il manifesto 27.2.18
Arrestata così, per i miei tweet contro la guerra
di Nurcan Baysal
Era
da poco passata la mezzanotte. Stavo guardando la tv, i miei figli
giocavano accanto a me, il più piccolo con il Lego, il più grande con il
telefono. Con noi c’era anche mio marito e un suo amico. Era una
normale domenica sera. Improvvisamente ho sentito un rumore terribile.
All’inizio ho pensato a un terremoto. Poi ho realizzato che il rumore
proveniva dalla porta d’ingresso. Con i ricordi della guerra ancora
presenti nella memoria, ho pensato che forse la nostra casa era sotto
attacco, bombardata o bersagliata con le armi.
Ho gridato ai miei
figli di rimanere dov’erano, di non avvicinarsi. Abbiamo subito capito
che gli uomini che stavano cercando di buttare giù la porta erano
poliziotti.
La nostra porta era troppo resistente e la parete
intorno cominciava a sgretolarsi. Non riuscendo a entrare dalla porta
d’ingresso, sono passati dal giardino e sono entrati dalla cucina.
Circa
20 uomini dei corpi speciali della polizia con kalashnikov e altre armi
in mano hanno fatto irruzione in casa puntandole verso di me, il capo
della squadra mi ha chiesto se ero Nurcan Baysal. Quando ho risposto di
«sì» mi ha detto che aveva un mandato per perquisire la casa. Ho chiesto
se avevano il mandato anche per buttare giù la porta. Mi ha confermato
che il procuratore li aveva autorizzati anche a buttare giù la porta. Ho
risposto che era contro la legge e ho chiesto il nome del procuratore
ma non ho ottenuto risposta.
Questo è il modo in cui sono stata arrestata. Sono entrati in casa mia, una casa dove sanno che ci sono due bambini piccoli.
Soltanto
due giorni dopo il mio arresto ho saputo che ero stata fermata per
cinque tweet che avevo scritto contro «la guerra di Afrin».
Questo il contenuto:
Quello che portano i carri armati non sono «ramoscelli d’ulivo», sono
bombe. Quando le lanciano la gente muore. Ahmed sta morendo, Hasan sta
morendo, Rodi sta morendo, Mizgin sta morendo… Vite che stanno finendo…
Dare il nome di «ramoscello d’ulivo» alla guerra, alla morte. Questa è la Turchia!
La sinistra, la destra, i nazionalisti e gli islamisti sono tutti uniti nell’odio contro il popolo curdo.
Cosa pensate di andare a conquistare? Quale religione, quale fede
sostiene la guerra e la morte? (Ho scritto questo tweet dopo che
l’autorità religiosa turca aveva lanciato un appello alla «vittoria» in
un sermone a sostegno dei militari)
(Retweet di una foto di un
altro giornalista di un bambino morto ad Afrin) Ho scritto: «Quelli che
vogliono la guerra, guardino questa foto, un bambino morto».
È a causa di questi tweet che sono stata accusata di propaganda terroristica e di lanciare appelli provocatori.
Come
potete vedere, questi tweet non contengono nessuna propaganda
terroristica e io non ho nemmeno fatto appello a provocazioni o alla
violenza. Questi tweet dimostrano che sono contro la guerra e contro la
morte, e sì, ho criticato la polizia e il governo turco.
Sono
cresciuta con la guerra nella città di Diyarbakir. Realmente non so cosa
sia una vita normale. Ho trascorso i miei ultimi vent’anni lottando per
pace, democrazia, giustizia e libertà. Mi sono adoperata con le
istituzioni, le organizzazioni della società civile per trovare una
soluzione pacifica alla questione curda. Anche nei giorni bui del 2015,
durante i bombardamenti nel cuore del distretto Sud di Diyarbakir, stavo
lavorando per aprire il dialogo tra il governo e il movimento curdo.
Ho
organizzato molti incontri nel mio ufficio tra esponenti del partito al
governo, del movimento curdo e intellettuali, per cercare di porre fine
alle morti nella regione. Come militante per la pace e per i diritti
umani ho passato la mia vita trattando con le forze addette al controllo
delle migrazioni, guardie di villaggi, vittime delle mine, della
povertà, donne sequestrate dallo Stato islamico, con cadaveri
abbandonati nelle strade, scrivendo reportage sui crimini di guerra e
contro l’umanità.
Dopo tre giorni nel dipartimento
dell’anti-terrorismo sono stata rilasciata su cauzione, ma ho anche
avuto il divieto di viaggiare. Nell’ultima settimana, altre 311 persone
sono state arrestate per aver detto «no» alla guerra di Afrin. Lo stato
sta cercando di far tacere le voci contro la guerra. Vogliono che tutti i
settori della società, compresi i media sostengano la guerra.
Come
giornalisti, attivisti e intellettuali, la nostra responsabilità non è
verso lo stato. Noi siamo responsabili verso il nostro popolo, verso
l’umanità, verso la storia, verso la vita, verso la gioventù turca e
curda che sta morendo, verso le loro madri.
La scorsa settimana,
il presidente Recep Tayyip Erdogan ha minacciato la popolazione dicendo
che coloro che parteciperanno alle proteste contro la guerra pagheranno
un caro prezzo.
Sì, presidente, è vero, noi stiamo pagando un
prezzo alto. Ma credetemi, questo prezzo ha un valore. Forse alla fine
ci potrà essere la vita e la pace. Questo paese merita la vita e la
pace.
pubblicato su Ahval, 1-2-2018