lunedì 19 febbraio 2018

internazionale 18.2.2018
Gli interessi di Pechino in Suriname
Nell’ex colonia olandese un decimo della popolazione è di origine cinese. Ormai sono gli imprenditori asiatici a gestire la sua economia. E il governo sta a guardare
di Thomas Fischermann, Die Zeit, Germania.


Per affrontare il caldo di mezzogiorno in Suriname, mister Ma apre un parasole coloratissimo. “Non mi abituerò mai a queste temperature”, dice quasi scusandosi. Pochi secondi dopo, però, l’aria soffocante dei tropici sembra non dargli più fastidio: ondeggiando sui gradini di cemento ancora fresco, l’uomo raggiunge la banchina del porto a passo sostenuto. Ci sono file di pescherecci arrugginiti e un equipaggio composto da indonesiani, malesiani e filippini che lava le navi e stende i panni appena lavati. Accanto si sente il rumore di una betoniera mentre gli operai trasportano del materiale edile. “Qui sto investendo 30 milioni di dollari”, dice mister Ma tirando fuori il suo biglietto da visita. Si chiama Ma Hsing Jui, ha 59 anni ed è l’amministratore delegato della società per azioni Surinam Sea Catch. È un grande esportatore, investitore e re delle pescherie del Suriname. Sul biglietto da visita tuttavia c’è scritto solo “Mister Ma”. Trent’anni fa si spostò dai dintorni di Hong Kong a questo piccolo paese tropicale. Fu uno dei primi. Negli ultimi anni altri cinesi come lui, imprenditori entusiasti con poca pazienza e molti progetti, hanno conquistato uno dopo l’altro i settori chiave dell’economia in America Centrale e in America Latina. Hanno sfruttato la crisi economica per rilevare aziende già esistenti e fondarne di nuove. Si sono assicurati l’accesso alle materie prime di cui la Cina ha bisogno: grano, legname, diamanti, petrolio oppure – come nel caso di Ma – pesce surgelato. Hanno potuto contare sul sostegno di Pechino e delle reti ben organizzate degli imprenditori e dei finanzieri cinesi. Ora gli affari gli vanno a gonfie vele: la stagnazione è finita e molte materie prime stanno riacquistando valore. Molte posizioni importanti sono occupate da cinesi. “Qui davanti, proprio sull’acqua, costruiremo la fabbrica del ghiaccio”, dice mister Ma. Ci conduce attraverso i capannoni dalle pesanti porte d’acciaio, dove si lavorano gamberi e pesci per l’esportazione. I piani in acciaio sono pulitissimi. “Abbiamo la certificazione di molte autorità sanitarie internazionali”, dice con orgoglio. Duecento tonnellate di gamberetti all’anno, 2.500 tonnellate di pesce, e questo è solo uno degli stabilimenti che possiede. Siccome è un imprenditore modello, mister Ma ha ricevuto addirittura la visita del ministro dell’economia, che gli ha chiesto come ha fatto a mettere in piedi in quattro e quattr’otto una fabbrica esemplare dopo l’altra e a partecipare anche ai lavori per l’espansione del porto. “Mi sono rivolto a ditte edili cinesi”, risponde ridendo. Poi si fa serio e dice: “Mi sono formato a Shenzhen, una delle scuole per imprenditori più dure del mondo. E lì ho imparato che il tempo è denaro! Bisogna mettere a frutto ogni minuto”.
