internazionale 18.2.2018
Gli interessi di Pechino in Suriname
Nell’ex
colonia olandese un decimo della popolazione è di origine cinese. Ormai
sono gli imprenditori asiatici a gestire la sua economia. E il governo
sta a guardare
di Thomas Fischermann, Die Zeit, Germania.
Per
affrontare il caldo di mezzogiorno in Suriname, mister Ma apre un
parasole coloratissimo. “Non mi abituerò mai a queste temperature”, dice
quasi scusandosi. Pochi secondi dopo, però, l’aria soffocante dei
tropici sembra non dargli più fastidio: ondeggiando sui gradini di
cemento ancora fresco, l’uomo raggiunge la banchina del porto a passo
sostenuto. Ci sono file di pescherecci arrugginiti e un equipaggio
composto da indonesiani, malesiani e filippini che lava le navi e stende
i panni appena lavati. Accanto si sente il rumore di una betoniera
mentre gli operai trasportano del materiale edile. “Qui sto investendo
30 milioni di dollari”, dice mister Ma tirando fuori il suo biglietto da
visita. Si chiama Ma Hsing Jui, ha 59 anni ed è l’amministratore
delegato della società per azioni Surinam Sea Catch. È un grande
esportatore, investitore e re delle pescherie del Suriname. Sul
biglietto da visita tuttavia c’è scritto solo “Mister Ma”. Trent’anni fa
si spostò dai dintorni di Hong Kong a questo piccolo paese tropicale.
Fu uno dei primi. Negli ultimi anni altri cinesi come lui, imprenditori
entusiasti con poca pazienza e molti progetti, hanno conquistato uno
dopo l’altro i settori chiave dell’economia in America Centrale e in
America Latina. Hanno sfruttato la crisi economica per rilevare aziende
già esistenti e fondarne di nuove. Si sono assicurati l’accesso alle
materie prime di cui la Cina ha bisogno: grano, legname, diamanti,
petrolio oppure – come nel caso di Ma – pesce surgelato. Hanno potuto
contare sul sostegno di Pechino e delle reti ben organizzate degli
imprenditori e dei finanzieri cinesi. Ora gli affari gli vanno a gonfie
vele: la stagnazione è finita e molte materie prime stanno riacquistando
valore. Molte posizioni importanti sono occupate da cinesi. “Qui
davanti, proprio sull’acqua, costruiremo la fabbrica del ghiaccio”, dice
mister Ma. Ci conduce attraverso i capannoni dalle pesanti porte
d’acciaio, dove si lavorano gamberi e pesci per l’esportazione. I piani
in acciaio sono pulitissimi. “Abbiamo la certificazione di molte
autorità sanitarie internazionali”, dice con orgoglio. Duecento
tonnellate di gamberetti all’anno, 2.500 tonnellate di pesce, e questo è
solo uno degli stabilimenti che possiede. Siccome è un imprenditore
modello, mister Ma ha ricevuto addirittura la visita del ministro
dell’economia, che gli ha chiesto come ha fatto a mettere in piedi in
quattro e quattr’otto una fabbrica esemplare dopo l’altra e a
partecipare anche ai lavori per l’espansione del porto. “Mi sono rivolto
a ditte edili cinesi”, risponde ridendo. Poi si fa serio e dice: “Mi
sono formato a Shenzhen, una delle scuole per imprenditori più dure del
mondo. E lì ho imparato che il tempo è denaro! Bisogna mettere a frutto
ogni minuto”.
