno in città ma al fronte».
DOPO QUESTO EVENTO nessuna forza del regime è visibile nelle città e nemmeno le bandiere dello Stato siriano; in questa fase quello che interessa alla popolazione è fermare i bombardamenti aerei. Al momento questo accordo sembra più che altro simbolico, tant’è che fino alla stesura di questo articolo gli aerei da guerra turchi colpivano incessantemente il cantone di Afrin.

il manifesto 27.2.18
«La repressione turca non mi impedirà di scrivere»
Turchia. La lettera di Nurca Baysal, giornalista condannata a dieci mesi per un articolo sul massacro di Cizre
di  Nurcan Baysal


Cari amici, sfortunatamente tre giorni fa sono stata condannata a 10 mesi di carcere per il mio articolo sui crimini di guerra a Cizre, Behind the closed doors of Cizre. La corte ha deciso la sospensione del verdetto, il che vuol dire che non dovrò scontare la pena se per 5 anni non ripeterò una simile offesa (quella che noi chiamiamo 5 anni di condizionale).
Vogliono impedirmi di scrivere sui diritti umani e i crimini di guerra nella regione. Come militante per i diritti umani e come scrittrice, sono stata minacciata molte volte dallo Stato e dai paramilitari. Ma ho continuato a scrivere e continuerò a scrivere e lottare per la pace, i diritti umani, giustizia e democrazia. Ho responsabilità verso l’umanità, la vita, i giovani turchi e curdi che stanno morendo, verso le loro madri. Io sto bene.
Grazie per tutto il vostro sostegno. La solidarietà è molto importante in questo momento. Non c’è nessuna ragione per tacere. Possiamo solo vincere contro questi poteri se lavoriamo insieme per la libertà, pace, giustizia e democrazia.
*Giornalista turca, un suo articolo è uscito su il manifesto il 4 febbraio

il manifesto 27.2.18
Arrestata così, per i miei tweet contro la guerra
di Nurcan Baysal


Era da poco passata la mezzanotte. Stavo guardando la tv, i miei figli giocavano accanto a me, il più piccolo con il Lego, il più grande con il telefono. Con noi c’era anche mio marito e un suo amico. Era una normale domenica sera. Improvvisamente ho sentito un rumore terribile. All’inizio ho pensato a un terremoto. Poi ho realizzato che il rumore proveniva dalla porta d’ingresso. Con i ricordi della guerra ancora presenti nella memoria, ho pensato che forse la nostra casa era sotto attacco, bombardata o bersagliata con le armi.
Ho gridato ai miei figli di rimanere dov’erano, di non avvicinarsi. Abbiamo subito capito che gli uomini che stavano cercando di buttare giù la porta erano poliziotti.
La nostra porta era troppo resistente e la parete intorno cominciava a sgretolarsi. Non riuscendo a entrare dalla porta d’ingresso, sono passati dal giardino e sono entrati dalla cucina.
Circa 20 uomini dei corpi speciali della polizia con kalashnikov e altre armi in mano hanno fatto irruzione in casa puntandole verso di me, il capo della squadra mi ha chiesto se ero Nurcan Baysal. Quando ho risposto di «sì» mi ha detto che aveva un mandato per perquisire la casa. Ho chiesto se avevano il mandato anche per buttare giù la porta. Mi ha confermato che il procuratore li aveva autorizzati anche a buttare giù la porta. Ho risposto che era contro la legge e ho chiesto il nome del procuratore ma non ho ottenuto risposta.
Questo è il modo in cui sono stata arrestata. Sono entrati in casa mia, una casa dove sanno che ci sono due bambini piccoli.
Soltanto due giorni dopo il mio arresto ho saputo che ero stata fermata per cinque tweet che avevo scritto contro «la guerra di Afrin».
Questo il contenuto:
    Quello che portano i carri armati non sono «ramoscelli d’ulivo», sono bombe. Quando le lanciano la gente muore. Ahmed sta morendo, Hasan sta morendo, Rodi sta morendo, Mizgin sta morendo… Vite che stanno finendo…
    Dare il nome di «ramoscello d’ulivo» alla guerra, alla morte. Questa è la Turchia!
    La sinistra, la destra, i nazionalisti e gli islamisti sono tutti uniti nell’odio contro il popolo curdo.
    Cosa pensate di andare a conquistare? Quale religione, quale fede sostiene la guerra e la morte? (Ho scritto questo tweet dopo che l’autorità religiosa turca aveva lanciato un appello alla «vittoria» in un sermone a sostegno dei militari)
    (Retweet di una foto di un altro giornalista di un bambino morto ad Afrin) Ho scritto: «Quelli che vogliono la guerra, guardino questa foto, un bambino morto».
È a causa di questi tweet che sono stata accusata di propaganda terroristica e di lanciare appelli provocatori.
Come potete vedere, questi tweet non contengono nessuna propaganda terroristica e io non ho nemmeno fatto appello a provocazioni o alla violenza. Questi tweet dimostrano che sono contro la guerra e contro la morte, e sì, ho criticato la polizia e il governo turco.
Sono cresciuta con la guerra nella città di Diyarbakir. Realmente non so cosa sia una vita normale. Ho trascorso i miei ultimi vent’anni lottando per pace, democrazia, giustizia e libertà. Mi sono adoperata con le istituzioni, le organizzazioni della società civile per trovare una soluzione pacifica alla questione curda. Anche nei giorni bui del 2015, durante i bombardamenti nel cuore del distretto Sud di Diyarbakir, stavo lavorando per aprire il dialogo tra il governo e il movimento curdo.