Un gioco da ragazzi
In Suriname, un’ex colonia dei Paesi Bassi, i risultati degli investimenti di Pechino sono evidenti. Gli immigrati cinesi c’erano già un secolo fa: all’epoca la forza lavoro asiatica che s’imbarcava per i tropici era impiegata per realizzare grandi opere edili. La nuova ondata d’imprenditori, che da qualche anno arriva in Suriname, ha obiettivi imprenditoriali ambiziosi e la benedizione di Pechino. Dal piano quinquennale del 2015 si deduce l’interesse strategico del Partito comunista per l’America Latina: il governo cinese vorrebbe investire 250 miliardi di dollari nella regione, soprattutto in materie prime e nelle infrastrutture. In quasi tutti i paesi i cinesi hanno preso accordi per realizzare progetti in parte sorprendenti: un canale in Nicaragua, che sulla carta dovrebbe fare concorrenza a quello di Panamá, e una linea ferroviaria dal Perù al Brasile. Dappertutto si discute di nuove miniere, impianti per l’estrazione del petrolio, canali, porti e strade da costruire impiegando lavoratori e aziende edili cinesi. Finora molte delle grandi opere sono rimaste lettera morta, ma dalla Terra del fuoco al golfo del Messico gli immigrati cinesi sono in aumento. Secondo le statistiche ufficiali, in Suriname il 10 per cento della popolazione è di origine cinese. “Per i cinesi, il nostro paese è il più accogliente di tutta la regione”, afferma Jim Bousaid. Bousaid dirige la Hakrinbank, una delle tre maggiori banche del Suriname. Il suo ufficio si trova nella capitale Paramaribo. Chino su una scrivania enorme, il manager si liscia le maniche della camicia e intanto racconta la storia della famiglia: “Sono discendente di immigrati libanesi, ma ho anche un antenato cinese”. Il nonno, un cinese hakka, arrivò nei tropici durante una delle prime ondate migratorie, alla fine dell’ottocento. Dalla finestra di Bousaid si vede tutta la città: gli edifici di legno costruiti dai colonizzatori olandesi, considerati oggi patrimonio storico e artistico, un groviglio di palazzoni tirati su in fretta, zone commerciali, alberghi e casinò con insegne luminose e colorate. Ancora più in lontananza ci sono i quartieri riservati agli alti funzionari e ai diplomatici: ville di lusso e vaste tenute. La metà degli abitanti del Suriname (più di 500mila persone) vive a Paramaribo, sulla costa. Le regioni interne, invece, sono coperte dalla foresta amazzonica e quasi disabitate. Dal punto di vista di chi lavora nel settore delle materie prime, quelle zone sono piene di tesori da scoprire: legno, oro, diamanti, bauxite e potenziali terreni agricoli. “I cinesi hanno rapporti ottimi con il governo, e anche con noi”, dice Bousaid. Poi aggiunge: “Sono stato la prima persona che il nuovo ambasciatore cinese in Suriname ha voluto incontrare. Per gli imprenditori cinesi la banca è molto importante”. Il banchiere comincia a rovistare tra le sue carte e poi sventola due biglietti per il prossimo festival del cinema cinese in città. Secondo lui, senza cinesi non si muoverebbe niente nel paese: sono gli unici a cui si può fare credito senza timori. Il discorso vale anche per l’ambizioso mister Ma, con i suoi progetti costosi. È così preso dal suo lavoro che si presenta nell’ufficio del banchiere alle ore più inopportune. Invece alcuni surinamesi e gli immigrati indiani si lamentano delle banche del paese, che non concedono prestiti. Bousaid dice che deve attenersi ai fatti: “La maggior parte della gente non capisce quanto siano efficienti i cinesi”. Bousaid sa perché in Suriname ne arrivano tanti: per loro è un gioco da ragazzi fare soldi quaggiù, a differenza della Cina dove le materie prime sono più scarse e la concorrenza sui mercati è più agguerrita. “Gli imprenditori cinesi non si fanno problemi a pagare qualche mazzetta per mandare avanti gli affari”, dice Bousaid abbassando la voce. “E ai funzionari piace fare affari con i cinesi”. Questo lato oscuro degli affari è un segreto di Pulcinella, qui come in molti altri paesi dell’America Centrale e dei Caraibi.
