il manifesto 8.2.18
La destra israeliana invoca misure eccezionali contro i «terroristi»
Territori
occupati. Dopo l'uccisione di due coloni, media e rappresentanti della
politica chiedono di combattere con provvedimenti ancora duri quella che
descrivono come una ripresa della "Intifada dei coltelli". E qualcuno
propone di buttare in mare i corpi dei "terroristi".
di Michele Giorgio
L’accoltellamento
e il ferimento leggero ieri di una guardia di sicurezza
dell’insediamento coloniale israeliano di Karmei Tzur, ad alcuni
chilometri da Hebron, da parte del palestinese Hamzeh Zamaareh, ucciso
subito da un altro vigilante, ha spinto molti in Israele a parlare di
ripresa dell'”Intifada dei coltelli”. È così che gli israeliani
definiscono gli attacchi all’arma bianca, di cui si resero protagonisti
decine di adolescenti e giovani palestinesi (in buona parte uccisi sul
posto dopo il loro gesto), che caratterizzarono la fine del 2015 e la
prima metà del 2016. I media e diversi rappresentanti della politica
fanno a gara nell’invocare pesanti misure di ritorsione, definendole di
“deterrenza”, mentre l’esercito è impegnato a cercare Abdel al Hakim
Assi il 19enne palestinese, con passaporto israeliano, responsabile
dell’uccisione lunedì di un colono, Itamar Ben Gal, che ha pugnalato a
morte nell’insediamento di Ariel prima di far perdere le tracce. In
reazione a quell’attacco, reparti israeliani martedì sono penetrati
nella città di Nablus – in apparenza per cercare Assi – innescando
scontri con centinaia di palestinesi poi sfociati nel lancio da parte
dei dimostranti di pietre, bottiglie molotov e, sostiene l’Esercito,
anche in colpi esplosi dal campo profughi di Balata, e da parte
israeliana in un fuoco con proiettili veri che hanno ucciso Khaled al
Tayeh, uno studente 22enne, e ferito decine di altri palestinesi (cinque
sono gravi). Sempre due giorni fa unità speciale israeliana aveva
ucciso a Yamoun (Jenin) Ahmad Jarrar, il palestinese accusato
dell’uccisione lo scorso 9 gennaio di un altro colono, Raziel Shevach,
sempre nella zona di Nablus. Un’esecuzione di fatto condannata anche da
Fatah, il partito del presidente palestinese Abu Mazen.
Di fronte a
questa presunta ripresa della “Intifada dei coltelli” che i
palestinesi, in ogni caso, spiegano come una logica conseguenza delle
tensioni e della rabbia provocate dal riconoscimento unilaterale
(condannato dall’Onu) di Gerusalemme come capitale d’Israele fatto da
Donald Trump due mesi fa – sono almeno 15 i dimostranti palestinesi
uccisi da quel giorno –, la destra israeliana è tornata ad invocare
misure eccezionali. Ieri si è svolto un dibattito tempestoso sul ritorno
dei corpi di “terroristi” nella commissione per gli affari interni
della Knesset. Herzl e Meirav Hajaj, genitori della soldatessa Shir
Hajaj, uccisa circa un anno fa assieme ad altri tre militari ad Armon
Hanatziv, una colonia nel settore Est occupato di Gerusalemme, hanno
chiesto allo Stato di mettere fine al suo «fallimento». «Il corpo
dell’animale che ha ucciso nostra figlia è nelle mani dello Stato di
Israele», hanno fatto notare «invece di discutere se tenere un corpo o
meno, c’è una soluzione: lasciarlo definitivamente in Israele o gettarlo
in mare». «Tutto ciò, insieme a un ulteriore progresso verso
l’approvazione della legge sulla pena di morte per i terroristi, la
distruzione delle case dei terroristi e l’espulsione di terroristi, sarà
in grado di prevenire il prossimo omicidio. La non restituzione dei
corpi (alle famiglie) deve essere parte delle opzioni di deterrenza».
Immediato
l’intervento a sostegno di Matan Peleg, presidente di Im Tirzu, una
organizzazione di destra impegnata a prendere di mira Ong e associazioni
per la tutela dei diritti umani e personalità della sinistra
israeliana. «Lo Stato deve promuovere un significativo pacchetto
deterrente contro il terrorismo» ha detto Peleg «è necessario cambiare
le regole del gioco e irrigidire ogni risposta, deve esserci un
drammatico aumento della deterrenza. Il sangue israeliano non è in
vendita». Anche Peleg ha esortato ministri e parlamentari ad accelerare
l’iter per la reintroduzione della pena di morte per i «terroristi».