Ho organizzato molti incontri nel mio ufficio tra esponenti del partito al governo, del movimento curdo e intellettuali, per cercare di porre fine alle morti nella regione. Come militante per la pace e per i diritti umani ho passato la mia vita trattando con le forze addette al controllo delle migrazioni, guardie di villaggi, vittime delle mine, della povertà, donne sequestrate dallo Stato islamico, con cadaveri abbandonati nelle strade, scrivendo reportage sui crimini di guerra e contro l’umanità.
Dopo tre giorni nel dipartimento dell’anti-terrorismo sono stata rilasciata su cauzione, ma ho anche avuto il divieto di viaggiare. Nell’ultima settimana, altre 311 persone sono state arrestate per aver detto «no» alla guerra di Afrin. Lo stato sta cercando di far tacere le voci contro la guerra. Vogliono che tutti i settori della società, compresi i media sostengano la guerra.
Come giornalisti, attivisti e intellettuali, la nostra responsabilità non è verso lo stato. Noi siamo responsabili verso il nostro popolo, verso l’umanità, verso la storia, verso la vita, verso la gioventù turca e curda che sta morendo, verso le loro madri.
La scorsa settimana, il presidente Recep Tayyip Erdogan ha minacciato la popolazione dicendo che coloro che parteciperanno alle proteste contro la guerra pagheranno un caro prezzo.
Sì, presidente, è vero, noi stiamo pagando un prezzo alto. Ma credetemi, questo prezzo ha un valore. Forse alla fine ci potrà essere la vita e la pace. Questo paese merita la vita e la pace.
pubblicato su Ahval, 1-2-2018

il manifesto 27.2.18
Adamczak, se il comunismo è come una fiaba graffiante
«Il comunismo raccontato a un bambino (e non solo)», di Bini Adamczak edito da Sonda
di Benedetto Vecchi


Un libro agile, scritto in maniera semplice, senza mai essere semplicistico nei suoi contenuti. Femminista queer, l’autrice è Bini Adamczak, militante di base di un gruppo francofortese Sinistra! ha mandato alle stampe un volumetto dal titolo Il comunismo raccontato a un bambino (e non solo) (Sonda edizioni, pp. 126, euro 15). Non poteva certo immaginare, in anni di egemonia neoliberista, il successo di vendite e la traduzione del libro da parte della casa editrice universitaria del Mit, il Massachussetts Institute of Technology.
Sullo stile del libro è inutile dilungarsi ulteriormente se non ribadire che è quella «facilità difficile a farsi», che però talvolta non è tale. L’autrice confessa che tra i suoi progetti ci sono due libri dello stesso tipo. Sono dedicati rispettivamente al 1917 e al ’68, due eventi fondamentali del Novecento letti tuttavia in una prospettiva che Adamczak afferma essere quella di un «comunismo queer», dalle tonalità politiche libertarie e antiautoritarie.
Questo «comunismo raccontato a un bambino» è diviso in due parti: la prima è dedicata all’illustrazione di cosa sia il capitalismo e tocca i punti centrali della critica dell’economia politica marxiana all’interno di una griglia storica che potremmo definire di lunga durata. A muovere Bini Adamczak – anche autrice dei disegni che scandiscono la fine e l’inizio dei capitoli del volume – è la convinzione che il capitalismo non si fondi su una superiorità rispetto ad altre forme economiche che organizzano e garantiscono il benessere di uomini e donne, ma su una appropriazione da parte di alcuni della ricchezza prodotta dalla maggioranza della popolazione. Fin qui, niente di trascendentale. È lo stesso sentiero già battuto da Leo Huberman nel suo fortunato Storia popolare del mondo moderno, cioè una pedagogia della liberazione che non rinuncia mai all’aspetto ludico presente in un processo di apprendimento dove la gerarchia e la divisione sociale del lavoro tra docente e alunno/a viene modulata secondo un principio di attivazione della dimensione critica da parte dell’alunno/a.
Dunque, nulla a che vedere con i tanti compendi delle opere di Karl Marx che hanno scandito la diffusione dei suoi testi, quasi che l’acquisizione degli strumenti della critica dell’economia politica avessero bisogno di una riduzione in pillole. Sarà forse questo aspetto «pedagogico» che deve aver portato il Mit a pubblicare il volume, dato che uno degli elementi che caratterizzato l’ateneo statunitense è proprio la sollecitudine a manifestare punti di vista critici da parte degli studenti.
La seconda parte del libro di Adamczak è più ambiziosa. È rivolto al «che fare?». Non tace, l’autrice, il fatto che ci sono stati molti e diversificati tentativi per costruire il comunismo, portando a modelli di società eterogenei e quasi sempre poco desiderabili. Un nodo che l’autrice si dichiara incapace di sciogliere. Ma i fallimenti non possono chiudere, tuttavia, il desiderio di libertà e di liberazione che muovono uomini e donne. Forse saranno quei bambini, ma anche adulti che, letto il libro, cominceranno a immaginare un altro mondo da quello attuale.
In fondo, il principio speranza che è dietro ogni utopia concreta non è una cosa da lasciare a chi detiene il potere.

