internazionale 10.2.2018
Società
Dalla parte dei trentenni
Chi
è nato tra il 1980 e il 2000 fa parte della generazione più istruita di
sempre, quella dei millennial, ma ha salari e opportunità peggiori dei
genitori. Una condizione accettata a causa di prospettive economiche
sempre più incerte
di Casper Thomas, De Groene Amsterdammer, Paesi Bassi.
Qualcosa
di strano sta succedendo ai giovani nati tra il 1980 e il 2000, i
cosiddetti millennial. Si tratta della generazione più istruita di
sempre. Nessun’altra nella storia ha ricevuto un’istruzione di livello
così alto e ha potuto vantare tanti titoli di studio. Secondo la logica
dell’economia della conoscenza, questa condizione dovrebbe garantire
grandi vantaggi. Per esempio, salari alti, un lavoro stabile e benessere
crescente. Ma alla prova dei fatti questi giovani sono messi peggio dei
genitori e dei nonni. “Ogni tipo di autorità – dalle madri ai
presidenti – ha raccomandato ai millennial di accumulare più capitale
umano possibile”, scrive Malcom Harris nel libro Kids these days: human
capital and the making of millennials. “E noi l’abbiamo fatto. Ma il
mercato non ha rispettato la sua parte dell’accordo. Cos’è successo?”.
Già, cos’è successo? Com’è possibile che anche nei Paesi Bassi la
produttività del lavoro continui a crescere mentre il compenso medio di
un lavoratore dipendente ristagna? La questione più difficile è capire
chi intasca i guadagni extra. “Il numero di contratti a tempo
indeterminato diminuisce a favore di altre tipologie di lavoro”. Questa è
la spiegazione del Centraal bureau voor de statistiek (Cbs), l’istituto
nazionale di statistica olandese. Per “altre tipologie di lavoro”
s’intendono soprattutto impieghi pagati peggio e di natura temporanea. E
a formare la legione di persone che hanno contratti flessibili sono in
gran parte i giovani. Quasi un terzo dei lavoratori dipendenti sotto i
34 anni ha contratti di questo tipo. Nella fascia d’età superiore si
scende al 10 per cento. I millennial sono la prima generazione da molto
tempo a questa parte a essere più povera di quella precedente. Rispetto a
quando erano giovani i loro genitori, i ventenni e trentenni di oggi
devono fare mediamente i conti con salari che crescono di meno, con una
minore capacità di accumulare patrimoni e con risparmi più scarsi per la
pensione. Inoltre sono più indebitati. “Unlucky millennials”: così li
ha definiti la banca svizzera Credit Suisse nel suo Global wealth report
2017. Quell’unlucky (sfortunati) è ancora più fastidioso se si pensa
che i millennial sono più istruiti e lavorano più duramente delle
generazioni precedenti (secondo l’istituto di statistica olandese, il
numero di ore lavorate nei Paesi Bassi è salito del 16 per cento negli
ultimi vent’anni), ma nonostante questo rischiano di finire più in basso
nella scala economica. Il marketing ci presenta i millennial come
talenti digitali per i quali tutto è possibile, ma i dati economici
dicono che in realtà sono uno dei gruppi più sfruttati degli ultimi
tempi. Quando si sollevano questioni di questo tipo, si tirano subito in
ballo i problemi con cui devono fare i conti la società e l’economia.
La crisi finanziaria, la robotizzazione, una globalizzazione che ha
ridotto il benessere dell’occidente a favore del resto del mondo:
fenomeni importanti, che rendono difficile mantenere lo stesso livello
di ricchezza per tutti. Ma per un gruppo troppo giovane per aver avuto
una qualche influenza sul mondo queste sono risposte poco soddisfacenti.
Inoltre così si aggira la questione della responsabilità. Un ragazzo
tra i venti e i quarant’anni deve sorbirsi una disquisizione di
macroeconomia quando chiede perché l’esistenza borghese dei suoi
genitori per lui sia fuori portata. In sostanza si sente dire questo:
noi, le generazioni precedenti alla vostra, abbiamo creato un sistema
che per noi ha funzionato molto bene; c’è stata una solida crescita
economica da cui tutti hanno avuto benefici, e per chi restava indietro
c’era un welfare generoso. Purtroppo, in entrambi i casi la pacchia è
finita. Perché questo è un altro punto che i giovani devono accettare:
un welfare che per molti aspetti è meno generoso rispetto al passato. Si
può discutere a lungo del dovere di badare a se stessi e di un governo
che non spende per il welfare più di quanto permetta il suo bilancio. Ma
tra le generazioni c’è una sproporzione. Le pensioni ne sono un buon
esempio. “Un giovane paga troppi contributi per la pensione che riceverà
in futuro, chi è più in là con gli anni ne paga troppo pochi”,
concludeva qualche anno fa il Centraal planbureau, l’ufficio centrale di
pianificazione dei Paesi Bassi. Non era una novità. Già nel 2006 il
Wetenschappelijke raad voor het regeringsbeleid (Wrr), un gruppo di
studio del governo olandese sugli sviluppi futuri della società, aveva
avvisato che il welfare era troppo sbilanciato a favore dei cittadini
più anziani. Certamente ci sono anche anziani poveri e giovani ricchi,
ma il risultato è un trasferimento di ricchezza da una generazione più
povera a una più ricca.
