il manifesto 23.2.18
Italia paese tra i meno istruiti con pochi laureati e tanti tagli
Guerra
alla conoscenza. Istat: una società classista che penalizza la ricerca
dell’autonomia attraverso i saperi. La spesa in ricerca e sviluppo è
concentrata solo in quattro regioni
Milano, un corteo contro l’alternanza scuola-lavoro
di Roberto Ciccarelli
Italia
paese tra i meno istruiti d’Europa. Dopo di noi ci sono Spagna,
Portogallo e Malta. Un ritardo storico nei livelli di istruzione che,
stando al rapporto sulla conoscenza 2018 presentato ieri dall’Istat
nell’Aula Ottagona delle Terme di Diocleziano a Roma, è inferiore di
16,8 punti percentuali rispetto alla media europea: il 60,1% tra i
25-64enni con almeno un titolo di studio secondario superiore contro
l’oltre 76% europeo. Questo ritardo è dovuto alla scarsa istruzione
della popolazione matura, e non ai giovani e ai meno giovani che, anzi,
hanno permesso un aumento di otto punti dal 2007 a oggi, negli anni
della peggiore crisi dal Dopoguerra.
LE RAGIONI di questa
disparità sono approfondite dal rapporto, lo strumento a oggi più
completo per affrontare uno dei problemi strutturali del capitalismo
cognitivo italiano. Le cause sono dovute principalmente a un rapporto di
potere: in particolare nel privato, tra le piccole e medie aziende –
settore importante nel paese del «capitalismo molecolare»: 770 mila
imprese dai 2 ai 49 addetti nella manifattura e nei servizi, 4,6 milioni
di occupati – chi è meno istruito comanda, chi lo è di più cerca un
lavoro, per lo più precario, pagato in maniera pessima. Il livello medio
di istruzione dei micro-imprenditori è modesto: 11,4 anni di scolarità a
testa nel 2015, meno della scuola dell’obbligo. Questa composizione
indica due caratteristiche del sistema produttivo: il basso tasso di
specializzazione di queste imprese e il livello altrettanto basso della
forza lavoro richiesta. I dipendenti hanno un livello medio di 10,8 anni
di scolarità a testa. A riprova che una maggiore istruzione aumenta la
produttività dell’impresa c’è questo dato: quando gli imprenditori sono
più istruiti, anche i dipendenti tendono ad avere un livello di
istruzione più elevato. In media ogni anno di scolarizzazione in più
dell’imprenditore corrisponde a 1,3 mesi di istruzione in più per
ciascun dipendente. Per ogni anno d’istruzione in più un’impresa ha il 5
per cento in più di speranze di sopravvivere nel contesto aggressivo
della crisi. Anche in un capitalismo relazionale, basato su basse
competenze, bassi salari un mese in più di istruzione riesce a produrre
un effetto positivo.
LA POVERTÀ soggettiva degli imprenditori e di
una parte della forza lavoro va considerata rispetto allo scheletro
produttivo di un paese dov’è forte la manifattura. Lo si vede nel caso
dei brevetti: di gran lunga dominanti sono quelli legati ai macchinari,
ai mobili, gioielleria e articoli sportivi. Insieme formano il 51,9%
delle domande nazionali di brevetto. Seguono quelli nel settore
tessile-abbigliamento-pelletteria e alimentare. Dunque, siamo ancora un
paese fissato allo scheletro manifatturiero del Centro-Nord? Sì, e per
di più gli investimenti (pochi) sono concentrati solo in 4 regioni:
Lombardia, Lazio, Piemonte e Emilia Romagna. Poli che concentrano le
poche risorse in ricerca e sviluppo. inferiori a quelle delle maggiori
economie europee: 1,3% del Pil nel 2015 contro una media Ue al 2%.
Lontanissima è la Silicon Valley, e su questo non ci sono dubbi. Ma è
lontana anche la Francia dove, dal punto di vista di un capitalismo
neoliberale puro, Emmanuel Macron ha previsto investimenti ingenti nel
campo del digitale. Un campo – tra gli altri – dove gli investimenti
«immateriali» sono davvero modesti in Italia, anche se l’Istat sostiene
abbiano superato il 20% di quelli totali in ricerca e sviluppo.
Nonostante la crisi e l’improvvisazione che ha accompagnato questo
settore, perlomeno da quando è stata decisa la chiusura dell’Olivetti.
NELL’ISTRUZIONE
pubblica la situazione è più che noto il violentissimo attacco di
Berlusconi al settore ha portato nel 2008 al taglio di 8,4 miliardi alla
scuola e di 1,1 all’università. Da allora mai più rifinanziati. Unico
paese dell’Ocse ad avere tagliato l’istruzione nella crisi, l’Italia ha
continuato a pestare l’acqua nel suo mortaio di mediocrità, infelicità e
povertà lucidamente volute e programmate. Una situazione che si spiega
con il realismo capitalista: il paese va tarato su una struttura
produttiva ridotta, tipicamente sbilanciata sull’export e non
sull’innovazione e la domanda interna. Alla richiesta di autonomia,
attraverso i saperi, vanno tagliate le gambe. Perché, come disse il
commercialista di Sondrio che fece anche il ministro dell’Economia, «con
la cultura non si mangia».
UNA TESI che ormai nutre l’inconscio
di un paese virulento e classista. Ma è negata dai fatti. Il dato non è
nuovo, e anche l’Istat conferma che un titolo di laurea permette di
trovare più facilmente un impiego e di guadagnare di più, a cominciare
dalle donne. E ci sono novità: pur nell’estrema esiguità dei laureati
(ultimi nell’Ocse: 16%) aumentano quelli nel Mezzogiorno: +55%. Resta
tuttavia l’impianto classista: chi si laurea ha già genitori con il
titolo. Le speranze di emancipazione sono ridotte per chi invece
proviene da famiglie non laureate. Un problema storico non risolto né
dalle riforme degli anni Sessanta-Settanta, né da quelle neoliberali
degli anni Novanta.
OGGI c’è un altro problema: lo si vede dal
tasso degli abbandoni scolastici. Sono diminuiti dal 20 al 13,8%, ma
aumentano tra i figli degli immigrati dove superano il 30%. È il nuovo
volto del classismo che, fuori dalle classi, è accompagnato dal razzismo
scatenato di una società in ostaggio.