Il Fatto 27.2.18
James Ivory
“I miei primi 10 dollari per girare tutta l’Italia”
A 22 anni decise di conoscere la Penisola: prima Venezia, poi Roma. “Le vostre facce sono nate per il cinema”
di Michele Diomà


personalità cinematografica del momento”, secondo Michele Diomà, regista italiano che con il candidato Oscar per la sceneggiatura di “Call by your name” sta per girare “Dance again with me, Heywood!”. “Gli ho proposto di partecipare al mio film – racconta – poteva rifiutare, invece mi ha dato subito il suo appoggio. Nella pellicola Ivory interpreta se stesso, dato che il personaggio principale è un filmmaker, Giorgio Arcelli Fontana, attore e regista piacentino trasferitosi da molti anni a New York con una passione per Napoli e Massimo Troisi”, spiega Diomà che firma l’intervista che pubblichiamo a Ivory con dichiarazioni inediti sul suo rapporto con la cultura italiana.
Mister Ivory quando è iniziata la sua passione per l’Italia?
Molti anni prima del 1986, anno in cui ho girato Camera con vista ambientato in buona parte a Firenze. Avevo 22 anni nel lontano 1950, mi trovavo in viaggio a Parigi, ero giovane e con ben pochi soldi, ma avevo una gran voglia di scoprire l’Italia, anche perché in quegli anni tutti in America farlo. Se ben ricordo fu proprio il primo anno di boom del turismo nel vostro paese dopo gli anni difficili della Seconda guerra mondiale.
Come andò il suo viaggio?
In maniera avventurosa. Salii su un treno per riuscire a vedere almeno Venezia. Non dimenticherò la prima volta che la vidi, ne fui folgorato e decisi che nella città lagunare avrei girato il mio film d’esordio, un desiderio che coronai 3 anni dopo, quando con fatica racimolai i soldi per girare un piccolo documentario Venice: Theme and Variations.
Si fermò a Venezia?
No. Dato che mi trovavo in Italia, pensai che non potevo non visitare Roma, ma avevo un piccolo problema pratico, mi erano rimasti in tasca 10 dollari. Sono passati più di 65 anni da quel giorno, ma ricordo perfettamente il mio stato d’animo, da una parte ero spinto dalla mia situazione economica a mettere fine a quel viaggio in Italia e chiamare mio padre in America perché mi facesse il biglietto per rientrare, dall’altra avevo una fortissima voglia di vedere la Caput Mundi. Un po’ per incoscienza dovuta alla mia giovane età, un po’ per fame di avventura, optai per la seconda soluzione.
Ne valse la pena?
Non appena arrivai alla Stazione Termini corsi in un’American Express con la speranza di trovare un regalo da parte di mio padre, che generosamente senza dirmelo mi fece trovare sul conto 100 dollari. Beh mi sentii l’uomo più ricco del mondo. Iniziai a girovagare per Roma e a ogni passo vedevo palazzi, piazze e monumenti che mi lasciavano senza fiato. Ricordo quel periodo come bellissimo e non volevo più andarmene, rimasi infatti a Roma per circa tre mesi. E devo confidarvi una cosa: proprio a Roma c’è il monumento che ancora oggi, che ho girato un po’ il mondo, considero il più bello in assoluto. Il Pantheon.
Lei il 4 marzo potrebbe vincere l’Oscar alla miglior sceneggiatura per “Call me by your name” di Luca Guadagnino e ha accettato di partecipare al film di un giovane regista italiano. Cosa la affascina del nostro cinema?
Intanto la grande storia del cinema italiano. Mi emoziono sempre quando rivedo Umberto D. di Vittorio De Sica e adoro in termini assoluti Il Gattopardo di Luchino Visconti. Un capitolo a parte va dedicato a tutta la filmografia di Federico Fellini, io sono un vero e proprio fan. Ho visto tutti i suoi film. Negli anni a New York spesso c’erano come prime americane film di Fellini, e ricordo che non erano considerate come degli eventi simili a tanti altri che si tengono ogni giorno nella Grande Mela. La prima di un nuovo film di Federico Fellini era attesa come una grande esperienza culturale. Tutti i cinefili correvano a Manhattan in attesa dell’arrivo di Giulietta Masina e Federico Fellini, che venivano a New York per presentare un nuovo film. Quindi è inevitabile che io sia sempre interessato ad ascoltare un regista italiano che viene a propormi un progetto.
Da qui le due collaborazioni. Ha altro in programma?
Sto anche scrivendo la sceneggiatura di un cortometraggio che si intitola Modern Marriage con Giorgio Arcelli Fontana, un progetto che sia pure con un tono da commedia affronta una tematica impegnativa come l’immigrazione.
Oltre ai registi, ci sono attori italiani che stima?
C’è un particolare del cinema italiano che mi ha sempre sorpreso in positivo: i volti degli attori, anche delle comparse. Dico questo perché trovo le facce degli italiani sempre molto espressive, non importa che siano donne, uomini, bambini o anziani, hanno tutti una bellezza rara, e questo è un elemento estetico importante nel cinema. Ecco perché è sempre un piacere per me rivedere un film italiano, dato che sono un regista che tiene molto in considerazione le caratteristiche somatiche degli attori.

Corriere 27.2.18
Il mistero dell’Universo più veloce del previsto
I nuovi dati sull’espansione del Cosmo calcolati dagli scienziati grazie a Hubble
di Giovanni Caprara


L’italiano del team: ora cambia la fisica
C’è qualcosa di inaspettato nell’universo e agisce in modo misterioso. «Raccogliamo segnali da un mondo di cui non conosciamo nulla — dice Stefano Casertano dello Space Telescope Science Institute di Baltimora negli Stati Uniti — però il risultato ottenuto con il telescopio Hubble ci conferma l’esistenza di una nuova fisica».