Il peso del welfare
La colpa è in
parte dei cambiamenti demografici. La crescita della popolazione
rallenta dagli anni cinquanta. La conseguenza è che la fascia di
popolazione tra i venti e i quarant’anni è la più esigua dalla seconda
guerra mondiale. A questo punto bisogna chiedersi su chi vanno fatte
ricadere le conseguenze economiche negative di questo fenomeno. Non sono
stati i millennial a stabilire le dimensioni della loro generazione.
Forse gli sarebbe piaciuto essere più numerosi, cosa che quanto meno
avrebbe aiutato a distribuire il peso del welfare su qualche paio di
spalle in più. Ma i loro genitori, che invece sono numerosi, hanno
pensato che una media di 1,7 figli a coppia potesse bastare. Così la
società attuale ha assunto l’aspetto di una carrozza su cui viaggiano le
persone che hanno vissuto il momento di massimo splendore del benessere
occidentale. La carrozza è trainata a fatica da un gruppo più esile e
anche meno numeroso. Chi è fortunato viene ricompensato dai genitori.
Una parte della ricchezza dei cosiddetti baby boomer (le persone nate
tra il 1945 e il 1964 in Nordamerica e in Europa) riesce, attraverso i
legami familiari, ad arrivare alle generazioni successive sotto forma di
prestiti, donazioni ed eredità. Sono gesti molto generosi, e un giovane
sarebbe un matto a non accettare, ma in questo modo i millennial
ereditano una società con più disuguaglianze. Mentre i baby boomer hanno
sperimentato un sistema meritocratico, i loro discendenti si ritrovano
in un sistema in cui il premio del merito si mescola a una cospicua
ricompensa da parte di genitori benestanti. Dal finestrino della
carrozza arrivano nel frattempo consigli benevoli: fai del tuo meglio a
scuola, investi su te stesso per poter percorrere il sentiero verso un
futuro incerto con il bagaglio di conoscenze più ampio possibile. Tutti
saggi consigli. È pur sempre l’unico modo per ottenere il massimo, in
presenza di prospettive sempre meno rosee. Ma l’impoverimento collettivo
causa spaccature interne. Per i millennial i loro coetanei sono
soprattutto dei concorrenti diretti. Il mondo in cui i trentenni sono
cresciuti non è caratterizzato solo da una maggiore disuguaglianza, ma
anche da una lotta interna più dura. Futuro produttivo La conseguenza è
una gara che chiede di dedicare molto tempo ad accumulare conoscenze e
competenze. E bisogna cominciare a farlo il prima possibile, perché chi
perde tempo viene punito. Se non ci si dedica abbastanza ad accrescere
le proprie possibilità nel mondo del lavoro, si lascia spazio a qualcun
altro che, facendolo, si sta avvantaggiando. Chi si domanda come mai i
millennial siano così morigerati (escono meno, consumano meno droghe e
alcol e fanno sesso più tardi, per citare qualche studio recente) ecco
un accenno di risposta: i millennial sanno che vale la pena d’investire
la maggior parte possibile del loro tempo in un futuro produttivo. In un
certo senso abbiamo disimparato a pensare in termini di scontri
generazionali. Una generazione di genitori coinvolta come mai prima
nelle gioie e nei dolori dei propri figli e che coltiva con loro un
legame amichevole non è in sintonia con l’idea del vecchio che sfrutta
il giovane. Un’altra cosa che abbiamo disimparato è pensare in termini
di sistemi economici che tengano conto di tutti. Si tratta probabilmente
di una combinazione tra la convinzione incrollabile che ogni individuo
sia capace di fare qualcosa della propria vita (e il conseguente dovere
morale di farlo) e una certa avversione per le tinte marxiste delle
