lunedì 12 febbraio 2018

internazionale 10.2.2018
Società
Dalla parte dei trentenni
Chi è nato tra il 1980 e il 2000 fa parte della generazione più istruita di sempre, quella dei millennial, ma ha salari e opportunità peggiori dei genitori. Una condizione accettata a causa di prospettive economiche sempre più incerte
di Casper Thomas, De Groene Amsterdammer, Paesi Bassi.


Qualcosa di strano sta succedendo ai giovani nati tra il 1980 e il 2000, i cosiddetti millennial. Si tratta della generazione più istruita di sempre. Nessun’altra nella storia ha ricevuto un’istruzione di livello così alto e ha potuto vantare tanti titoli di studio. Secondo la logica dell’economia della conoscenza, questa condizione dovrebbe garantire grandi vantaggi. Per esempio, salari alti, un lavoro stabile e benessere crescente. Ma alla prova dei fatti questi giovani sono messi peggio dei genitori e dei nonni. “Ogni tipo di autorità – dalle madri ai presidenti – ha raccomandato ai millennial di accumulare più capitale umano possibile”, scrive Malcom Harris nel libro Kids these days: human capital and the making of millennials. “E noi l’abbiamo fatto. Ma il mercato non ha rispettato la sua parte dell’accordo. Cos’è successo?”. Già, cos’è successo? Com’è possibile che anche nei Paesi Bassi la produttività del lavoro continui a crescere mentre il compenso medio di un lavoratore dipendente ristagna? La questione più difficile è capire chi intasca i guadagni extra. “Il numero di contratti a tempo indeterminato diminuisce a favore di altre tipologie di lavoro”. Questa è la spiegazione del Centraal bureau voor de statistiek (Cbs), l’istituto nazionale di statistica olandese. Per “altre tipologie di lavoro” s’intendono soprattutto impieghi pagati peggio e di natura temporanea. E a formare la legione di persone che hanno contratti flessibili sono in gran parte i giovani. Quasi un terzo dei lavoratori dipendenti sotto i 34 anni ha contratti di questo tipo. Nella fascia d’età superiore si scende al 10 per cento. I millennial sono la prima generazione da molto tempo a questa parte a essere più povera di quella precedente. Rispetto a quando erano giovani i loro genitori, i ventenni e trentenni di oggi devono fare mediamente i conti con salari che crescono di meno, con una minore capacità di accumulare patrimoni e con risparmi più scarsi per la pensione. Inoltre sono più indebitati. “Unlucky millennials”: così li ha definiti la banca svizzera Credit Suisse nel suo Global wealth report 2017. Quell’unlucky (sfortunati) è ancora più fastidioso se si pensa che i millennial sono più istruiti e lavorano più duramente delle generazioni precedenti (secondo l’istituto di statistica olandese, il numero di ore lavorate nei Paesi Bassi è salito del 16 per cento negli ultimi vent’anni), ma nonostante questo rischiano di finire più in basso nella scala economica. Il marketing ci presenta i millennial come talenti digitali per i quali tutto è possibile, ma i dati economici dicono che in realtà sono uno dei gruppi più sfruttati degli ultimi tempi. Quando si sollevano questioni di questo tipo, si tirano subito in ballo i problemi con cui devono fare i conti la società e l’economia. La crisi finanziaria, la robotizzazione, una globalizzazione che ha ridotto il benessere dell’occidente a favore del resto del mondo: fenomeni importanti, che rendono difficile mantenere lo stesso livello di ricchezza per tutti. Ma per un gruppo troppo giovane per aver avuto una qualche influenza sul mondo queste sono risposte poco soddisfacenti. Inoltre così si aggira la questione della responsabilità. Un ragazzo tra i venti e i quarant’anni deve sorbirsi una disquisizione di macroeconomia quando chiede perché l’esistenza borghese dei suoi genitori per lui sia fuori portata. In sostanza si sente dire questo: noi, le generazioni precedenti alla vostra, abbiamo creato un sistema che per noi ha funzionato molto bene; c’è stata una solida crescita economica da cui tutti hanno avuto benefici, e per chi restava indietro c’era un welfare generoso. Purtroppo, in entrambi i casi la pacchia è finita. Perché questo è un altro punto che i giovani devono accettare: un welfare che per molti aspetti è meno generoso rispetto al passato. Si può discutere a lungo del dovere di badare a se stessi e di un governo che non spende per il welfare più di quanto permetta il suo bilancio. Ma tra le generazioni c’è una sproporzione. Le pensioni ne sono un buon esempio. “Un giovane paga troppi contributi per la pensione che riceverà in futuro, chi è più in là con gli anni ne paga troppo pochi”, concludeva qualche anno fa il Centraal planbureau, l’ufficio centrale di pianificazione dei Paesi Bassi. Non era una novità. Già nel 2006 il Wetenschappelijke raad voor het regeringsbeleid (Wrr), un gruppo di studio del governo olandese sugli sviluppi futuri della società, aveva avvisato che il welfare era troppo sbilanciato a favore dei cittadini più anziani. Certamente ci sono anche anziani poveri e giovani ricchi, ma il risultato è un trasferimento di ricchezza da una generazione più povera a una più ricca.