La Nasa ha diffuso un comunicato anticipando la scoperta che sarà pubblicata dalla rivista The Astrophysical Journal . Un gruppo di ricercatori guidati dal premio Nobel Adam Riess è riuscito a stabilire che le galassie si muovono con un velocità superiore a quella prevista in passato, cioè 73 chilometri al secondo ogni megaparsec (che corrisponde a 3,3 milioni di anni luce). «Finora le misure erano incerte e diverse — nota Casertano — e con il satellite europeo Planck era emerso un valore inferiore, di 67 chilometri al secondo. Ma abbiamo verificato tutto il possibile e riteniamo che questa nuova misura sia giusta».
Adam Riess nel 1998, studiando delle stelle supernovae, aveva scoperto che l’universo non solo si espande ma accelera e per questo l’Accademia delle scienze svedese nel 2011 gli assegnò il Nobel per la fisica. Da allora ha approfondito le sue ricerche prendendo come riferimento altri tipi di stelle, le Cefeidi, famose per essere dei «fari» stabili del cosmo perché se ne conosce con precisione il modo di brillare, variabile nei giorni. Casertano ne ha condiviso la sfida all’Istituto di Baltimora e negli ultimi sei anni ha scrutato, assieme a Riess, otto Cefeidi, dieci volte più lontane di quelle considerate nelle ricerche passate, conquistando la determinante conferma. «Lo scenario ora cambia — dice l’astrofisico italiano —. Non sappiamo che cosa provochi l’accelerazione e avanziamo delle ipotesi».
La causa — si chiedono gli scienziati — sta nella materia oscura, di cui si ignora la natura, quando interagisce con la materia visibile di cui è formato l’universo? Oppure tutto scaturisce dall’esistenza di nuove particelle battezzate «neutrini sterili» capaci di viaggiare quasi alla velocità della luce? «Di sicuro — aggiunge Casertano — siamo davanti a qualcosa di nuovo, tutto da decifrare per capire l’evoluzione dell’universo».
Intanto è ancora il vecchio telescopio spaziale Hubble, lanciato quasi trent’anni fa, ad aprire una nuova finestra nella conoscenza del cosmo dopo aver aiutato a stabilire la sua età di 13,8 miliardi di anni. Il telescopio è stato battezzato con il nome dell’astronomo-campione di pugilato Edwin Hubble, che negli anni Trenta aveva scoperto che le galassie si allontanavano e quindi l’universo si espandeva. La scoperta attuale va oltre e stabilisce che l’universo accelera ancora più del previsto. «Forse — nota lo studioso — dobbiamo cambiare il modello cosmologico finora usato per spiegare ciò che succede in cielo e al quale aveva dato un contributo anche Albert Einstein con la sua costante cosmologica».
Stefano Casertano ha studiato alla Normale di Pisa, poi ha trovato un posto da ricercatore all’Istituto di studi avanzati di Princeton (dove insegnava Einstein). «Ho compiuto ricerche in varie università americane e in Olanda. Poi sono entrato allo Space Telescope Science Institute. Era il 1994 ed è un luogo fantastico per l’astronomia. Adesso si sta preparando il nuovo super telescopio Webb, successore di Hubble, che l’anno prossimo sarà lanciato in orbita». Ma con l’Italia Stefano non ha tagliato i ponti. «Collaboro con alcune università, come Torino, dove ci sono ottimi ricercatori — ricorda —. Avevo anche tentato di rientrare, ma inutilmente. Se uno esce, il ritorno diventa arduo».

Corriere 27.2.18
L’antipolitica dell’Italietta
Un saggio di Clotilde Bertoni (il Mulino) rievoca le numerose opere letterarie che presero di mira le istituzioni rappresentative verso la fine dell’Ottocento.Lo Stato liberale di allora fu dipinto come un immenso focolaio di corruzione
di Paolo Mieli


fu Lo scandalo della banca romana
a gettare discredito sul parlamento
È curioso che l’Ottocento, il secolo nel quale in Europa si è andata progressivamente affermando la democrazia parlamentare, sia anche l’insieme di decenni in cui la letteratura dell’intero continente, pressoché unanime, ha offerto un’immagine sempre più ripugnante delle attività svolte nei Parlamenti (nonché del loro intreccio con le realtà economiche e finanziarie). Lo documenta bene Clotilde Bertoni nell’avvincente saggio Romanzo di uno scandalo. La Banca Romana tra finzione e realtà , pubblicato dal Mulino. Un libro che con intelligenza va molto al di là del caso politico-finanziario che scosse l’Italia alla fine del 1892. E che offre un ampio repertorio della critica saggistico-letteraria alla democrazia rappresentativa. Thomas Carlyle, Hyppolite Taine, Adolphe Prins e ancora Dumas, Stendhal, Balzac, Eliot, Gustave Flaubert, Meredith, Dickens, Trollope, Daudet, Claretie, Oscar Wilde, Maurice Barrès, Émile Zola… poi, qui in Italia, Francesco Domenico Guerrazzi con Il secolo che muore , Antonio Fogazzaro con Daniele Cortis , Vittorio Bersezio con Corruttela , Matilde Serao con La conquista di Roma : non c’è stato praticamente scrittore europeo che abbia anche solo sfiorato la politica dei propri tempi senza volersi soffermare sui cinici e spregevoli deputati che per amore di denaro e potere avevano tradito i loro nobilissimi ideali di gioventù. Quasi sempre in combutta con altrettanto ripugnanti affaristi, banchieri e giornalisti.