“Si portano via il nostro oro e le nostre risorse”, afferma un’ex deputata che ha chiesto di restare anonima. Alcuni anni fa si è dimessa da tutte le cariche politiche in segno di protesta contro la corruzione. “Il governo lascia correre, perché i politici sono i primi a guadagnarci”, dice. Ha visto con i suoi occhi come funzionano le cose, che si tratti di costruire strade, abbattere alberi o estrarre minerali. I controlli sono pochi e tutto si svolge in zone isolate e poco abitate. Ovunque si pagano tangenti. Gli alti funzionari e gli esponenti del governo hanno le mani in pasta dappertutto. “Ma nessuno parla”, dice l’ex deputata, una dei pochi rappresentanti della politica surinamese ad accettare di parlare con Die zeit.
Aiuto in tempo di crisi
Tuttavia i nomi dei politici surinamesi dalla reputazione poco raccomandabile sono noti, a cominciare dal presidente Desiré Delano Bouterse. Ex militare, 72 anni, è stato anche dittatore del Suriname e oggi è ricercato dall’Interpol per traffico di droga. Inoltre, un tribunale del paese sta tentando di condannarlo per l’uccisione di 15 oppositori politici. Il figlio, Dino Bouterse, è detenuto in una prigione statunitense per traffico di droga ed è accusato di traffico d’armi e terrorismo. Per la polizia internazionale e le società di consulenza nel settore della sicurezza in Suriname sono diffusi il narcotraffico, il riciclaggio, la corruzione e altre attività illegali. La concessione di licenze per le attività legali, poi, è talmente poco trasparente che l’economista e consulente del governo Winston Ramautarsing sostiene: “Sono i ministri a decidere chi sarà milionario”. Il governo cinese è presente a Paramaribo con un’ambasciata arredata in maniera sfarzosa e uffici di rappresentanza di diversi enti. Si riconoscono dai muri di filo spinato e dai lampioncini rossi. I diplomatici cinesi fanno molti sforzi per tenere alto l’umore dei ministri del Suriname. Hanno concesso crediti a condizioni di favore al governo, anche quando il paese era in crisi: nel 2016 l’economia ha avuto un calo superiore al 10 per cento, nel 2017 la situazione sembra in ripresa. Da parte sua, il governo ha apprezzato che gli imprenditori cinesi abbiano continuato a investire costruendo centinaia di alloggi popolari e di strade, e finanziando un nuovo edificio per l’aeroporto. Hanno equipaggiato i militari con i veicoli migliori e hanno fornito al ministero degli esteri una sede nuova di zecca. Alcuni, come i proprietari dei supermercati, hanno chiuso temporaneamente i loro negozi per trasferirsi nella vicina Guyana Francese, ma l’arrivo di nuovi investitori cinesi e il loro impegno nel settore delle materie prime è in continua crescita. Negli ultimi anni è successo anche in altri paesi della regione. Il Venezuela, per esempio, che economicamente e politicamente è vicino al collasso, sopravvive sostanzialmente grazie ai crediti concessi dai cinesi. In cambio, questi si assicurano importanti diritti sul petrolio di Caracas. Gli esperti di economia dei paesi coinvolti, però, avvertono che i cinesi stanno facendo riemergere un problema che si credeva ormai archiviato: la maledizione delle materie prime. Negli anni ottanta più della metà delle esportazioni dall’America Centrale e Latina era costituita da materie prime quasi del tutto grezze. Negli anni novanta la quota si era ridotta a meno del 30 per cento, un dato positivo per lo sviluppo dell’industria locale e per l’aumento dell’occupazione. Oggi, però, la situazione è di nuovo quella di un tempo e questo in parte è dovuto alla dipendenza dai cinesi. In Suriname i timidi tentativi del governo di far nascere nuovi e più redditizi rami dell’economia vanno a vuoto. I titolari delle segherie e i produttori di mobili, per esempio, si lamentano perché non ottengono crediti per modernizzare le fabbriche né materie prime per le loro attività. Il paese si riempie di aziende cinesi, che comprano legno per esportare all’estero i tronchi non lavorati. Il 60 per cento del legno grezzo finisce in Cina, dove una classe media in crescita è disposta a pagare molto, almeno secondo gli standard del Suriname, per avere il parquet. Ogni tanto il governo di Paramaribo annuncia che limiterà l’esportazione di tronchi grezzi, isserà delle quote e alzerà le tasse sulle esportazioni, per proteggere l’ambiente e gli imprenditori locali. Però ci vuole poco perché questi provvedimenti siano rimandati, ammorbiditi o addirittura cancellati dal programma di governo. D’altra parte gli alberi della foresta vengono abbattuti senza controllo. Al momento l’autorità statale incaricata di proteggere l’Amazzonia surinamese non ha un direttore generale. Per i cinesi è una situazione ideale: comprano le materie prime di cui hanno bisogno a costi contenuti e riforniscono il Suriname e gli altri paesi latinoamericani di prodotti industriali a basso costo, gli stessi da cui proteggono i propri mercati con dazi e altre barriere. Il generoso contributo alla costruzione di strade e porti in Sudamerica rende il trasporto delle materie prime sempre più economico.