Il peso del welfare
La colpa è in parte dei cambiamenti demografici. La crescita della popolazione rallenta dagli anni cinquanta. La conseguenza è che la fascia di popolazione tra i venti e i quarant’anni è la più esigua dalla seconda guerra mondiale. A questo punto bisogna chiedersi su chi vanno fatte ricadere le conseguenze economiche negative di questo fenomeno. Non sono stati i millennial a stabilire le dimensioni della loro generazione. Forse gli sarebbe piaciuto essere più numerosi, cosa che quanto meno avrebbe aiutato a distribuire il peso del welfare su qualche paio di spalle in più. Ma i loro genitori, che invece sono numerosi, hanno pensato che una media di 1,7 figli a coppia potesse bastare. Così la società attuale ha assunto l’aspetto di una carrozza su cui viaggiano le persone che hanno vissuto il momento di massimo splendore del benessere occidentale. La carrozza è trainata a fatica da un gruppo più esile e anche meno numeroso. Chi è fortunato viene ricompensato dai genitori. Una parte della ricchezza dei cosiddetti baby boomer (le persone nate tra il 1945 e il 1964 in Nordamerica e in Europa) riesce, attraverso i legami familiari, ad arrivare alle generazioni successive sotto forma di prestiti, donazioni ed eredità. Sono gesti molto generosi, e un giovane sarebbe un matto a non accettare, ma in questo modo i millennial ereditano una società con più disuguaglianze. Mentre i baby boomer hanno sperimentato un sistema meritocratico, i loro discendenti si ritrovano in un sistema in cui il premio del merito si mescola a una cospicua ricompensa da parte di genitori benestanti. Dal finestrino della carrozza arrivano nel frattempo consigli benevoli: fai del tuo meglio a scuola, investi su te stesso per poter percorrere il sentiero verso un futuro incerto con il bagaglio di conoscenze più ampio possibile. Tutti saggi consigli. È pur sempre l’unico modo per ottenere il massimo, in presenza di prospettive sempre meno rosee. Ma l’impoverimento collettivo causa spaccature interne. Per i millennial i loro coetanei sono soprattutto dei concorrenti diretti. Il mondo in cui i trentenni sono cresciuti non è caratterizzato solo da una maggiore disuguaglianza, ma anche da una lotta interna più dura. Futuro produttivo La conseguenza è una gara che chiede di dedicare molto tempo ad accumulare conoscenze e competenze. E bisogna cominciare a farlo il prima possibile, perché chi perde tempo viene punito. Se non ci si dedica abbastanza ad accrescere le proprie possibilità nel mondo del lavoro, si lascia spazio a qualcun altro che, facendolo, si sta avvantaggiando. Chi si domanda come mai i millennial siano così morigerati (escono meno, consumano meno droghe e alcol e fanno sesso più tardi, per citare qualche studio recente) ecco un accenno di risposta: i millennial sanno che vale la pena d’investire la maggior parte possibile del loro tempo in un futuro produttivo. In un certo senso abbiamo disimparato a pensare in termini di scontri generazionali. Una generazione di genitori coinvolta come mai prima nelle gioie e nei dolori dei propri figli e che coltiva con loro un legame amichevole non è in sintonia con l’idea del vecchio che sfrutta il giovane. Un’altra cosa che abbiamo disimparato è pensare in termini di sistemi economici che tengano conto di tutti. Si tratta probabilmente di una combinazione tra la convinzione incrollabile che ogni individuo sia capace di fare qualcosa della propria vita (e il conseguente dovere morale di farlo) e una certa avversione per le tinte marxiste delle politiche perseguite negli anni sessanta e settanta. In ogni caso i risultati economici raggiunti dalla società attuale non corrispondono spesso a un modello equilibrato di produzione, accumulo e ripartizione del capitale. Per fortuna c’è un millennial in grado di dare un contributo al dibattito con un’analisi del sistema economico in cui si mette in luce la lotta silenziosa tra generazioni. Kids these days di Harris è, a quanto mi risulta, la prima indagine strutturale del tipo di capitalismo in cui sono cresciuti i millennial. Mentre nell’epoca industriale dettavano i tempi il capitale materiale e monetario, scrive Harris, oggi è determinante il capitale umano. Accumulare conoscenze e competenze e farle fruttare in modo produttivo è il modello