Lo scandalo italiano della Regìa Tabacchi alla fine degli anni Sessanta (dell’Ottocento), il crac dell’Union Générale e il fallimento della Compagnia per la costruzione del canale di Panama in Francia (1889) hanno via via offerto spunti sempre nuovi per questo genere di racconti. Qui in Italia, è stato soprattutto il crac della Banca Romana che ha influenzato la narrativa. Per alcuni decenni.
La storia è abbastanza conosciuta, almeno nelle sue linee generali. Governatore della Banca è, dal 1881, Bernardo Tanlongo, che Clotilde Bertoni descrive come «un personaggio insieme macchiettistico e inquietante», al tempo stesso «buon padre di famiglia» e «affarista pronto a tutti gli intrallazzi», «praticone e grossolano ma addentro a tutte le alte sfere». Tanlongo è un «vedovo, padre di numerosa prole, amante della vita familiare, cattolico devotissimo, di una frugalità prossima all’avarizia, avvezzo a garantirsi le simpatie popolari ricevendo infiniti postulanti in un ufficio malridotto da cui dispensa piccoli favori». Dietro «questa apparenza semplice e bonaria dissimula una stratificata rete di potere»: è in stretti rapporti con il Vaticano, con i gesuiti, ma anche con la massoneria, ha gestito le aziende agricole romane di Vittorio Emanuele II e «a quanto pare gli ha pure prestato denaro a usura».
Tra la fine del 1889 e l’inizio del 1890 si avvertono i primi scricchiolii della Banca. A dispetto di ciò, nel 1892 — su proposta di Giovanni Giolitti sollecitato in tal senso da re Umberto — Tanlongo è incredibilmente nominato senatore del Regno. In quello stesso 1892 esplode lo scandalo. Nel gennaio del 1893 viene spiccato contro di lui (e contro il cassiere della Banca, Cesare Lazzaroni «settantenne, vecchio scapolo, barone, bon vivant , amante delle frequentazioni altolocate, ma non granché influente») un mandato di cattura per peculato, falso e corruzione.
Prima di andare in carcere il banchiere fa in tempo a rilasciare un’intervista in cui minaccia di rendere pubblici i nomi di quelli che gli «hanno chiesto milioni su milioni» e avverte: «Se io precipito giù, casco in buona compagnia». In Parlamento esplode la bagarre. Napoleone Colajanni mette l’accaduto in relazione con i fatti di Caltavuturo, un paesino della Sicilia nel quale i soldati hanno sparato contro gli occupanti di terre. E denuncia il fatto che si possa «essere impunemente iniqui contro i contadini» e lasciar liberi «i ladri di milioni, i barattieri i quali finiscono per frequentare l’Aula di Montecitorio». Una comparazione che resterà impressa nella memoria di Luigi Pirandello.
I personaggi assomigliano ai protagonisti di Corruttela di Bersezio: dal «cinico pennivendolo» Biagio Livi al «viscido faccendiere» Federico Parione. Colajanni, nel libro Banche e Parlamento (pubblicato dai Fratelli Treves in quello stesso 1893), è il primo a stabilire una comparazione tra gli scandali francesi e quello della Banca Romana. Con la differenza, a suo dire, che quello panamense (in realtà francese) era «una grande ladreria privata, a cui partecipavano anche degli uomini di governo e parlamentari», mentre quello italiano andava considerato come «una grande ladreria governativa a cui parteciparono anche dei privati».
Quanto a Giolitti, per Colajanni (che pur giustifica i «prestiti» ottenuti da Crispi), andava tenuto nel conto di «uno dei più disonesti ministri che abbia avuto l’Italia». Il processo è quasi immediato e nell’estate del 1894 c’è, a sorpresa, l’assoluzione per tutti: i giornali generalmente ne attribuiscono la colpa all’impreparazione dei giurati. Non solo loro, a dire il vero: il leader socialista Filippo Turati così scriveva a Colajanni: «Sulla questione bancaria sono un asino calzato e vestito… Non conosco libri, né posseggo più idee di quelle del mio portinaio… Non dirlo per carità al nostro pubblico, neppure per vendicarti di me». Ma i giornali degli altri Paesi sono spietati. Scrive il 29 luglio il «Berliner Tageblatt»: «L’Italia si è coperta con questo verdetto di una incancellabile onta… Con l’assoluzione d’una notoria e confessa banda di ladri ha pronunciato la propria dichiarazione di bancarotta morale». Tanlongo morirà nel 1896. Ma il veleno instillato dal caso nel nostro sistema politico gli sopravvivrà.
Già nel 1895 Scipio Sighele dà alle stampe un pamphlet, Contro il parlamentarismo. Saggio di psicologia collettiva , in cui sostiene che la Camera dei deputati «è psicologicamente una femmina e spesso anche una femmina isterica». Quello stesso anno, Guglielmo Ferrero pubblica La reazione , in cui si scaglia contro il «regime parlamentare degenerato e corrotto».