In Cina il boom edilizio degli ultimi decenni si sta esaurendo, quindi le aziende edili hanno risorse in eccesso. Negli ultimi anni Pechino ha sfruttato la crescente dipendenza dei paesi partner per chiedere favori politici. Per esempio isolando sempre di più Taiwan dal punto di vista diplomatico. In generale, lavora alla costruzione di un ordine mondiale meno incentrato sugli Stati uniti. Nessuno ha ritenuto casuale che nel 2016, poco dopo l’elezione di Donald Trump negli Stati uniti, il presidente cinese Xi Jinping sia partito per un viaggio in America Latina.
L’ammissione
Per ora in Suriname nessun politico o funzionario di governo protesta in modo ufficiale contro l’avanzata dei cinesi. Fa eccezione Paul de Baas, direttore di una clinica e consigliere d’amministrazione della camera di commercio: “Mandano gente in avanscoperta per conquistarci”, dice. Poi si lascia andare a un’invettiva sul traffico di esseri umani, di operai a basso costo e di prostitute. Racconta del gioco d’azzardo illegale che si svolge nella penombra dei piani superiori dei ristoranti cinesi. In parte è vero, queste cose succedono, ma non si conoscono i dettagli. I cinesi sono un decimo della popolazione del Suriname, eppure vivono soprattutto tra loro. Hanno 17 associazioni, un club sportivo, una rete tv che trasmette in mandarino e un quotidiano. Hanno anche una scuola, un bar karaoke e locali notturni esclusivi dove gli stranieri di solito non entrano. I conflitti più intensi tra le diverse culture nascono ogni volta che c’è una sparatoria. Di tanto in tanto i commercianti cinesi subiscono delle rapine, perciò girano armati e sotto la giacca portano fondine con piccole armi da fuoco. Lo fanno tutti, dal grande imprenditore dell’industria della pesca fino al direttore di filiale di un supermercato cinese. Ogni due o tre settimane qualcuno si prende una pallottola e muore, e ogni volta sale la tensione tra le varie etnie. Anche de Baas, l’oppositore dei cinesi in camera di commercio, al termine del nostro incontro ammette che, senza gli ospiti venuti dal lontano oriente, l’economia del Suriname sarebbe stagnante. “Riescono a scovare le occasioni per fare affari ovunque”, dice. Hanno costruito strade negli angoli più remoti del paese e lì hanno aperto negozi, ristoranti e perino stazioni di rifornimento galleggianti sui fiumi. Oggi un terzo dei 30mila imprenditori del Suriname è iscritto alla camera di commercio cinese. Alla fine De Baas confessa che anche lui possiede un pezzetto di terra nella foresta amazzonica. una concessione, ossia una superficie su cui è consentito disboscare. “L’ho affittata a un cinese che commercia in legname e ci guadagno molto”, dice.