seguito dalle persone per provvedere al loro sostentamento e allo stesso tempo è il principale pilastro dell’economia. Non è di per sé una rivelazione, ma Harris mostra come funziona questo modello per la sua generazione: i ricavi dell’accresciuto capitale umano non vanno a chi lo possiede, altrimenti tutti questi millennial ben istruiti avrebbero una prospettiva di vita più favorevole e non un salario stagnante. Si tratta di marxismo applicato all’economia della conoscenza del ventunesimo secolo. Da questa prospettiva emerge qualcosa che non va. Prendiamo lo stage, l’inevitabile rito di passaggio nella vita lavorativa. Un periodo di apprendistato non pagato è considerato una preparazione importante al lavoro. Chi fa uno stage (di solito un giovane) riceve un favore (di solito da qualcuno più anziano): lavoro in cambio di esperienza, l’accordo è questo. Potrebbe sembrare un accordo che dà vantaggi a entrambe le parti, se non fosse che una delle due ha qualche vantaggio in più dell’altra. I datori di lavoro possono pagare parte dei loro dipendenti in esperienza e tenersi i soldi in tasca. Allo stesso tempo una generazione si offre gratuitamente per un futuro lavorativo in cui continuerà a far girare l’economia e pagare contributi e tasse. Di fatto i vecchi hanno tanto bisogno dei giovani quanto i giovani dei vecchi, ma nel mercato del lavoro si crede che questa relazione di dipendenza sia unilaterale. Gli stagisti hanno ancora tanto da imparare, dicono i più grandi. Devono essere accompagnati e il lavoro che svolgono non è ancora ai livelli garantiti dai lavoratori retribuiti. Sono tutte argomentazioni vere, ma conseguenza di un rapporto in cui la forza negoziale del giovane è debole. Con lo sguardo a un futuro incerto, per i giovani è sensato firmare l’accordo. È pur sempre un modo per restare un passo avanti rispetto ai coetanei nella lotta per un lavoro ben pagato. Intanto, però, le scarse prospettive di trovare un buon posto di lavoro sono usate per convincere i giovani a offrire il loro lavoro gratuitamente. “In un mercato del lavoro in cui una lettera di raccomandazione e una voce sul curriculum valgono tanto, noi millennial siamo disposti a dare via l’unica cosa che abbiamo: il nostro tempo e la nostra energia”, scrive Harris. Ci sono anche altri modi in cui i millennial si lasciano imbrigliare economicamente perché il futuro lo richiede. A lungo l’istruzione universitaria è stata praticamente gratuita, perché si pensava che in questo modo la società si assicurasse una futura generazione di lavoratori ben istruiti. Quel modello è stato sostituito da un altro in cui la formazione è un investimento individuale che darà i suoi frutti più avanti. Come spiegare altrimenti l’enorme aumento dei debiti contratti per l’istruzione universitaria? Con l’aumento delle tasse universitarie e l’abolizione delle borse di studio il debito medio di uno studente olandese salirà, secondo le previsioni, a 24mila euro per laureato. Andando in rosso di qualche decina di migliaia di euro un universitario si compra la possibilità di guadagnare meglio in futuro. Contro questa idea hanno protestato nel 2015 gli studenti dell’università di Amsterdam e di altre città olandesi. Gli studenti che hanno occupato la Maagdenhuis, il centro amministrativo dell’università di Amsterdam, sono stati etichettati come “millennial viziati”, ma le loro proteste hanno mostrato i rischi nascosti nella “logica dell’investi-su-te-stesso”: cosa succede se i guadagni non arrivano, magari perché è difficile trovare un lavoro, com’è successo nei recenti anni di crisi, o perché gli studi scelti portano a lavori con entrate relativamente basse? Questi rischi sono sempre esistiti, ma fino a poco tempo fa erano condivisi da tutti, giovani e vecchi, di successo o meno. Oggi, invece, chi prende un certo numero di decisioni sbagliate negli investimenti su se stesso ne paga il prezzo individualmente. Il capitalismo dei millennial privatizza il rischio, mentre il profitto che deriva da una popolazione ben istruita è collettivo. Non sembra un buon affare, e infatti non lo è. E l’alternativa, quella di non studiare, è ancora più costosa. Il modello competitivo dell’economia della conoscenza è fatto in modo che la decisione di indebitarsi prima di entrare nel mercato