il manifesto 22.2.18
La corruzione della democrazia e la fuga dalle urne
di Paul Ginsborg
Con
l’approssimarsi del 4 marzo 2018 è ancor più chiaro che uno dei
fondamentali banchi di prova posti da queste elezioni non consiste nel
decidere per chi votare, ma piuttosto se votare o meno. Dico subito, a
scanso di equivoci, che ho tutta l’intenzione di andare a votare il 4
marzo.
Andrò a votare perché sono convinto che in democrazia i
cittadini abbiano precisi doveri, oltre che diritti. Ma c’è altro. Ormai
è luogo comune tra amici, colleghi e nella cittadinanza in generale
esprimere indignazione e disgusto rispetto al sistema dei partiti, con
conseguente propensione al non voto. I sondaggi più recenti riguardo
alle prossime elezioni danno l’astensionismo attorno al 34%. Alla fine
del 2016, secondo Demos & pi, la mancanza di fiducia nei partiti
politici si attestava su un drammatico 94%. Ma che cosa è successo?
Come possiamo contrastare il fenomeno? Qui devo limitarmi ad accennare
una riflessione che richiederebbe ben più spazio. Inoltre sono (solo)
uno storico, non un costituzionalista, ma forse la storia in questo caso
può venirci in aiuto.
DAL PERIODO DI ASPRO dibattito politico e
costituzionale tra il 1945 e il 1948 che diede forma in Italia al
sistema di governo rappresentativo, i partiti emersero dotati di un
livello esagerato di potere politico. La loro attività era soggetta a
scarsi controlli esterni di una qualche efficacia, né esistevano vincoli
a tutela della democrazia interna. I motivi di fondo erano svariati,
non solo il tornaconto personale ma anche la necessità di contrastare le
tendenze centrifughe – da sempre temute dalla classe dirigente del
paese. La divisione ideologica e i contrasti superficiali che turbavano
la nuova élite politica trassero in inganno molti giornalisti stranieri
poco addentro alle questioni italiane, ma in realtà garantirono grandi
linee di continuità. Più del 90% dei cittadini si recava regolarmente
alle urne, sia a livello locale che nazionale.
Era l’epoca dei
partiti politici di massa, rassicuranti sotto un certo aspetto, ma sotto
altri molto meno. In particolare il sistema di favori e raccomandazioni
all’insegna del clientelismo e del familismo che affondava
profondamente le sue radici nella storia non fu mai contrastato
attivamente. I democristiani e loro alleati ripresero questi meccanismi
sociali antichi, ma non arcaici, dando loro un nuovo volto. Nel 1957
Giulio Andreotti arrivò addirittura a nobilitare il sistema
clientelistico: «Onore a quanti servono il prossimo in un modesto
contatto umano che restituisce talvolta la speranza a chi non crede più
nella solidarietà degli altri». Peccato che questi longanimi atti di
carità cristiana fossero raramente disinteressati e spesso illegali.
È
SU QUESTE BASI che venne costruita la partitocrazia italiana. I partiti
politici di governo, non ostacolati dai magistrati dell’epoca (tra cui
molti ex fascisti), né da altri vincoli istituzionali, diedero vita a
un’occupazione sistematica dello Stato, spartendosi tutte le posizioni
di potere e di influenza. La corruzione aveva carattere sistemico, non
occasionale, al pari dei contatti e degli scambi di favori tra politici e
organizzazioni criminali.
Sono risalito agli esordi della
Repubblica per esplorare, seppur brevemente, quelle che sono le origini
dell’attuale diffusissima alienazione dal sistema politico e del
conseguente astensionismo. Naturalmente analizzare questo complesso
fenomeno richiede tempo e attenzione. Particolare importanza riveste nel
1992 l’esperienza dei magistrati milanesi del pool Mani Pulite, che
nelle aspettative avrebbe ridato slancio e trasparenza alla politica. Ma
così non fu e quella sconfitta ha pesato fortemente su porzioni
decisive dell’elettorato, aumentandone il cinismo, il privatismo e lo
sconforto.
UNA SECONDA RIFLESSIONE riguarda il rapporto tra la
democrazia rappresentativa e quella partecipativa o diretta. Gli
articoli 50, 71 e 75 della costituzione italiana fanno tutti riferimento
alla possibilità di utilizzare metodi «diretti» di espressione della
volontà popolare. Il diritto di avanzare petizioni, di proporre leggi di
iniziativa popolare e soprattutto di chiedere referendum abrogativi è
un’arma importante, seppur smussata e limitata, per consentire ai
cittadini di avere una qualche voce in capitolo nel governo del paese.
Negli
ultimi 20-30 anni a livello internazionale si sono registrati tentativi
radicali di collegare i due tipi di democrazia, dei quali il «bilancio
partecipativo» di Porto Alegre in Brasile non è che il più famoso. Il
principale elemento distintivo in questo caso è la partecipazione dei
cittadini al processo deliberante, attraverso sia il dibattito che la
decisione su questioni specifiche.
IN ITALIA INVECE la
partitocrazia ha insistito molto sulla necessità di partecipazione,
intesa però come una vaga forma di consultazione, realizzata attraverso i
meccanismi più moderni, ma priva di poteri decisionali. Le assemblee
fiorentine di Matteo Renzi alla Leopolda sono state esempio perfetto di
questo trompe-l’oeil. Nel novero rientrano anche la cosiddetta
«democrazia digitale» grillina, che maschera lo smisurato potere
esercitato all’interno del movimento da Beppe Grillo e dal figlio del
suo migliore amico, nonché il netto rifiuto da parte di tutti i partiti
di dare attuazione al risultato del referendum sull’acqua come bene
pubblico. Il sistema partitico italiano non riconosce affatto che
l’attività costante della partecipazione garantisce, stimola e controlla
la qualità della rappresentanza. La realtà è invece che quanto più la
democrazia rappresentativa è corrotta e decrepita e quanto più la
partecipazione è inefficace e vuota di potere, tanto più è probabile che
una massa sempre più ingente di cittadini diserti le urne.
Articolo
pubblicato come prefazione all’opuscolo di Libertà e Giustizia «Verso
il 4 marzo, una bussola» a cura di Tomaso Montanari, Francesco Pallante e
Valentina Pazé e disponibile sul sito internet dell’associazione.