lunedì 12 febbraio 2018

internazionale 10.2.2018
Le opinioni
Il movimento #MeToo è lontano dall’Africa
di Leïla Slimani


Com’erano belle con i loro abiti neri, i pugni alzati, il sorriso trionfante! Alla premiazione dei Golden globe le più grandi star del cinema mondiale si sono fatte portavoce della causa delle donne. In risposta allo scandalo di Harvey Weinstein, il produttore cinematografico accusato di stupro e molestie sessuali, le attrici hollywoodiane hanno creato un fondo che ha raccolto più di tredici milioni di dollari per sostenere le donne vittime di violenze. “Time’s up!”, tempo scaduto, hanno ribadito più volte, convinte di essere all’alba di una nuova era. Nel giro di poche settimane l’hashtag #MeToo, che invita le donne a denunciare gli abusi, si è diffuso in tutto il mondo, mettendo in luce una verità troppo a lungo negata: le molestie sessuali da parte degli uomini sono un fenomeno universale, a Hollywood o sulla sponde del Mediterraneo. La Svezia, considerata uno dei paesi più egualitari del mondo, è anche quella su cui l’ondata #MeToo si è abbattuta con più violenza. Attori, intellettuali e uomini comuni sono stati denunciati dalle loro vittime e il paese ha dovuto affrontare demoni che credeva di aver seppellito. Ma il movimento #MeToo è davvero un fenomeno mondiale? In Africa le denunce o le testimonianze pubbliche sono ancora molto rare. Questo vuol dire che gli uomini del continente non hanno nulla da rimproverarsi? E che a sud del Mediterraneo non c’è nemmeno un caso Weinstein? Secondo un rapporto della Banca mondiale pubblicato nel 2016, un terzo delle donne africane ha subìto violenze o stupri. Un’africana su due accetta la violenza coniugale come una fatalità. “Le molestie sono radicate nella società, per gli uomini nigeriani sono quasi un diritto. È quasi impossibile, addirittura inimmaginabile, per una donna sporgere denuncia”, ha scritto l’imprenditrice Faustina Anyanwu su Twitter. In Marocco la giornalista Fedwa Misk ha sottolineato divertita: “Per una donna in Marocco dire #MeToo è come dire che l’acqua è bagnata”. Tra il soffrire e il denunciare la sofferenza in pubblico, però, c’è un passo che la maggior parte delle donne non riesce a fare. Per l’artista senegalese Daba Makourejah “è il tabù su tutto quello che riguarda la sessualità” a rendere difficile una mobilitazione femminile di massa, anche attraverso i social network. La pressione sociale, il timore degli sguardi degli altri, la difficoltà delle donne a dichiararsi vittime senza essere screditate ostacolano la liberazione della parola e frenano la crescita del movimento. Nonostante il mondo arabo si sia schierato dietro la sua parola d’ordine, #anaKaman, nella regione non è nato un vero dibattito pubblico per denunciare gli aggressori. Il movimento è rimasto confinato tra le classi medie e alte. E i mezzi d’informazione non hanno dato risalto al fenomeno. In Egitto, dove quasi il 90 per cento delle donne afferma di aver subìto molestie e la capitale, Il Cairo, è al primo posto nella classifica della fondazione Thomson Reuters delle città più pericolose al mondo per le donne, #MeToo non ha attecchito. Il bello della cerimonia dei Golden globe è stato l’emergere di un concetto che fa sghignazzare i maschi alfa: la sorellanza. La risposta collettiva delle donne ha demolito il vecchio mito dell’impossibile amicizia femminile, secondo il quale le donne sono gelose e dispettose. Tuttavia quella messa in scena ha alimentato anche il sarcasmo: le grandi star di Hollywood possono parlare per tutte le donne? Il femminismo che difendono è un concetto puramente occidentale? Perché le donne africane dovrebbero identificarsi con le star bianche e ricche? Il relativismo ha sempre rallentato la lotta femminista. Nel suo testo Dovremmo essere tutti femministi la scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie racconta che, in occasione di una conferenza a Lagos, una professoressa le ha detto che il femminismo è una cosa per bianchi, estranea alla “cultura africana”. Secondo Adichie, nel continente africano il femminismo è considerato una questione da “donne infelici”. Come ha dimostrato l’antropologa Françoise Héritier, le donne non devono solo rispettare le tradizioni, ma anche esserne le custodi. Hérietier ha aggiunto che uno dei maggiori punti di forza del patriarcato è proprio la capacità di isolare le donne le une dalle altre e contrastare l’emergere di una loro risposta collettiva. Dire che la lotta per l’uguaglianza tra donne e uomini è una lotta universale, che trascende le religioni e le culture, significa rendere possibile questa risposta, riconoscere alle donne dei diritti inalienabili e restituirgli lo status di cittadine. A Hollywood come a Lagos, a Stoccolma come a Kinshasa, le donne devono poter rivendicare il loro diritto alla sicurezza, all’accesso alle cure mediche, all’istruzione, alla dignità. Non è ancora arrivata l’ora del femminismo universale. Per il momento i Weinstein africani possono dormire sonni tranquilli. Ma farebbero bene a stare in guardia. Le donne africane potrebbero urlare “Tempo scaduto” molto prima del previsto.