del lavoro risulti comunque più conveniente di qualsiasi altra opzione. Le competenze necessarie In Kids these days, Harris si chiede se i giovani non si arrendano troppo facilmente. “Se rifiutassero di pagare la loro preparazione al lavoro con il tempo, la fatica e i debiti, le aziende dovrebbero usare parte dei loro profitti per fornire ai dipendenti le competenze necessarie”. Nell’economia attuale invece se la cavano riducendo gli stipendi, mentre i loro profitti aumentano. Gli arrivano gratuitamente forze fresche, pronte all’uso e con un futuro ipotecato, che lavoreranno senza lamentarsi. Chi ha un creditore che viene a bussare ogni mese, non si licenzierà per lanciarsi in un’avventura incerta. In questo modo Harris traccia il legame tra i grandi movimenti in cui si trovano imprigionati i millennial. Cercare di spremere il massimo da ogni giovane lavoratore sostenendo i costi più bassi possibili è una risposta allo stallo prodotto dall’evento che ha dato vita all’economia dei millennial: la crisi del 2008. Per crescere, il capitalismo cerca di continuo nuovi mercati ed escogita trucchi per contenere i costi e aumentare la produttività. Far lavorare duramente i giovani e assumerne pochissimi fa parte della strategia, così come limitare i loro diritti, farli indebitare o non pagarli in proporzione all’aumento della loro produttività. Sono solo l’etica e i patti sociali a impedire che altre fasce della popolazione siano trascinate dentro questo modello di mercato. Per esempio, non chiediamo a chi ha più di 67 anni di impiegare il suo tempo in modo produttivo, perché pensiamo che abbia già fatto abbastanza nel corso della sua vita. Non abbiamo pretese produttive neanche verso i bambini, perché pensiamo che essere piccoli equivalga a essere liberi dalla disciplina del lavoro. Ma il pensiero produttivo riesce comunque a farsi strada. Nel suo libro Harris cita una lettera con cui la direzione di una scuola elementare di New York informava i genitori che la recita annuale dei bambini era stata annullata. La lettera faceva riferimento alle “esigenze del ventunesimo secolo” e alla necessità che i bambini diventino “buoni lettori, scrittori e risolutori di problemi”: insomma, il tempo che sarebbe stato speso in prove era meglio dedicarlo alla grammatica e alla matematica. Non è uno scherzo. Nel 2014 la scuola ha deciso, in nome del futuro dei suoi alunni, di annullare qualcosa di improduttivo come uno spettacolo teatrale. Secondo Harris questo dimostra come un regime basato sulla produzione stia segnando le vite dei bambini. I bambini non possono lavorare, spiega, ma quello che si può fare è caricarli il più possibile di conoscenze che applicheranno una volta raggiunta l’età per lavorare. “Obbligazioni sull’infanzia”, le chiama Harris: investimenti sui giovanissimi nella speranza che siano ripagati quando saranno adulti. Certo, questo è un esempio estremo, per di più proveniente da una città ipercompetitiva come New York dove, sostiene Harris, anche quando i bambini giocano insieme i genitori si chiedono se da quell’incontro impareranno abbastanza (Harris evidenzia così la volontà nascosta di segregazione sociale: i genitori con un alto livello d’istruzione non hanno paura che i figli entrino in contatto con altre abitudini, ma temono che frequentando persone meno istruite si riducano le possibilità di riuscita economica). Eppure non è difficile cogliere in questo modo di pensare quello che succede altrove in forma ridotta. Nei Paesi Bassi il governo ha ideato il “curriculum orientato al futuro” per preparare gli studenti a una “società in cambiamento” (ci sono momenti in cui la società non cambia?). Di nuovo lo stesso schema: un futuro per definizione ignoto determina un modello a cui adattare giovani vite. Lo stesso vale per i genitori, preoccupati che i figli frequentino le scuole giuste, e per il settore sempre più ampio della cosiddetta “istruzione ombra”, che offre preparazione agli esami e aiuto nello studio. Sono tutti sviluppi con un doppio volto: sono dettati dall’interesse per il bambino, ma allo stesso tempo rivelano un’economia che cerca di spremere il più possibile da ogni cervello umano. Harris usa il concetto di “maschera pedagogica”, un termine preso in prestito dal sociologo dell’istruzione tedesco