politiche perseguite negli anni sessanta e settanta. In ogni caso i
risultati economici raggiunti dalla società attuale non corrispondono
spesso a un modello equilibrato di produzione, accumulo e ripartizione
del capitale. Per fortuna c’è un millennial in grado di dare un
contributo al dibattito con un’analisi del sistema economico in cui si
mette in luce la lotta silenziosa tra generazioni. Kids these days di
Harris è, a quanto mi risulta, la prima indagine strutturale del tipo di
capitalismo in cui sono cresciuti i millennial. Mentre nell’epoca
industriale dettavano i tempi il capitale materiale e monetario, scrive
Harris, oggi è determinante il capitale umano. Accumulare conoscenze e
competenze e farle fruttare in modo produttivo è il modello seguito
dalle persone per provvedere al loro sostentamento e allo stesso tempo è
il principale pilastro dell’economia. Non è di per sé una rivelazione,
ma Harris mostra come funziona questo modello per la sua generazione: i
ricavi dell’accresciuto capitale umano non vanno a chi lo possiede,
altrimenti tutti questi millennial ben istruiti avrebbero una
prospettiva di vita più favorevole e non un salario stagnante. Si tratta
di marxismo applicato all’economia della conoscenza del ventunesimo
secolo. Da questa prospettiva emerge qualcosa che non va. Prendiamo lo
stage, l’inevitabile rito di passaggio nella vita lavorativa. Un periodo
di apprendistato non pagato è considerato una preparazione importante
al lavoro. Chi fa uno stage (di solito un giovane) riceve un favore (di
solito da qualcuno più anziano): lavoro in cambio di esperienza,
l’accordo è questo. Potrebbe sembrare un accordo che dà vantaggi a
entrambe le parti, se non fosse che una delle due ha qualche vantaggio
in più dell’altra. I datori di lavoro possono pagare parte dei loro
dipendenti in esperienza e tenersi i soldi in tasca. Allo stesso tempo
una generazione si offre gratuitamente per un futuro lavorativo in cui
continuerà a far girare l’economia e pagare contributi e tasse. Di fatto
i vecchi hanno tanto bisogno dei giovani quanto i giovani dei vecchi,
ma nel mercato del lavoro si crede che questa relazione di dipendenza
sia unilaterale. Gli stagisti hanno ancora tanto da imparare, dicono i
più grandi. Devono essere accompagnati e il lavoro che svolgono non è
ancora ai livelli garantiti dai lavoratori retribuiti. Sono tutte
argomentazioni vere, ma conseguenza di un rapporto in cui la forza
negoziale del giovane è debole. Con lo sguardo a un futuro incerto, per i
giovani è sensato firmare l’accordo. È pur sempre un modo per restare
un passo avanti rispetto ai coetanei nella lotta per un lavoro ben
pagato. Intanto, però, le scarse prospettive di trovare un buon posto di
lavoro sono usate per convincere i giovani a offrire il loro lavoro
gratuitamente. “In un mercato del lavoro in cui una lettera di
raccomandazione e una voce sul curriculum valgono tanto, noi millennial
siamo disposti a dare via l’unica cosa che abbiamo: il nostro tempo e la
nostra energia”, scrive Harris. Ci sono anche altri modi in cui i
millennial si lasciano imbrigliare economicamente perché il futuro lo
richiede. A lungo l’istruzione universitaria è stata praticamente
gratuita, perché si pensava che in questo modo la società si assicurasse
una futura generazione di lavoratori ben istruiti. Quel modello è stato
sostituito da un altro in cui la formazione è un investimento
individuale che darà i suoi frutti più avanti. Come spiegare altrimenti
l’enorme aumento dei debiti contratti per l’istruzione universitaria?
