venerdì 2 febbraio 2018

il manifesto 2.2.18
Sessantotto, un forte antidoto politico per gli smemorati
Alla Sapienza di Roma presentati ieri i due volumi di «MicroMega» a 50 anni dalla contestazione. Luciana Castellina e altri, nell’aula I della facoltà di filosofia dove tutto ebbe inizio
di Alessandro Santagata


Gli anniversari sono momenti insidiosi di utilizzo pubblico della storia. Se poi a ricorrere sono i cinquant’anni dal Sessantotto, il rischio – come ha scritto domenica (sulle pagine di questo giornale) Marco Bascetta – è che la cifra del ricordo diventi quella dell’odio, della leggenda nera. Ci abbiamo dovuto fare l’abitudine di decennale in decennale. Hanno lanciato un segnale in direzione contraria i due dibattiti che si sono svolti ieri nell’aula I della facoltà di Lettere e filosofia della Sapienza – luogo simbolico del movimento studentesco romano – che hanno in un certo modo aperto le danze del cinquantenario nella Capitale. L’occasione l’ha offerta la rivista «MicroMega», che ha scelto la facoltà occupato il 1 febbraio 1968 per presentare di fronte a un’aula piena (anche se con una scarsa presenza di studenti) un numero speciale dedicato ai movimenti di contestazione e chiamando a raccolta un ricco parterre di testimoni.
SI TRATTA, in realtà, di due volumi che ospitano firme importanti del panorama politico-culturale italiano e internazionale. L’obiettivo dichiarato: ricordare e riflettere su «una data cruciale nella storia del dopoguerra» per evitare che le «celebrazioni» si riducano alla «reviviscenza di logore accuse che già allora caratterizzarono l’opinione di establishment (la violenza eccetera) o il reducismo di una sacrosanta nostalgia». La nota «ai lettori» fornisce ulteriori coordinate per comprendere gli intenti che hanno mosso la rivista di Flores d’Arcais, anche lui autore di un breve ricordo sulla sua esperienza, da Valle Giulia al maggio francese: valorizzare le eredità dei «lunghi anni Sessanta» con le loro conquiste civili e sociali e contestare i passi indietro compiuti nei decenni successivi sulla spinta della restaurazione neoliberale e con alcune gravi responsabilità delle forze di sinistra. La giornata di ieri può essere considerata come un secondo momento di approfondimento.
LA MATTINA è stata dedicata al confronto con gli studenti. Nel pomeriggio alcuni tra i testimoni/autori hanno discusso il numero nelle sue molteplici sfaccettature (ricordi, analisi, interviste e fonti d’epoca). Volendo individuare alcuni fili rossi, il tema della violenza e quello delle «specificità» del caso italiano nel contesto internazionale sono stati probabilmente i principali. C’è chi, come Luciana Castellina (e con lei Massimo Cacciari nel testo scritto) hanno teso a valorizzare come elemento principale l’immediato legame tra il movimento studentesco e quello operaio, tra le altre cose, il terreno fertile sul quale sarebbe maturata l’esperienza del manifesto. E chi, invece, come Palo Mieli ha identificato nella gioia della contestazione la dimensione unificante dei movimenti. Alex Zanotelli, partendo da una riflessione sulla sua Napoli, ha ricordato l’esperienza del dissenso cattolico, spesso trascurata nelle narrazioni successive, puntando poi il dito sulla crisi di valori del tempo presente, provocata non certo dal Sessantotto, ma dal successivo riflusso. Affettuoso, infine, il ricordo di Carlo Verdone, che del Sessantotto non fu militante, ma che pure beneficiò dell’onda di liberazione dei costumi arrivata perfino tra i banchi di una scuola cattolica per «figli di papà».
Ora, non c’è dubbio che la giornata in Sapienza abbia rappresentato una boccata di ossigeno alla vigilia di un anno di «celebrazioni» che si preannuncia carico di nuvole, se non alternativamente sterile. È da tenere presente poi che su molti dei nodi affrontati esiste ormai una bibliografia di taglio storiografico (e non solo) che è cresciuta esponenzialmente negli ultimi anni sulla spinta di coloro che il ’68 non l’hanno vissuto.
SE SI VANNO anche solamente a spulciare i titoli delle tesi di laurea e di dottorato degli anni Duemila si troverà un numero incredibile di lavori, spesso di ottima fattura, dedicati ai movimenti sociali e agli anni Settanta in generale. Su un grande tema come quello della violenza politica è fiorita una storiografia che ha preso le distanze dalle «demonizzazioni», cercando semmai di interpretarle nel contesto politico-culturale del «riflusso», ma si è interrogata in modo stringente sulla lunga durata del fenomeno: (almeno) dal secondo dopoguerra fino alla crisi dell’idea di rivoluzione negli anni Ottanta. Sono state investigate poi le culture politiche, le genealogie discorsive provando a riflettere criticamente sugli elementi di continuità nel Novecento.
Per quanto riguarda invece il complicato rapporto tra Sessantotto e modernizzazione, è ancora aperto il dibattito sulle relazioni tra l’avvento della società del benessere e l’esplosione della sua critica più radicale. Castellina ha spiegato efficacemente come la dimensione della critica al sistema, che del Sessantotto fu l’anima, sia venuta meno nel ricordo, lasciando spazio esclusivamente all’equazione contestazione-antiautoritarismo. Da questo punto di vista, gli studi internazionali ci invitano però anche a una maggiore criticità nell’affrontare il paradigma della «restaurazione neo-liberale», da studiare proprio a partire dalle trasformazioni storiche del sistema capitalistico e da quella sua necessità di omogeneizzare le società che negli anni Sessanta travolse appunto le istituzioni tradizionali.
ECCO ALLORA che tra i rischi di questo 2018 c’è quello di perdere, ancora una volta, l’opportunità per andare oltre il piano del talking about my generation. Un limite enorme, soprattutto alla luce di uno dei meriti principali della contestazione: aver introdotto la forma politica del movimento, che è diventata strutturale dopo la crisi del sistema dei partiti (non senza contraddizioni macroscopiche e con esiti talvolta inquietanti). È un filo rosso che è rimasto marginale nella discussione sul Sessantotto, ma che lega tra loro mondi diversi in fasi storiche nuove, fino a Genova, all’Onda e agli indignati dal finanzcapitalismo degli anni Duemila. Chi ha a cuore il Sessantotto ha dunque il dovere di non «congelarlo», di non avere paura di contestarlo, di non farne un monumento da museo per pochi intimi. Anche perché è proprio dagli spazi chiusi che è partita l’infezione che ha portato al dilagante rifiuto del passato, alle rottamazioni e alla politica dei senza memoria.