Jürgen Zinnecker. Diciamo ai bambini che vogliamo insegnargli il più possibile, ma allo stesso tempo li prepariamo a diventare lavoratori il più possibile produttivi. La domanda è quando si può cominciare a imporre il futuro a dei minorenni. L’infanzia come parametro Apro una piccola parentesi autobiografica. Scrivere sui bambini è sempre rischioso. Come tutti, anch’io tendo a prendere la mia infanzia come parametro per la situazione attuale. E una volta, lo sanno tutti, tutto era meglio. È per questo che il titolo del libro di Harris è ben scelto: Kids these days, l’espressione usata da ogni generazione di adulti parlando di chi è venuto dopo. Anche se devo dire che io non la uso spesso. Non ho figli e la maggior parte dei bambini che mi circonda è ancora troppo piccola per essere ritenuta responsabile delle proprie scelte. Resto stupito quando sento che studenti delle superiori lavorano al loro curriculum e che i genitori tengono d’occhio le prestazioni dei figli attraverso un “sistema digitale per seguire gli studenti”. Qualche altra piccola considerazione personale. Sono nato nel 1983. Secondo alcune definizioni questo mi farebbe rientrare nella categoria dei millennial. Ma se una caratteristica del millennial è vivere in condizioni economiche precarie ed essere stato inseguito in da piccolo dalla “società delle prestazioni”, allora non sono un millennial. Il primo esame che mi hanno messo sotto al naso è arrivato solo alla fine delle elementari. All’università ho studiato quello che mi piaceva e l’idea che il futuro avrebbe potuto essere economicamente più cupo del passato era un’astrazione. Questo vale, per quanto ne so, per la maggior parte dei miei coetanei. Il cambiamento, così pare, è arrivato solo con la crisi economica, e all’epoca la maggior parte di noi era già a bordo dell’ultima nave salpata da un porto sicuro. Ma forse è proprio questo il punto e, come afferma Harris, non si tratta di stabilire dei confini precisi al fenomeno millennial, per poi attribuirne tutte le caratteristiche a chi ci rientra. Sarebbe un invito al tipo di sociologia approssimativa che definisce il pensiero attuale sui millennial: una generazione che guarda a se stessa, con un ego straordinariamente vulnerabile e una dipendenza dagli smartphone. In molti casi queste conclusioni sono anche calzanti (anche per non millennial, tra l’altro), ma dicono poco sul tipo di società di cui questa generazione è il prodotto. “I millennial non sono spuntati dal nulla”, scrive Harris. “Non siamo comparsi da una crepa sullo schermo di un iPhone”. Tutto ha avuto origine da un’economia che a un certo punto ha cominciato a iperventilare, come un millennial con un attacco di panico. Il capitalismo cerca disperatamente ciò che non è ancora orientato alla massimizzazione del profitto per trasformarlo il più in fretta possibile in un mercato, scrive Harris, che è stato coinvolto nelle proteste di Occupy Wall street, scrive per la rivista di sinistra Jacobin e ha l’immagine di una falce e martello sul profilo di Twitter. “Chi ne trae profitto la chiama disruption, la sinistra parla di ‘neoliberismo’, per i millennial si tratta del ‘mondo’. E il mondo è uno schifo”. Harris è nato nel 1988 e questo dice molto. La sua generazione è la prima cresciuta completamente all’interno di un sistema in cui il mercato ha invaso quasi tutti gli aspetti della vita. Millennial non è quindi tanto una definizione leggera per la generazione dello smartphone, quanto un’indicazione delle condizioni del capitalismo nel periodo a cavallo tra il ventesimo e il ventunesimo secolo. Ancora Harris: “Il carattere di un millennial è il risultato di una vita passata a investire sul proprio potenziale e a essere trattato come un prodotto finanziario rischioso”. I millennial sono una generazione “nata in cattività”, in cui ognuno viene esaminato in dall’inizio per vedere se raggiungerà a pieno il suo potenziale. E i parametri per giudicarlo sono, in mancanza di meglio, soprattutto economici. Se si va avanti così, in futuro saremo tutti millennial: vivremo in una società in cui le vite rientreranno in dall’inizio in un regime di massimo profitto con costi di produzione bassi il più possibile, mentre il dorato ventesimo secolo si farà sempre più piccolo nello specchietto retrovisore.