Con l’aumento delle tasse universitarie e l’abolizione delle borse di
studio il debito medio di uno studente olandese salirà, secondo le
previsioni, a 24mila euro per laureato. Andando in rosso di qualche
decina di migliaia di euro un universitario si compra la possibilità di
guadagnare meglio in futuro. Contro questa idea hanno protestato nel
2015 gli studenti dell’università di Amsterdam e di altre città
olandesi. Gli studenti che hanno occupato la Maagdenhuis, il centro
amministrativo dell’università di Amsterdam, sono stati etichettati come
“millennial viziati”, ma le loro proteste hanno mostrato i rischi
nascosti nella “logica dell’investi-su-te-stesso”: cosa succede se i
guadagni non arrivano, magari perché è difficile trovare un lavoro,
com’è successo nei recenti anni di crisi, o perché gli studi scelti
portano a lavori con entrate relativamente basse? Questi rischi sono
sempre esistiti, ma fino a poco tempo fa erano condivisi da tutti,
giovani e vecchi, di successo o meno. Oggi, invece, chi prende un certo
numero di decisioni sbagliate negli investimenti su se stesso ne paga il
prezzo individualmente. Il capitalismo dei millennial privatizza il
rischio, mentre il profitto che deriva da una popolazione ben istruita è
collettivo. Non sembra un buon affare, e infatti non lo è. E
l’alternativa, quella di non studiare, è ancora più costosa. Il modello
competitivo dell’economia della conoscenza è fatto in modo che la
decisione di indebitarsi prima di entrare nel mercato del lavoro risulti
comunque più conveniente di qualsiasi altra opzione. Le competenze
necessarie In Kids these days, Harris si chiede se i giovani non si
arrendano troppo facilmente. “Se rifiutassero di pagare la loro
preparazione al lavoro con il tempo, la fatica e i debiti, le aziende
dovrebbero usare parte dei loro profitti per fornire ai dipendenti le
competenze necessarie”. Nell’economia attuale invece se la cavano
riducendo gli stipendi, mentre i loro profitti aumentano. Gli arrivano
gratuitamente forze fresche, pronte all’uso e con un futuro ipotecato,
che lavoreranno senza lamentarsi. Chi ha un creditore che viene a
bussare ogni mese, non si licenzierà per lanciarsi in un’avventura
incerta. In questo modo Harris traccia il legame tra i grandi movimenti
in cui si trovano imprigionati i millennial. Cercare di spremere il
massimo da ogni giovane lavoratore sostenendo i costi più bassi
possibili è una risposta allo stallo prodotto dall’evento che ha dato
vita all’economia dei millennial: la crisi del 2008. Per crescere, il
capitalismo cerca di continuo nuovi mercati ed escogita trucchi per
contenere i costi e aumentare la produttività. Far lavorare duramente i
giovani e assumerne pochissimi fa parte della strategia, così come
limitare i loro diritti, farli indebitare o non pagarli in proporzione
all’aumento della loro produttività. Sono solo l’etica e i patti sociali
a impedire che altre fasce della popolazione siano trascinate dentro
questo modello di mercato. Per esempio, non chiediamo a chi ha più di 67
anni di impiegare il suo tempo in modo produttivo, perché pensiamo che
abbia già fatto abbastanza nel corso della sua vita. Non abbiamo pretese
produttive neanche verso i bambini, perché pensiamo che essere piccoli
equivalga a essere liberi dalla disciplina del lavoro. Ma il pensiero
produttivo riesce comunque a farsi strada. Nel suo libro Harris cita una
lettera con cui la direzione di una scuola elementare di New York
informava i genitori che la recita annuale dei bambini era stata
annullata. La lettera faceva riferimento alle “esigenze del ventunesimo
secolo” e alla necessità che i bambini diventino “buoni lettori,
scrittori e risolutori di problemi”: insomma, il tempo che sarebbe stato
speso in prove era meglio dedicarlo alla grammatica e alla matematica.
Non è uno scherzo. Nel 2014 la scuola ha deciso, in nome del futuro dei
suoi alunni, di annullare qualcosa di improduttivo come uno spettacolo
teatrale. Secondo Harris questo dimostra come un regime basato sulla
produzione stia segnando le vite dei bambini. I bambini non possono
lavorare, spiega, ma quello che si può fare è caricarli il più possibile
di conoscenze che applicheranno una volta raggiunta l’età per lavorare.
“Obbligazioni sull’infanzia”, le chiama Harris: investimenti sui
giovanissimi nella speranza che siano ripagati quando saranno adulti.
Certo, questo è un esempio estremo, per di più proveniente da una città
ipercompetitiva come New York dove, sostiene Harris, anche quando i
bambini giocano insieme i genitori si chiedono se da quell’incontro
impareranno abbastanza (Harris evidenzia così la volontà nascosta di
segregazione sociale: i genitori con un alto livello d’istruzione non
hanno paura che i figli entrino in contatto con altre abitudini, ma
temono che frequentando persone meno istruite si riducano le possibilità
di riuscita economica). Eppure non è difficile cogliere in questo modo
di pensare quello che succede altrove in forma ridotta. Nei Paesi Bassi
il governo ha ideato il “curriculum orientato al futuro” per preparare
gli studenti a una “società in cambiamento” (ci sono momenti in cui la
società non cambia?). Di nuovo lo stesso schema: un futuro per
definizione ignoto determina un modello a cui adattare giovani vite. Lo
stesso vale per i genitori, preoccupati che i figli frequentino le
scuole giuste, e per il settore sempre più ampio della cosiddetta
“istruzione ombra”, che offre preparazione agli esami e aiuto nello
studio. Sono tutti sviluppi con un doppio volto: sono dettati
dall’interesse per il bambino, ma allo stesso tempo rivelano un’economia
che cerca di spremere il più possibile da ogni cervello umano. Harris
usa il concetto di “maschera pedagogica”, un termine preso in prestito
dal sociologo dell’istruzione tedesco Jürgen Zinnecker. Diciamo ai
bambini che vogliamo insegnargli il più possibile, ma allo stesso tempo
li prepariamo a diventare lavoratori il più possibile produttivi. La
domanda è quando si può cominciare a imporre il futuro a dei minorenni.