Un gioco da ragazzi
In Suriname, un’ex
colonia dei Paesi Bassi, i risultati degli investimenti di Pechino sono
evidenti. Gli immigrati cinesi c’erano già un secolo fa: all’epoca la
forza lavoro asiatica che s’imbarcava per i tropici era impiegata per
realizzare grandi opere edili. La nuova ondata d’imprenditori, che da
qualche anno arriva in Suriname, ha obiettivi imprenditoriali ambiziosi e
la benedizione di Pechino. Dal piano quinquennale del 2015 si deduce
l’interesse strategico del Partito comunista per l’America Latina: il
governo cinese vorrebbe investire 250 miliardi di dollari nella regione,
soprattutto in materie prime e nelle infrastrutture. In quasi tutti i
paesi i cinesi hanno preso accordi per realizzare progetti in parte
sorprendenti: un canale in Nicaragua, che sulla carta dovrebbe fare
concorrenza a quello di Panamá, e una linea ferroviaria dal Perù al
Brasile. Dappertutto si discute di nuove miniere, impianti per
l’estrazione del petrolio, canali, porti e strade da costruire
impiegando lavoratori e aziende edili cinesi. Finora molte delle grandi
opere sono rimaste lettera morta, ma dalla Terra del fuoco al golfo del
Messico gli immigrati cinesi sono in aumento. Secondo le statistiche
ufficiali, in Suriname il 10 per cento della popolazione è di origine
cinese. “Per i cinesi, il nostro paese è il più accogliente di tutta la
regione”, afferma Jim Bousaid. Bousaid dirige la Hakrinbank, una delle
tre maggiori banche del Suriname. Il suo ufficio si trova nella capitale
Paramaribo. Chino su una scrivania enorme, il manager si liscia le
maniche della camicia e intanto racconta la storia della famiglia: “Sono
discendente di immigrati libanesi, ma ho anche un antenato cinese”. Il
nonno, un cinese hakka, arrivò nei tropici durante una delle prime
ondate migratorie, alla fine dell’ottocento. Dalla finestra di Bousaid
si vede tutta la città: gli edifici di legno costruiti dai colonizzatori
olandesi, considerati oggi patrimonio storico e artistico, un groviglio
di palazzoni tirati su in fretta, zone commerciali, alberghi e casinò
con insegne luminose e colorate. Ancora più in lontananza ci sono i
quartieri riservati agli alti funzionari e ai diplomatici: ville di
lusso e vaste tenute. La metà degli abitanti del Suriname (più di
500mila persone) vive a Paramaribo, sulla costa. Le regioni interne,
invece, sono coperte dalla foresta amazzonica e quasi disabitate. Dal
punto di vista di chi lavora nel settore delle materie prime, quelle
zone sono piene di tesori da scoprire: legno, oro, diamanti, bauxite e
potenziali terreni agricoli. “I cinesi hanno rapporti ottimi con il
governo, e anche con noi”, dice Bousaid. Poi aggiunge: “Sono stato la
prima persona che il nuovo ambasciatore cinese in Suriname ha voluto
incontrare. Per gli imprenditori cinesi la banca è molto importante”. Il
banchiere comincia a rovistare tra le sue carte e poi sventola due
biglietti per il prossimo festival del cinema cinese in città. Secondo
lui, senza cinesi non si muoverebbe niente nel paese: sono gli unici a
cui si può fare credito senza timori. Il discorso vale anche per
l’ambizioso mister Ma, con i suoi progetti costosi. È così preso dal suo
lavoro che si presenta nell’ufficio del banchiere alle ore più
inopportune. Invece alcuni surinamesi e gli immigrati indiani si
lamentano delle banche del paese, che non concedono prestiti. Bousaid
dice che deve attenersi ai fatti: “La maggior parte della gente non
capisce quanto siano efficienti i cinesi”. Bousaid sa perché in Suriname
ne arrivano tanti: per loro è un gioco da ragazzi fare soldi quaggiù, a
differenza della Cina dove le materie prime sono più scarse e la
concorrenza sui mercati è più agguerrita. “Gli imprenditori cinesi non
si fanno problemi a pagare qualche mazzetta per mandare avanti gli
affari”, dice Bousaid abbassando la voce. “E ai funzionari piace fare
affari con i cinesi”. Questo lato oscuro degli affari è un segreto di
Pulcinella, qui come in molti altri paesi dell’America Centrale e dei
Caraibi.
