il manifesto 23.2.18
Rifugiati a digiuno contro le deportazioni israeliane
Tel
Aviv. Oltre 750 richiedenti asilo rinchiusi ad Holot iniziano lo
sciopero della fame dopo l'arresto di sette eritrei che hanno rifiutato
di andare in Ruanda. Fuori dal centro di detenzione centinaia in marcia
La protesta dei rifugiati africani in Israele
di Chiara Cruciati
Dopo
i primi sette arresti la protesta è ripresa, dentro e fuori le carceri:
ieri centinaia di richiedenti asilo africani hanno manifestato di
fronte al centro di detenzione israeliano di Holot, nel deserto del
Naqab, contro l’arresto di sette eritrei che hanno rifiutato la
deportazione in Ruanda.
Dentro, 750 africani – dei mille già in
prigione da mesi – lanciavano lo sciopero della fame contro la politica
anti-rifugiati di Tel Aviv: «Non vogliamo mangiare, né domani né
dopodomani – spiega al quotidiano israeliano Haaretz Abdat Ishmail,
eritreo in carcere da 10 mesi e portavoce del movimento – Ci dicono che è
vergognoso gettare via il cibo. Noi rispondiamo: è vergognoso gettare
via delle vite umane».
Fuori i manifestanti scandivano «Non siamo
criminali», prima di dirigersi in marcia per due chilometri verso la
prigione di Saharonim, dove i sette eritrei sono stati condotti
mercoledì. «Ridateci indietro i nostri fratelli», «Israele rispetti la
convenzione del 1951», si leggeva nei cartelli, in inglese, arabo ed
ebraico, con i migranti che si affollavano intorno ai nastri rossi messi
lì dalla polizia per non farli avvicinare.
Una scena surreale: il
centro di Holot sorge nel mezzo di una piana desertica e i cancelli
«semi aperti» sanno di beffa: chi ha l’autorizzazione ad uscire (alcuni
hanno solo l’obbligo di firmare la presenza di mattina e di sera), non
lo fa perché impossibilitato a spostarsi e raggiungere una città e un
qualsiasi lavoro a giornata.
È dunque realtà la campagna di
deportazione di 37mila richiedenti asilo africani: dopo l’approvazione
dell’emendamento alla «Legge contro l’infiltrazione» (creatura dei primi
anni ’50 per impedire il ritorno ai rifugiati palestinesi) e
l’aggiramento della sentenza della Corte Suprema che vieta la
deportazione in paesi ostili, i primi sette eritrei sono finiti in
prigione mercoledì.
Delle due «opzioni» date dalle autorità, alla
deportazione in Ruanda hanno scelto la galera a tempo indeterminato. E
tanti altri potrebbero seguire: in pochi giorni gli ordini di
deportazione sono già saliti da 200 a oltre 600 e saranno processati
entro marzo dalle autorità per l’immigrazione e la popolazione.
Con
la quota-target che resta fissa a 37mila. Tutti loro dovranno
scegliere: andarsene con in tasca 3.500 dollari e un futuro uguale al
passato da cui sono fuggiti (abusi, altre deportazioni, trafficanti) o
il carcere.
Con un «ma», racchiuso nelle parole di Talib, sudanese
intervistato da Al Jazeera: «In Darfur la situazione è impossibile, ho
visto mio padre morire sotto i miei occhi. Non c’è modo che io ritorni
lì». Se al pari di Talib la maggior parte di loro – come annunciano –
sceglierà la cella, Israele si troverà di fronte a un problema serio. Di
celle a sufficienza non ce ne sono, dovrebbero essere costruite nuove
carceri. Un boomerang per il governo Netanyahu.
Accanto ai
rifugiati protestano anche le organizzazioni per i diritti umani: «È il
primo passo verso un’operazione di deportazione senza precedenti a
livello globale – hanno scritto in un comunicato le israeliane Assaf e
Hotline for refugees and migrants – Una mossa intrisa di razzismo e di
completo disprezzo per la vita e la dignità dei richiedenti asilo».
E
aggiungono: almeno due dei sette arrestati hanno subito torture, ma non
hanno mai ricevuto l’asilo. Di quasi 14mila richieste di asilo
accettate, Israele ha riconosciuto solo 10 status di rifugiato, lo
0,07%.