mercoledì 7 febbraio 2018

il manifesto 7.2.18
Israele, al via la campagna di espulsioni dei richiedenti asilo
Migrazioni. Circa 40mila eritrei e sudanesi hanno 60 giorni per lasciare il Paese, altrimenti rischieranno il carcere a tempo indeterminato. Netanyahu accusa il miliardario ebreo Soros di essere dietro le proteste contro il suo piano.
di Michele Giorgio


In un silenzio internazionale rotto da poche voci, il Dipartimento per l’immigrazione e la popolazione di Israele nei giorni scorsi ha iniziato ad inviare gli avvisi di espulsione ai richiedenti asilo giunti dall’Eritrea e dal Sudan. La campagna di ”allontanamento”, così la chiamano in Israele, ha preso ufficialmente il via a Tel Aviv con la consegna a circa 200 eritrei di ingiunzioni a lasciare il Paese. Nei prossimi giorni coloro che presenteranno alle autorità il visto di soggiorno per il rinnovo riceveranno il loro ultimo visto insieme a una intimazione scritta in cui si afferma che dovranno partire nei successivi sessanta giorni. Altrimenti rischieranno di essere incarcerati indefinitamente. Si tratta dell’ultimo e più decisivo passo che il governo Netanyahu muove in linea con la sua politica di negazione dei diritti di chi è fuggito da abusi, torture, violazioni e guerre, e in presunta difesa «del carattere ebraico di Israele» che, afferma il premier, sarebbe minacciato dalla presenza dei richiedenti asilo africani (meno di 40 mila).
Netanyahu spara a zero su chi in Israele si oppone alle espulsioni e accusa il miliardiario ebreo George Soros di finanziare le proteste delle Ong e delle associazioni locali contro il suo governo, in particolare il New Israel Fund da alcuni anni bersaglio della destra israeliana. «Abbiamo iniziato un’operazione per rimuovere gli infiltrati illegali (i richiedenti asilo africani, ndr) da Israele, proprio come fanno altri Paesi moderni, principalmente gli Stati Uniti», ha scritto su Facebook assicurando che «manterrà la promessa di rimuovere gli infiltrati nel Paese». Netanyahu si è rifatto a una campagna contro Soros iniziata lo scorso anno dal primo ministro ungherese Viktor Orban che accusa l’anziano miliardario di orchestrare la migrazione in Europa di milioni di siriani e di profughi di vari Paesi. Il volto di Soros è apparso sui cartelloni pubblicitari in tutta l’Ungheria con scritte e slogan al limite dell’antisemitismo. Ma questo non turba Netanyanu che continua a vedere in Orban uno dei suoi principali alleati. Ed è indifferente verso le dure critiche che riceve dalla capogruppo del Meretz (sinistra sionista) alla Knesset, Tamar Zandberg, che denuncia le relazioni strette dal Likud, il partito del premier, con forze politiche legate all’estrema destra europea.
Da parte sua Soros ha respinto gli attacchi non mancando comunque di ricordare a Israele che «in conformità con la Convenzione sui rifugiati del 1951 e il diritto internazionale, è sbagliato inviare i richiedenti asilo di nuovo in Paesi dove potrebbero essere perseguitati o uccisi». È ciò che pensano gli attivisti, gli accademici e le personalità religiose nelle ultime settimane hanno esortato il governo israeliano a bloccare il suo piano. Contro le espulsioni si sono espressi anche sopravvissuti alla Shoah e piloti che preannunciano il rifiuto di guidare aerei con migranti diretti in Africa contro la loro volontà. Alcuni kibbutz progettano di dare ospitalità a chi fosse colpito da ordini di espulsione e ricercato dalla polizia. In campo sono scesi numerosi imprenditori, schierati per interesse economico contro le deportazioni perché, dicono, l’improvvisa partenza di tanta manodopera a basso costo rischia di rivelarsi un boomerang. Per rassicurarli il governo ha approvato l’incremento di 6 mila unità del tetto per i lavoratori stranieri nel settore edile, ora fermo a 16.500, e ha revocato la norma che proibiva alle imprese di fare offerte pubbliche per assumere manodopera di altri Paesi.
Per ora le notifiche di espulsione non vengono rilasciate a donne, bambini e padri di bambini. Quanti sono originari del Darfur potranno restare ma il loro futuro resta incerto. Chi accetterà di partire “volontariamente” otterrà una assegno di 3.500 dollari e un biglietto aereo oppure rischierà il carcere ad oltranza. Israele sostiene che nel “Paese terzo”, il Ruanda, con cui afferma di aver firmato accordi, i richiedenti asilo potranno stabilirsi e riacquistare una esistenza normale. Un futuro ben diverso da quello che diversi africani usciti da Israele nei mesi scorsi hanno raccontato e che resta gravido di incognite.