“Si portano via il nostro oro e le nostre risorse”,
afferma un’ex deputata che ha chiesto di restare anonima. Alcuni anni fa
si è dimessa da tutte le cariche politiche in segno di protesta contro
la corruzione. “Il governo lascia correre, perché i politici sono i
primi a guadagnarci”, dice. Ha visto con i suoi occhi come funzionano le
cose, che si tratti di costruire strade, abbattere alberi o estrarre
minerali. I controlli sono pochi e tutto si svolge in zone isolate e
poco abitate. Ovunque si pagano tangenti. Gli alti funzionari e gli
esponenti del governo hanno le mani in pasta dappertutto. “Ma nessuno
parla”, dice l’ex deputata, una dei pochi rappresentanti della politica
surinamese ad accettare di parlare con Die zeit.
Aiuto in tempo di crisi
Tuttavia
i nomi dei politici surinamesi dalla reputazione poco raccomandabile
sono noti, a cominciare dal presidente Desiré Delano Bouterse. Ex
militare, 72 anni, è stato anche dittatore del Suriname e oggi è
ricercato dall’Interpol per traffico di droga. Inoltre, un tribunale del
paese sta tentando di condannarlo per l’uccisione di 15 oppositori
politici. Il figlio, Dino Bouterse, è detenuto in una prigione
statunitense per traffico di droga ed è accusato di traffico d’armi e
terrorismo. Per la polizia internazionale e le società di consulenza nel
settore della sicurezza in Suriname sono diffusi il narcotraffico, il
riciclaggio, la corruzione e altre attività illegali. La concessione di
licenze per le attività legali, poi, è talmente poco trasparente che
l’economista e consulente del governo Winston Ramautarsing sostiene:
“Sono i ministri a decidere chi sarà milionario”. Il governo cinese è
presente a Paramaribo con un’ambasciata arredata in maniera sfarzosa e
uffici di rappresentanza di diversi enti. Si riconoscono dai muri di
filo spinato e dai lampioncini rossi. I diplomatici cinesi fanno molti
sforzi per tenere alto l’umore dei ministri del Suriname. Hanno concesso
crediti a condizioni di favore al governo, anche quando il paese era in
crisi: nel 2016 l’economia ha avuto un calo superiore al 10 per cento,
nel 2017 la situazione sembra in ripresa. Da parte sua, il governo ha
apprezzato che gli imprenditori cinesi abbiano continuato a investire
costruendo centinaia di alloggi popolari e di strade, e finanziando un
nuovo edificio per l’aeroporto. Hanno equipaggiato i militari con i
veicoli migliori e hanno fornito al ministero degli esteri una sede
nuova di zecca. Alcuni, come i proprietari dei supermercati, hanno
chiuso temporaneamente i loro negozi per trasferirsi nella vicina Guyana
Francese, ma l’arrivo di nuovi investitori cinesi e il loro impegno nel
settore delle materie prime è in continua crescita. Negli ultimi anni è
successo anche in altri paesi della regione. Il Venezuela, per esempio,
che economicamente e politicamente è vicino al collasso, sopravvive
sostanzialmente grazie ai crediti concessi dai cinesi. In cambio, questi
si assicurano importanti diritti sul petrolio di Caracas. Gli esperti
di economia dei paesi coinvolti, però, avvertono che i cinesi stanno
facendo riemergere un problema che si credeva ormai archiviato: la
maledizione delle materie prime. Negli anni ottanta più della metà delle
esportazioni dall’America Centrale e Latina era costituita da materie
prime quasi del tutto grezze. Negli anni novanta la quota si era ridotta
a meno del 30 per cento, un dato positivo per lo sviluppo
dell’industria locale e per l’aumento dell’occupazione. Oggi, però, la
situazione è di nuovo quella di un tempo e questo in parte è dovuto alla
dipendenza dai cinesi. In Suriname i timidi tentativi del governo di
far nascere nuovi e più redditizi rami dell’economia vanno a vuoto. I
titolari delle segherie e i produttori di mobili, per esempio, si
lamentano perché non ottengono crediti per modernizzare le fabbriche né
materie prime per le loro attività. Il paese si riempie di aziende
cinesi, che comprano legno per esportare all’estero i tronchi non
lavorati. Il 60 per cento del legno grezzo finisce in Cina, dove una
classe media in crescita è disposta a pagare molto, almeno secondo gli
standard del Suriname, per avere il parquet. Ogni tanto il governo di
Paramaribo annuncia che limiterà l’esportazione di tronchi grezzi,
isserà delle quote e alzerà le tasse sulle esportazioni, per proteggere
l’ambiente e gli imprenditori locali. Però ci vuole poco perché questi
provvedimenti siano rimandati, ammorbiditi o addirittura cancellati dal
programma di governo. D’altra parte gli alberi della foresta vengono
abbattuti senza controllo. Al momento l’autorità statale incaricata di
proteggere l’Amazzonia surinamese non ha un direttore generale. Per i
cinesi è una situazione ideale: comprano le materie prime di cui hanno
bisogno a costi contenuti e riforniscono il Suriname e gli altri paesi
latinoamericani di prodotti industriali a basso costo, gli stessi da cui
proteggono i propri mercati con dazi e altre barriere. Il generoso
contributo alla costruzione di strade e porti in Sudamerica rende il
trasporto delle materie prime sempre più economico.
