il manifesto 23.2.18
Quando il Pil non fa la felicità, pesa la condanna alla precarietà
Economia.
Il World Happiness Report per lo sviluppo sostenibile, su 155 paesi ci
mette al 48° posto. Un gradino sotto l’Uzbekistan e a pari merito con la
Russia
di Luigi Pandolfi
Dopo i dati sul Pil,
arrivano quelli sul fatturato dell’industria. Che la produzione
industriale fosse cresciuta nell’anno appena chiuso era noto, ora
dall’Istat arriva una conferma: +5,1% rispetto al 2016 (+3,3% solo per
il manifatturiero), miglior risultato dal 2011.
L’altra conferma è
che le imprese il business l’hanno fatto con la domanda estera (+6,1%),
vero motore, in questa fase, della nostra economia.
Nondimeno, a
dimostrazione di quanto siano inadeguati questi parametri per valutare
lo stato di benessere di una popolazione ci sono non soltanto i numeri
sulla povertà e il disagio sociale (il nostro Paese raggiunge livelli
scandalosi), ma anche altri fattori, più umani, perfino emozionali, che
da un po’ di tempo sono entrati a far parte delle statistiche sociali a
livello internazionale. La felicità, per esempio.
COSÌ, SE DA UN
LATO il 2017 si è rivelato un anno importante per la crescita
quantitativa del nostro Paese, la stessa cosa non si può dire della
gratificazione dei suoi cittadini. Sviluppo della persona umana, qualità
della vita, «libertà di essere e di fare e auto-realizzazione»,
opportunità, serenità e piacere, non entrano nel calcolo del Pil, dei
surplus commerciali e dell’inflazione, ma, più di quest’ultimi, danno il
senso della direzione di marcia di una comunità e del livello di
soddisfazione di chi vi appartiene.
Nel caso dell’Italia, la
distonia tra stime quantitative sull’andamento dell’economia ed indici
di benessere e felicità dei cittadini è davvero notevole. L’ultimo World
Happiness Report, classifica stilata dalla rete delle Nazioni Unite per
lo sviluppo sostenibile (SDSN), rileva che il nostro Paese, benché
rientrante nel 16% dei paesi più ricchi al mondo, si troverebbe al 48°
posto (su 155) in quanto a felicità dei suoi abitanti, sotto di una
postazione rispetto all’Uzbekistan, in compagnia con la Russia di Putin.
SUL
PODIO la Norvegia, seguita, nelle posizioni di vertice, da Danimarca,
Islanda, Svizzera, Finlandia, Olanda, Canada, Nuova Zelanda, Australia e
Svezia. Insomma, rispetto ai cittadini di altre nazioni europee (e non
solo), gli italiani sarebbero più sfiduciati verso il sistema e le
istituzioni, si sentirebbero meno liberi di fare i propri progetti di
vita, avvertirebbero maggiormente il peso delle ingiustizie e della
corruzione nelle proprie vite.
SENTIMENTI, percezioni, la cui
importanza è data anche dal fatto che, per il 2017, il documento si è
basato specialmente sulle «fondamenta sociali della soddisfazione», a
partire dalla felicità nel posto lavoro. «La felicità differisce
considerevolmente attraverso lo stato di occupazione, il tipo di lavoro e
i settori industriali. L’equilibrio vita-lavoro, la varietà del lavoro e
il livello di autonomia sono altri fattori rilevanti», è il commento
del professor Jan-Emmanuel De Neve, dell’Università di Oxford.
QUALCOSA
che ha a che fare con la precarizzazione del lavoro (nel 2017 i posti
stabili sono a -117mila), potremmo aggiungere noi, guardando agli
effetti mutageni del Jobs Act sulla qualità dell’occupazione e la
composizione stessa della base occupazionale.
CON LA RIFORMA della
contabilità pubblica del 2016, comunque, il nostro Paese, tra i primi
in Europa, ha introdotto gli «indicatori di benessere equo e
sostenibile» nel ciclo della programmazione economica e di bilancio.
Come
rileva lo stesso Istituto di statistica, «l’inclusione di tali
indicatori costituisce un’innovazione rilevante perché impegna il
governo a considerare le dimensioni del benessere, accanto a quelle più
strettamente economiche, nella valutazione delle politiche pubbliche».
AL
DI LÀ del dato formale, tuttavia, viene da chiedersi se e quanto il
governo si sia impegnato, negli ultimi due anni, nel calibrare i propri
bilanci e le proprie politiche pubbliche sulla domanda di benessere
della popolazione, ovvero se tale impegno non sia stato del tutto
disatteso, visti i provvedimenti che sono stati adottati proprio a
partire dal nuovo corso della contabilità di Stato, dai tagli alla
sanità ed alla ricerca, fino all’imbroglio dell’abolizione dei voucher.