Nel complesso, fa notare Clotilde Bertoni, «la produzione letteraria dà scarso spazio al versante finanziario della vicenda». Con la parziale eccezione del romanzo Onorevole Paolo Leonforte di Enrico Castelnuovo che è la storia di un giovane che si fa eleggere deputato per smania di «acquistare influenza e quattrini», ritrovandosi in un Parlamento in cui domina il presidente del Consiglio Fuscelli, «uomo dei piccoli tempi… ambizioso senza grandezza» (una figura modellata, secondo la storica, in parte su Depretis e in parte su Giolitti). Molto atteso è il romanzo L’onorevole dell’ex garibaldino Achille Bizzoni (già denunciatore dello scandalo della Regìa Tabacchi, per cui era finito anche in prigione). Contiene ironie contro il trasformismo, «il più grande portato della scienza parlamentare», accusa il giornalista di turno di essere un «bandito onnipotente», definisce Montecitorio un «ammazzatojo di reputazioni». E fa attribuire, da un personaggio minore, lo scandalo bancario all’italica «mania di imitazione» della Francia. Curioso. Va detto, però, che anche Bizzoni è coinvolto nello scandalo: tra le carte di Tanlongo c’è una cambiale con la sua firma.
Nel 1896 a Parigi esce Rome , secondo volume della trilogia di Émile Zola Trois Villes . Lo scrittore francese è stato nella capitale d’Italia per documentarsi: papa Leone XIII gli ha rifiutato un’udienza; il re Umberto, la regina Elena e il presidente del Consiglio Crispi — oltre a numerose personalità del mondo giornalistico — lo hanno, invece, accolto a braccia aperte. Risultato: una rappresentazione della politica, secondo la Bertoni, «insipida», «prudentemente vaga», «impigliata un po’ nei più sfioriti cliché di repertorio, un po’ in quelli sempre fiorenti della vulgata popolare». Il tutto accompagnato da imbarazzanti inchini ai sovrani e da qualche sberleffo anticlericale.
In omaggio alle proprie diffidenze nei confronti della Chiesa, Zola intravede, dietro lo scandalo, lo zampino del Vaticano. Dedica, però, pagine efficaci alla costruzione dei nuovi quartieri romani, tra cui Prati, da cui è rimasto affascinato. Ma, in sostanza — come ha scritto Ennio Flajano in Diario notturno (Adelphi) — si può dire che Zola «venne a Roma per scrivere un romanzo su Roma e non ne capì nulla». Rome — assieme ad altri libri dello stesso autore — offrirà spunto a Cesare Castelli per scrivere La terza Roma .
Il resto della narrativa italiana continua e continuerà a puntare sulla figura dei parlamentari (e in penombra dei banchieri). In L’onorevole Grigioni di G.A. Delgrosso il deputato di cui al titolo del libro entra in contatto con l’uomo di banca Fabiani, un «vero demonio» con «relazioni dappertutto», uscito da un processo «pel buco della toppa» dopo aver ottenuto di «compromettere in esso uomini politici». L’assalto di Montecitorio di Ettore Socci (giornalista ed esponente politico del fronte radicale) si segnala per aver descritto l’invenzione della «distribuzione delle scarpe» — una alla vigilia del voto, l’altra dopo — cinquant’anni prima che i napoletani la attribuissero ad Achille Lauro. Il tribuno di Montecitorio del reazionario Luigi Marocco rievoca lo scandalo della Banca Romana al fine di biasimare il «guazzabuglio di situazioni false (sic) e di inchieste parlamentari». Viste, quest’ultime, come punto estremo della degenerazione politica.
Di miglior qualità è Le ostriche di Carlo Del Balzo che, riprendendo un’immagine già usata da Matilde Serao, parla di quei deputati che si attaccano «allo scoglio di Montecitorio, con la ferma intenzione di rimanervi tutta la vita». Tutti i personaggi sono «traditori degli ideali risorgimentali». Qualcuno in extremis si accorge di aver «sporcata la sua canizie» e di essere scivolato «nella melma». Stesso impianto in I corsari della breccia di Filandro Colacito, che pure ospita una figura di Tanlongo ribattezzato «Talfondo», meno «macchiettistica», secondo l’autrice, di quanto appaia negli altri romanzi.
Un discorso a sé merita I vecchi e i giovani di Luigi Pirandello, comparso la prima volta — a puntate, sulla rivista «Rassegna contemporanea» — nel 1909. È il romanzo che ci ha lasciato l’immagine più celebre del nostro Paese ai tempi dello scandalo: «Dai cieli d’Italia in quei giorni pioveva fango… pareva che tutte le cloache della città si fossero scaricate e che la nuova vita nazionale della terza Roma dovesse affogare in quella torbida fetida alluvione di melma, su cui svolazzavano stridendo, neri uccellacci, il sospetto e la calunnia». Dopodiché Pirandello se la prende anche con la «gogna» mediatica, con i giornali «sfognati dalle officine del ricatto». Ma, pur in un contesto di assai più ampio respiro — i Fasci siciliani, la sua isola «terra di conquista», la «pioggia di benefizii» all’Italia settentrionale, i giovani giunti ad assumere un ruolo pubblico a «vendemmia già fatta» — è più ciò che accomuna il romanzo a tutti gli altri coevi, di ciò che lo rende diverso.
Il racconto pirandelliano, secondo la Bertoni, è stato spesso ritenuto «più originale di quanto sia davvero», semplicemente perché è più conosciuto. Ma in realtà l’autore de I vecchi e i giovani , sempre secondo la Bertoni, non fa che «esacerbare il compianto sulle speranze risorgimentali naufragate e lo scetticismo sul regime parlamentare in cui ci siamo imbattuti spesso; e rimette in gioco un repertorio di giudizi e topoi ormai avvizzito». Addirittura uno dei suoi personaggi principali di fronte alla prospettiva di candidarsi al Parlamento dichiara preferibile «affogarsi in una fogna». Il che sta a riprova che l’antipolitica ha origini molto più remote di quanto si pensi comunemente.

