il manifesto 24.2.18
Quella memoria condivisa che non si interroga su se stessa
Berlinale
68. Il regista ucraino Sergei Loznitsa presenta al Forum il suo nuovo
documentario «Victory Day». Girato a Berlino nel memoriale russo
costruito per celebrare la vittoria dell’Armata Rossa sui nazisti
di Cristina Piccino
BERLINO
Il tramonto è rosso fuoco ma l’aria è freddissima, la Berlinale si
chiude oggi e stasera scopriremo l’Orso d’oro, sembra che nel cuore dei
giurati – che bello incontrare in qualche proiezione il sempre
elegantissimo Sakamoto – sia molto piaciuto anche Las Herederas melò
appena tratteggiato con molto realismo da Marcelo Martinessi, racconto
di un desiderio e insieme dei rapporti di potere che si stabiliscono in
ogni relazione. Al centro c’è una coppia di donne borghesi, in Paraguay,
costrette a un radicale cambiamento della loro esistenza con l’arresto
di una di loro e la perdita della bellissima casa. Così mentre Chiqui è
in prigione, Chela svuota la loro abitazione e comincia a scoprire per
sé stessa altre possibilità: un lavoro e un nuovo amore … Sembra però
che anche Alba Rohrwacher (Figlia mia di Laura Bispuri) sia molto
piaciuta ai giurati nel ruolo dell’imprevedibile (e un po’ selvatica)
Angelica… Si vedrà.
Sergei Loznitsa lo definisce «un film su un
monumento all’ambiguità» Victory Day – presentato al Forum ma poteva
essere nel concorso se (come Cannes) fosse meno irrigidito – girato a
Berlino, a Treptower Park, nel memoriale sovietico costruito per
celebrare la vittoria dell’Armata Rossa sui nazisti. Un titolo che
conferma la sezione tra le migliori del festival, l’unica in cui
sperimentazione e diverse proposte di ricerca sul cinema riescono ancora
a trovare uno spazio in una selezione che comprende autori
contemporanei, omaggi al pink giapponese nella figura della meravigliosa
attrice Keiko Sato, la presenza di James Benning con un suo lavoro
«storico» 11×14 e l’eclissi di L.Cohen, restauri e giovanissimi.
l
giorno della Vittoria è il 9 maggio, che fino al 1965 era festa
nazionale in tutta l’Europa dell’est e che di recente Putin ha
reinvestito di orgoglio nazionale. A Berlino arrivano nel monumento di
Treptower Park cittadini da ogni repubblica dell’ex-Urss, anziani, più
giovani, uomini, donne, famiglie, bambini vestiti da piccoli soldati;
coccarde e bandiere rosse e russe, garofani rossi, fiori e corone; eroi
di guerra, veterani e medaglie; cori patritottici e danze. «Abbiamo
combattuto tutti insieme» dice qualcuno. Un altro, kazako saluta il suo
Paese. Qualcuno parla di fascismo e di neo-fascismo, accusa la Germania
di non avere mai affrontato con sincerità il passato nazista. Due quasi
litigano, la Germania era solo quella socialista, gli altri sono ancora
oggi una finta democrazia…. I cosacchi suonano, si ride, si mangia, un
ragazzino non vuole infilare la casacca dell’Armata Rossa, smart-phone,
qualche videocamera, nessuno sembra preoccuparsi della presenza del
regista.
Se il dispositivo è lo stesso utilizzato in Austerlitz,
Victory Day ne rappresenta una sorta di controcampo: lì i visitatori del
campo di concentramento erano una massa distratta, distante, che si
poneva nei confronti del luogo come verso ogni museo o monumento dei
tour turistici, con la stessa indifferenza e gli stessi rituali..Qui
invece tutte le persone che si ritrovano a Treptower Park sono coinvolte
in ciò che quel giorno e quel luogo rappresenta, l’avvenimento storico e
la sua retorica. Lo stesso vale per il regista. Nelle note al film
Loznitsa scrive: «Ci sono questioni cruciali riguardo al ruolo
dell’Unione sovietica nella seconda guerra mondiale. Per esempio il
patto Ribbentrop-Molotov, la divisione della Polonia, la guerra contro
la Finlandia …
Per questo visti poi i crimini commessi da un
regime quale lo stalinismo, ogni monumento eretto nell’era sovietica che
ne celebra le mitologie, racchiude per me una forte ambiguità. È molto
difficile riuscire a confrontarsi con questo». La sua posizione è dunque
differente, c’è una vicinanza seppure critica, e un coinvolgimento che
muta il rapporto coi corpi delle persone e il modo di filmare la loro
presenza nello spazio. Quello che vedevamo in Austerlitz era il
compimento di una rimozione nella quale la memoria dell’Olocausto finiva
per coincidere col consumo turistico indistinto; qui il regista
illumina invece una memoria condivisa e sempre viva ma allo stesso modo
parziale, che non si interroga cioè su se stessa. L’adesione al
sentimento patriottico che mischia falce e martello e icone religiose, è
come se cancellasse la possibilità di una consapevolezza storica, che
sia nella gravità (di facciata) nel campo di concentramento o
nell’adesione festiva è sempre qualcosa che si arresta alla superficie, i
simboli e i rilievi con la storia degli eroi e del popoli lasciano
ovunque indietro le contraddizioni passate e presenti.
Le
questionio che Loznitsa solleva riguardano la rappresentazione di un
Paese, della Storia, in che modo rispondono a una idea comune e dove
invece si possono scorgere le crepe e quanto ormai si è perduto. In
entrambi i film, Austerlitz e Victory Day al centro c’è proprio il gesto
della celebrazione: cosa significa e in che modo svuota di
consapevolezza chi vi partecipa, quasi dispiegando una strategia
dell’accettazione, messaggio rassicurante, rito portato a compimento.
Senza domande, senza esitazioni.