internazionale 10.2.2018
Le opinioni
Il movimento #MeToo è lontano dall’Africa
di Leïla Slimani
Com’erano
belle con i loro abiti neri, i pugni alzati, il sorriso trionfante!
Alla premiazione dei Golden globe le più grandi star del cinema mondiale
si sono fatte portavoce della causa delle donne. In risposta allo
scandalo di Harvey Weinstein, il produttore cinematografico accusato di
stupro e molestie sessuali, le attrici hollywoodiane hanno creato un
fondo che ha raccolto più di tredici milioni di dollari per sostenere le
donne vittime di violenze. “Time’s up!”, tempo scaduto, hanno ribadito
più volte, convinte di essere all’alba di una nuova era. Nel giro di
poche settimane l’hashtag #MeToo, che invita le donne a denunciare gli
abusi, si è diffuso in tutto il mondo, mettendo in luce una verità
troppo a lungo negata: le molestie sessuali da parte degli uomini sono
un fenomeno universale, a Hollywood o sulla sponde del Mediterraneo. La
Svezia, considerata uno dei paesi più egualitari del mondo, è anche
quella su cui l’ondata #MeToo si è abbattuta con più violenza. Attori,
intellettuali e uomini comuni sono stati denunciati dalle loro vittime e
il paese ha dovuto affrontare demoni che credeva di aver seppellito. Ma
il movimento #MeToo è davvero un fenomeno mondiale? In Africa le
denunce o le testimonianze pubbliche sono ancora molto rare. Questo vuol
dire che gli uomini del continente non hanno nulla da rimproverarsi? E
che a sud del Mediterraneo non c’è nemmeno un caso Weinstein? Secondo un
rapporto della Banca mondiale pubblicato nel 2016, un terzo delle donne
africane ha subìto violenze o stupri. Un’africana su due accetta la
violenza coniugale come una fatalità. “Le molestie sono radicate nella
società, per gli uomini nigeriani sono quasi un diritto. È quasi
impossibile, addirittura inimmaginabile, per una donna sporgere
denuncia”, ha scritto l’imprenditrice Faustina Anyanwu su Twitter. In
Marocco la giornalista Fedwa Misk ha sottolineato divertita: “Per una
donna in Marocco dire #MeToo è come dire che l’acqua è bagnata”. Tra il
soffrire e il denunciare la sofferenza in pubblico, però, c’è un passo
che la maggior parte delle donne non riesce a fare. Per l’artista
senegalese Daba Makourejah “è il tabù su tutto quello che riguarda la
sessualità” a rendere difficile una mobilitazione femminile di massa,
anche attraverso i social network. La pressione sociale, il timore degli
sguardi degli altri, la difficoltà delle donne a dichiararsi vittime
senza essere screditate ostacolano la liberazione della parola e frenano
la crescita del movimento. Nonostante il mondo arabo si sia schierato
dietro la sua parola d’ordine, #anaKaman, nella regione non è nato un
vero dibattito pubblico per denunciare gli aggressori. Il movimento è
rimasto confinato tra le classi medie e alte. E i mezzi d’informazione
non hanno dato risalto al fenomeno. In Egitto, dove quasi il 90 per
cento delle donne afferma di aver subìto molestie e la capitale, Il
Cairo, è al primo posto nella classifica della fondazione Thomson
Reuters delle città più pericolose al mondo per le donne, #MeToo non ha
attecchito. Il bello della cerimonia dei Golden globe è stato l’emergere
di un concetto che fa sghignazzare i maschi alfa: la sorellanza. La
risposta collettiva delle donne ha demolito il vecchio mito
dell’impossibile amicizia femminile, secondo il quale le donne sono
gelose e dispettose. Tuttavia quella messa in scena ha alimentato anche
il sarcasmo: le grandi star di Hollywood possono parlare per tutte le
donne? Il femminismo che difendono è un concetto puramente occidentale?
Perché le donne africane dovrebbero identificarsi con le star bianche e
ricche? Il relativismo ha sempre rallentato la lotta femminista. Nel suo
testo Dovremmo essere tutti femministi la scrittrice nigeriana
Chimamanda Ngozi Adichie racconta che, in occasione di una conferenza a
Lagos, una professoressa le ha detto che il femminismo è una cosa per
bianchi, estranea alla “cultura africana”. Secondo Adichie, nel
continente africano il femminismo è considerato una questione da “donne
infelici”. Come ha dimostrato l’antropologa Françoise Héritier, le donne
non devono solo rispettare le tradizioni, ma anche esserne le custodi.
Hérietier ha aggiunto che uno dei maggiori punti di forza del
patriarcato è proprio la capacità di isolare le donne le une dalle altre
e contrastare l’emergere di una loro risposta collettiva. Dire che la
lotta per l’uguaglianza tra donne e uomini è una lotta universale, che
trascende le religioni e le culture, significa rendere possibile questa
risposta, riconoscere alle donne dei diritti inalienabili e restituirgli
lo status di cittadine. A Hollywood come a Lagos, a Stoccolma come a
Kinshasa, le donne devono poter rivendicare il loro diritto alla
sicurezza, all’accesso alle cure mediche, all’istruzione, alla dignità.
Non è ancora arrivata l’ora del femminismo universale. Per il momento i
Weinstein africani possono dormire sonni tranquilli. Ma farebbero bene a
stare in guardia. Le donne africane potrebbero urlare “Tempo scaduto”
molto prima del previsto.