Repubblica 27.2.18
Carteggi
Camus e l’amore ai tempi della peste
di Bernardo Valli


Iniziata nel 1944, nella Parigi occupata dai nazisti, durerà fino al 4 gennaio del 1960 la storia fra il premio Nobel e l’attrice Maria Casarès Ora finalmente Gallimard pubblica in volume le loro centinaia di lettere
Lei diventerà una grande attrice, lui è già uno scrittore noto. Il primo incontro avviene nella Parigi occupata dai tedeschi, il 19 marzo 1944, quando lei, Maria Casarès, ha ventidue anni, e lui, Albert Camus, trentuno. Nel suo appartamento parigino di Quai des Grands-Augustins, affacciato sulla Senna, Michel Leiris, l’etnologo e poeta, ha invitato gli amici perché partecipino, ognuno con un ruolo, alla lettura di un testo teatrale, una farsa surrealista, di Pablo Picasso: Le desir attrapé par la queue (“Il desiderio acciuffato per la coda”).
Appeso a una parete, durante la riunione, c’è il ritratto di Max Jacob fatto da Picasso, grande amico del poeta e pittore morto alcuni giorni prima nel campo di concentramento di Drancy, dove attendeva di essere deportato a Auschwitz. L’animatore della riunione è Albert Camus: autore di teatro - Il Mito di Sisifo è già stato rappresentato - e di romanzi - Lo straniero è da due anni con successo nelle librerie. Gli interpreti-lettori del testo di Picasso sono Jean-Paul Sartre, Simone de Beauvoir, Jacques Lacan, Raymond Queneau, Pierre Reverdy, Georges Bataille, Jean-Louis Barrault, Madeleine Renaud. Insomma, quella sera ci sono la letteratura e il teatro parigini che, nonostante la Francia sia occupata dai nazisti e sottoposta alla censura, non hanno mai cessato di produrre libri e commedie. Le mosche di Sartre è stata rappresentata nel ’42, lo stesso anno in cui è stato pubblicato il saggio filosofico L’essere e il nulla. Albert Camus è emerso dall’ Algeria natale e quel giorno di marzo ha con sé il testo di Le malentendu, una commedia destinata al Teatro dei Mathurins nei prossimi mesi. Molti dei presenti hanno rapporti più o meno diretti con la Resistenza.
Camus scrive per il giornale clandestino Combat, del quale diventerà il redattore capo poche settimane dopo, nella Parigi liberata.
Sua moglie, Francine Faure , una brava pianista e matematica, è rimasta in Algeria, dove sono sbarcati gli americani. Non può raggiungere il marito nella Parigi in mano ai nazisti. Albert Camus non spezzerà mai il legame matrimoniale con lei, non abbandonerà la famiglia, ma questo non gli impedirà di essere un infaticabile homme à femmes. Ne aveva la fama da vivo ed è rimasta nel ricordo postumo. Era una vocazione, diranno gli amici. Una vocazione assecondata dalle donne che gradivano la sua compagnia.
Nella notte parigina di marzo il giovane scrittore non è sfuggito all’ attenzione di Maria Casarès. Né Maria Casarès è sfuggita a quella di Albert Camus. Prima di congedarsi lui le chiede di interpretare il ruolo principale in Le malentendu. Maria era di una bellezza singolare. Nata alla Coru?a, in Galizia, era la figlia di Santiago Casares Quiroga, presidente del consiglio nella Repubblica spagnola, esiliatosi in Francia nel ’36, durante la guerra civile. Maria era già un’attrice affermata a Parigi e non solo in teatro: Marcel Carné le aveva chiesto di partecipare a Les enfants du paradis e Robert Bresson a Les dames du Bois de Boulogne.
Con i suoi grandi occhi verdi osserva Camus e pensa che sia un attore. Soltanto quando lo sente leggere il testo della sua nuova commedia si accorge che è troppo esitante nel recitare, troppo prigioniero delle parole che pronuncia, per essere un compagno d’ arte. La colpisce invece il forte carattere. Sono le impressioni del primo incontro.
Due mesi e mezzo dopo l’ attrice e lo scrittore cominciano il romanzo epistolare (Correspondance 1944- 1959, 1.266 pagine, Gallimard) che a noi, degradati alle corrispondenze dell’ era informatica ( balbettanti e-mail sul computer e telegrafici sms sui cellulari), ci sembrano pagine di letteratura. E lo sono.
Tra Maria Casarès e Albert Camus scorre per quindici anni un fiume di parole e di sentimenti. Lei li definirà quelli di «un padre, un fratello, un amico, un amante, a volte di un figlio». Il rapporto cambia natura nelle 856 lettere, telegrammi, messaggi, tra il giugno ’44 e il dicembre ’59. A riesumare dopo più di mezzo secolo la storia d’ amore, di cui la corrispondenza è l’appassionato diario, è stata Catherine Camus, figlia di Francine e di Albert. Da Francine, la moglie, Albert ha avuto due gemelli, Catherine e Jean, mai abbandonati, nonostante la costellazione di donne che l’avvolge, e in cui Maria figura come “l’unica”. Se Catherine ha deciso di pubblicare le lettere del padre e dell’amante, quando erano morti entrambi, è perché hanno un valore letterario. Maria Casarès ha conservato la corrispondenza di Camus e l’ha consegnata a Catherine della quale, mancata Francine, la madre, era diventata amica.