In Cina il
boom edilizio degli ultimi decenni si sta esaurendo, quindi le aziende
edili hanno risorse in eccesso. Negli ultimi anni Pechino ha sfruttato
la crescente dipendenza dei paesi partner per chiedere favori politici.
Per esempio isolando sempre di più Taiwan dal punto di vista
diplomatico. In generale, lavora alla costruzione di un ordine mondiale
meno incentrato sugli Stati uniti. Nessuno ha ritenuto casuale che nel
2016, poco dopo l’elezione di Donald Trump negli Stati uniti, il
presidente cinese Xi Jinping sia partito per un viaggio in America
Latina.
L’ammissione
Per ora in Suriname nessun politico o
funzionario di governo protesta in modo ufficiale contro l’avanzata dei
cinesi. Fa eccezione Paul de Baas, direttore di una clinica e
consigliere d’amministrazione della camera di commercio: “Mandano gente
in avanscoperta per conquistarci”, dice. Poi si lascia andare a
un’invettiva sul traffico di esseri umani, di operai a basso costo e di
prostitute. Racconta del gioco d’azzardo illegale che si svolge nella
penombra dei piani superiori dei ristoranti cinesi. In parte è vero,
queste cose succedono, ma non si conoscono i dettagli. I cinesi sono un
decimo della popolazione del Suriname, eppure vivono soprattutto tra
loro. Hanno 17 associazioni, un club sportivo, una rete tv che trasmette
in mandarino e un quotidiano. Hanno anche una scuola, un bar karaoke e
locali notturni esclusivi dove gli stranieri di solito non entrano. I
conflitti più intensi tra le diverse culture nascono ogni volta che c’è
una sparatoria. Di tanto in tanto i commercianti cinesi subiscono delle
rapine, perciò girano armati e sotto la giacca portano fondine con
piccole armi da fuoco. Lo fanno tutti, dal grande imprenditore
dell’industria della pesca fino al direttore di filiale di un
supermercato cinese. Ogni due o tre settimane qualcuno si prende una
pallottola e muore, e ogni volta sale la tensione tra le varie etnie.
Anche de Baas, l’oppositore dei cinesi in camera di commercio, al
termine del nostro incontro ammette che, senza gli ospiti venuti dal
lontano oriente, l’economia del Suriname sarebbe stagnante. “Riescono a
scovare le occasioni per fare affari ovunque”, dice. Hanno costruito
strade negli angoli più remoti del paese e lì hanno aperto negozi,
ristoranti e perino stazioni di rifornimento galleggianti sui fiumi.
Oggi un terzo dei 30mila imprenditori del Suriname è iscritto alla
camera di commercio cinese. Alla fine De Baas confessa che anche lui
possiede un pezzetto di terra nella foresta amazzonica. una concessione,
ossia una superficie su cui è consentito disboscare. “L’ho affittata a
un cinese che commercia in legname e ci guadagno molto”, dice.