L’infanzia come parametro Apro una piccola parentesi autobiografica.
Scrivere sui bambini è sempre rischioso. Come tutti, anch’io tendo a
prendere la mia infanzia come parametro per la situazione attuale. E una
volta, lo sanno tutti, tutto era meglio. È per questo che il titolo del
libro di Harris è ben scelto: Kids these days, l’espressione usata da
ogni generazione di adulti parlando di chi è venuto dopo. Anche se devo
dire che io non la uso spesso. Non ho figli e la maggior parte dei
bambini che mi circonda è ancora troppo piccola per essere ritenuta
responsabile delle proprie scelte. Resto stupito quando sento che
studenti delle superiori lavorano al loro curriculum e che i genitori
tengono d’occhio le prestazioni dei figli attraverso un “sistema
digitale per seguire gli studenti”. Qualche altra piccola considerazione
personale. Sono nato nel 1983. Secondo alcune definizioni questo mi
farebbe rientrare nella categoria dei millennial. Ma se una
caratteristica del millennial è vivere in condizioni economiche precarie
ed essere stato inseguito in da piccolo dalla “società delle
prestazioni”, allora non sono un millennial. Il primo esame che mi hanno
messo sotto al naso è arrivato solo alla fine delle elementari.
All’università ho studiato quello che mi piaceva e l’idea che il futuro
avrebbe potuto essere economicamente più cupo del passato era
un’astrazione. Questo vale, per quanto ne so, per la maggior parte dei
miei coetanei. Il cambiamento, così pare, è arrivato solo con la crisi
economica, e all’epoca la maggior parte di noi era già a bordo
dell’ultima nave salpata da un porto sicuro. Ma forse è proprio questo
il punto e, come afferma Harris, non si tratta di stabilire dei confini
precisi al fenomeno millennial, per poi attribuirne tutte le
caratteristiche a chi ci rientra. Sarebbe un invito al tipo di
sociologia approssimativa che definisce il pensiero attuale sui
millennial: una generazione che guarda a se stessa, con un ego
straordinariamente vulnerabile e una dipendenza dagli smartphone. In
molti casi queste conclusioni sono anche calzanti (anche per non
millennial, tra l’altro), ma dicono poco sul tipo di società di cui
questa generazione è il prodotto. “I millennial non sono spuntati dal
nulla”, scrive Harris. “Non siamo comparsi da una crepa sullo schermo di
un iPhone”. Tutto ha avuto origine da un’economia che a un certo punto
ha cominciato a iperventilare, come un millennial con un attacco di
panico. Il capitalismo cerca disperatamente ciò che non è ancora
orientato alla massimizzazione del profitto per trasformarlo il più in
fretta possibile in un mercato, scrive Harris, che è stato coinvolto
nelle proteste di Occupy Wall street, scrive per la rivista di sinistra
Jacobin e ha l’immagine di una falce e martello sul profilo di Twitter.
“Chi ne trae profitto la chiama disruption, la sinistra parla di
‘neoliberismo’, per i millennial si tratta del ‘mondo’. E il mondo è uno
schifo”. Harris è nato nel 1988 e questo dice molto. La sua generazione
è la prima cresciuta completamente all’interno di un sistema in cui il
mercato ha invaso quasi tutti gli aspetti della vita. Millennial non è
quindi tanto una definizione leggera per la generazione dello
smartphone, quanto un’indicazione delle condizioni del capitalismo nel
periodo a cavallo tra il ventesimo e il ventunesimo secolo. Ancora
Harris: “Il carattere di un millennial è il risultato di una vita
passata a investire sul proprio potenziale e a essere trattato come un
prodotto finanziario rischioso”. I millennial sono una generazione “nata
in cattività”, in cui ognuno viene esaminato in dall’inizio per vedere
se raggiungerà a pieno il suo potenziale. E i parametri per giudicarlo
sono, in mancanza di meglio, soprattutto economici. Se si va avanti
così, in futuro saremo tutti millennial: vivremo in una società in cui
le vite rientreranno in dall’inizio in un regime di massimo profitto con
costi di produzione bassi il più possibile, mentre il dorato ventesimo
secolo si farà sempre più piccolo nello specchietto retrovisore.