Il 5 giugno del ’44, a tre settimane dalla prova generale di Le malentendu, Camus accompagna Maria Casarès in rue de la Tour d’Auvergne dove il regista Charles Dullin riunisce gli amici di Sartre e di Beauvoir . In La force de l’ age Beauvoir descriverà così Maria Casarèsquella sera: «Indossava un abito di Rochas a strisce violettes e mauves e aveva i capelli tirati indietro e raccolti sulla nuca; un riso un po’ stridente scopriva a tratti i denti bianchi, era molto bella».
Lui, Camus, abita rue Vaneau, in un appartamento affittatogli da André Gide: ed è là che, uscendo un po’ brilla dalla casa di Charles Dullin, la coppia si dirige in bicicletta, Maria seduta sul manubrio. Così comincia la storia tra l’ attrice e lo scrittore, nelle ore in cui la flotta anglo- americana si avvicina alla costa normanna, dove sbarca il 6 giugno. Il rapporto si interrompe però molto presto.
Nell’attesa che Parigi sia liberata Camus si rifugia dal filosofo Brice Parain a Verdelot, nella Senna e Marna per sfuggire alla polizia collaborazionista francese che ha scoperto la sua attività clandestina. Da quel luogo di campagna, dove cura anche la tubercolosi di cui soffrirà tutta la vita, chiede invano a Maria di raggiungerlo. E in ottobre quando Francine, la moglie, può infine lasciare Orano e raggiungere Parigi liberata, Maria interrompe bruscamente ogni rapporto.
«Da qualsiasi parte mi giro vedo solo la notte… Senza di te non ho più la mia forza. Credo di avere voglia di morire», scrive Albert Camus all’ attrice. Ma la rottura, per volontà di lei, dura quattro anni. Nel frattempo lui continua a scrivere. La peste esce nel ’47. Dieci anni dopo contribuirà a fargli avere il Nobel. Gli amanti si ritrovano il 6 giugno del ’48. Si incontrano per caso in Boulevard Saint Germain a Parigi e il loro rapporto riprende per sempre, fino a quando, il 4 gennaio 1960, lui muore in un incidente d’auto. La Facel Vega guidata da Michel Gallimard, sulla quale viaggia, si schianta contro un platano, a Sud di Fontainebleau. In tasca Albert Camus ha il manoscritto del romanzo, Il primo uomo, che sta scrivendo e così resta incompiuto. Il 30 dicembre ha spedito due lettere: una a Maria Casarès, l’amante “unica”, e una a Catherine Sellers, un’altra celebre attrice sua amante del momento.
Alle due donne dice che è “l’ultima lettera”, riferendosi all’anno che finisce ed anche al suo imminente arrivo a Parigi. A Maria e a Cathherine propone un appuntamento martedì, lo stesso giorno. Le due lettere saranno le ultime della sua vita.
Nel Primo uomo Camus, alias Jacques Cormery, parte alla ricerca del padre morto in guerra nel 1914.
È un’ autobiografia interrotta dalla morte in cui la figura della madre, Catherine, nata Sintes, occupa un posto particolare. Camus l’ adora. È la donna che ha amato di più. È una spagnola, semisorda e analfabeta, che, rimasta vedova del marito operaio, sopravvive e mantiene la famiglia facendo la donna di servizio. Camus ha il culto della madre. La descrive intenta a fare il bucato o a lavare i pavimenti. La trova bella, sensibile, generosa, e occuperà sempre un posto privilegiato. Il suo ricordo sarà all’origine del rispetto con cui tratta le donne che lo accompagnano, che lo circondano, che incontra nei teatri, sua grande passione fin da giovane, quando è un giornalista e per un breve periodo un comunista militante in Algeria, e già creatore di spettacoli. Dopo la fase passionale del nuovo incontro, quattro anni dopo la rottura, Albert Camus e Maria Casarès stentano, faticano a vivere «un amore tanto lacerato e al tempo stesso imposto». Lei non nasconde la sofferenza che le infliggono le sue menzogne. Ha sognato una vita con lui e le costa rinunciarvi. Lui descrive a volte la sua vita di famiglia, la neurastenia della moglie e dei figli. Per quindici anni lei gli fa una cronaca accurata della vita teatrale, comprese le indiscrezioni sui compagni di lavoro. I momenti di depressione si alternano. I due amanti si rincuorano a vicenda. Sono spesso separati, in giro per il mondo, lei nei teatri di vari continenti, lui nei luoghi in cui può curare la tubercolosi. Lui le consiglia le letture: Tolstoj, la corrispondenza di Dostoevskij, Steinbeck, Il negro del Narciso di Conrad, Le memorie del cardinale di Retz … Camus si abbandona a confidenze sulle angosce, sui dubbi che contraddicono la sua immagine pubblica e la retorica dei suoi testi politici. Il romanzo epistolare rivela un Camus che non sacrifica la famiglia né attenua la passione per la sua opera letteraria né rinuncia alle tante relazioni femminili che ritmano la sua esistenza, nonostante l’ amore “unico” per Maria Casares. Lei, diventata una delle più grandi attrici francesi dell’ epoca, vive il rapporto con maggior chiarezza, apertamente, senza dissimulare la gelosia che sa dominare con una generosa, sofferta comprensione.